LA NIÑA e il coraggio di uscire da sé per ritrovare il contatto col mondo
Nel suo nuovo e coraggiosissimo album “FURÈSTA”, in uscita domani venerdì 21 marzo, la cantautrice è tornata alle radici della musica napoletana spogliandola di ogni produzione. Un modo per tornare a studiare e riacquistare il carattere comunitario in una musica che oggi è sempre più individualista
Foto di Gesualdo Lanza
Da ogni crisi muore e nasce qualcosa. Nel caso di Carola Moccia, in arte LA NIÑA, la rinascita è passata attraverso un doloroso processo di «dimenticanza di sé» ed è culminata in uno dei dischi più coraggiosi di questo primo trimestre del 2025. FURÈSTA è un album che affonda nelle radici più profonde della musica tradizionale napoletana, rendendo ancora più radicale quella ricerca iniziata con il disco precedente. Se VANITAS rielaborava in chiave elettronica e urban i suoni folk, questa volta non c’è compromesso se non in un paio di brani. Il viaggio a ritroso e lo studio che LA NIÑA ha compiuto, recuperando anche spartiti di artisti anonimi del Quattrocento, è stato interamente volto riacquistare un rapporto viscerale e “tattile” con la musica.
Il disco inizia con Guapparìa e il suono dei contadini e della tammurriata vesuviana. Un genere che torna spesso nel corso delle varie tracce e che rappresenta quel senso di comunità che oggi sembra mancare. «La musica contemporanea è incentrata sull’individualità. Il ruolo delle voci e degli strumenti che sono nel mio disco è quello di ribaltare questa tendenza» spiega Carola. Tuttavia, il percorso è tortuoso e passa da una riflessione esistenziale cupa e stracolma di domande che rimangono spesso senza risposta. FURÈSTA è anche arricchito da due collaborazioni internazionali: il poliedrico artista egiziano Abdullah Miniawy e la producer egiziana-iraniana KUKII. Due contaminazioni molto più vicine di quanto possano lasciar pensare e che danno corpo al manifesto del disco: la condivisone.
L’intervista a LA NIÑA
Rispetto a VANITAS, FURÈSTA è un disco inverso: a livello sonoro molto più personale e vicino alla musica tradizionale, sul piano testuale invece molto più universale. Come mai questa scelta?
Non è stata proprio una scelta, ma tutto è derivato da una profonda crisi creativa e una certa stanchezza nei confronti del linguaggio della musica in generale: sia globale che mio. Provavo proprio un senso di inadeguatezza e ho avuto il bisogno di lasciare tutto e staccare. Non ho ascoltato quasi più musica per un lungo periodo per ritrovare una vibrazione un po’ più intima e ancestrale. Poi mi sono lasciata contaminare da cose e sonorità che rispecchiassero il mio stato d’animo e le numerose domande che avevo in testa.
Che tipo di domande?
Molto esistenziali, sulla vita, la cultura, l’identità, la società, la mia città, la mia lingua e sul senso di quello che accade politicamente a livello globale. Però a tutte queste domande non volevo rispondere, desideravo solo riportarle alla mia attenzione e a quella dei miei ascoltatori. E quindi ho scavato moltissimo e, rispetto al passato, ha poco a che vedere con la città, ma più con la campagna e la natura rurale. Per questo non c’è una contaminazione urban, ma legata alla musica quattrocentesca, trecentesca e a tutte quelle opere anonime che poi sono state recuperate negli anni ’60 e ’70 dai drammaturghi italiani. Nel processo creativo ho proprio studiato e mi sono immersa in spartiti antichi perché volevo provare in modo diretto quella vibrazione che non è ancora discografia, quel linguaggio che nasce nel popolo e che non è ancora teatro o canzone.
In tal senso mi ha colpito l’inizio del disco con l’interpolazione del documentario Voci del popolo contadino, voci di tamburo sulla tammurriata vesuviana.
Sì, quella è stata una buona intuizione. È una dichiarazione d’intenti, un manifesto utile per traghettare chi ascolta nella dimensione extraurbana, rurale e sensoriale del disco. La cosa meravigliosa della campagna è che è ingenua, pura e ancora non smaliziata. Non è un caso che proprio questa innocenza ha ispirato nella storia della musica molti artisti. La musica è espressione della necessità e della sopravvivenza. Vedere suonare la gente nei campi salernitani, con quei tamburi, mi dona tuttora delle emozioni uniche che ho cercato di riprodurre nell’album.
Il senso di comunità di cui parli è evidente nella natura corale. Mi viene in mente Mammama’. È stato anche lì un processo naturale?
Sì, volevo ridurre tutto all’osso, basare tutto sulle voci. Inscenare questa esortazione napoletana in coro è stato molto soddisfacente, oltre che un grande scambio di energia tra essere umani. Mammama’ è stata una sfida anche perché desideravo capire se fossi capace di registrare un brano dal vivo che mi soddisfacesse. Infatti, è uscita prima la versione live. Questo disco, in generale, è stata una scusa per diventare alunna di nuovo e studiare la tecnica.
Questo approccio corale in che modo ha cambiato il tuo modo di scrivere?
Nel momento in cui le immagini sono evocate da una moltitudine, cambia la prospettiva lirica e sonora. Non c’è più l’ego, ma solo empatia e socialità. Questo ha influito anche sui testi più intimi. Con FURÈSTA ho imparato a riflettere su di me includendo il valore degli altri, perché anche nei ricordi e nelle memorie personali ci sono esseri umani con i loro sentimenti. Vedere sempre gli altri anche quando si pensa a se stessi: questa è stata una liberazione preziosa.
Oggi il genere principe di Napoli, oltre al neomelodico, è il rap. Il folk come sta, invece? Secondo te può conquistare un suo spazio?
Credo la gente ne senta il bisogno. Se ne rende conto anche perché inconsciamente si connette a quei suoni che sono all’origine della nostra cultura e che, seppur “sporcati” dalla città, rimangono comunque vicini alle radici. Lo noto anche dai feedback che sto ricevendo nel corso di queste prime presentazioni dal vivo di FURÈSTA. Ciclicamente il folk torna sempre.
Il singolo che hai scelto prima dell’uscita del disco è Figlia d’’a tempesta: un inno di empowerment femminile, meno ancorato alla ruralità di cui parlavamo prima.
Io volevo esplorare l’universo femminile in maniera meno speranzosa. Avevo necessità di esporre la rabbia che proviamo e lo stato delle cose attuale. Doveva arrivare la cruda verità, ovvero che le cose non sono cambiate molto. L’incedere della pizzica scomposta distorta e il rap corale della seconda strofa incutono però anche molta forza e raccontano musicalmente come, sia nella contemporaneità che nel passato delle campagne rurali, il ruolo delle donne è abbastanza critico. Nonostante i miglioramenti c’è ancora questa criticità e parlo a livello globale. Basti pensare alla situazione in Iran.
Una delle collaborazioni del disco è Sanghe con Abdullah Miniawy. Com’è nata e come mai il tema del sangue?
Mi sono artisticamente innamorata di lui durante un festival a Napoli. Fin dalla prima volta che ci siamo incontrati c’è stata subito intesa tra noi, perché anche se da posti lontani, veniamo dalla stessa cultura. Io avevo già ultimato l’album, ma gliel’ho inviato comunque chiedendogli se volesse collaborare in qualche modo. Abdullah ha scritto una poesia sul senso della guerra – nasce come poeta – e sull’origine dei conflitti umani. Infatti, il brano è una riflessione apolitica, ma più storica e filosofica. Citiamo anche i Saraceni, per esempio. Tutti siamo legati dallo stesso sangue sanguinario e forse è per questo che siamo destinati alla guerra.
Quasi tutti i testi di questo disco sono molto cupi. L’unica eccezione è forse la traccia finale Pica Pica, che invece lascia un senso di speranza.
L’ho scritta per salvarmi da tutte le riflessioni intense dell’album. È dedicata alle due gazze che mi vengono a trovare in giardino ogni volta che inizio a cantare. Una cosa da brividi, mi viene da pensare che siano degli antenati. Il titolo ha un doppio significato: è il nome scientifico della gazza ed è anche un’espressione del napoletano. Mettersi pica pica vuol dire intestardirsi e provare finché non la si ha vinta. Io ho immaginato che, alla fine di questo sogno a occhi aperti in cui rifletto sulla morte, gli uccelli vengano a rincuorarmi. È un esorcismo finale per combattere la fragilità umana nei confronti della finitezza. Spero che trasmetta quel medesimo senso di libertà e la stessa speranza che dona a me.