Laila Al Habash: «Cerco un equilibrio nel riappropriarmi della mia età»
Il nuovo album della cantautrice uscirà il 24 ottobre e si intitola “Tempo”, un progetto che nasce in maniera sibillina, da un sogno

«Uno dei motivi per cui sono veramente contenta di fare musica è che mi rendo conto che io, per quanto mi possa fare male nella vita, in realtà non mi farò mai male del tutto, perché ho la musica. Male che vada, diventa un ritornello, una canzone», ci ha raccontato Laila Al Habash presentando il nuovo album, Tempo, in uscita venerdì 24 ottobre.
Laila ha iniziato a lavorare al disco qualche anno fa. Era il 2022 e, come ci racconta la stessa artista, il titolo del suo nuovo progetto nasce da un sogno che ha fatto. L’album è frutto delle sue esperienze, ma ha voluto anche allontanarsi dalla sua comfort zone e provare nuovi sound. L’impronta resta pop, ma spazia anche tra sonorità hip hop, indie, brasiliane e mediorientali. Traspare inoltre l’esigenza di vivere la sua età da ragazza di 26 anni e di provare a vivere nel presente, pur guardando sempre nello specchietto retrovisore verso il passato, non solo nei ricordi ma anche nella musica.
L’intervista a Laila Al Habash
Il tuo nuovo album si intitola Tempo. Che valore ha per te il tempo?
Ha un valore enorme. Da quando ho iniziato a scrivere questo disco è diventata una cosa che c’è sempre stata e non avevo mai davvero messo a fuoco. Adesso mi sembra di non riuscire a vedere altro che questo. È una cosa di cui nessuno sa parlare bene, ma tutti sappiamo che cos’è. Per me ha un valore molto importante, probabilmente la valuta del giorno d’oggi è il tuo tempo, inteso in mille direzioni.
Ad esempio?
Sicuramente concentrarmi sul tempo mi ha fatto capire che non stavo per niente nel presente, quindi un po’ un esercizio che sto portando avanti. Dall’altra parte lo scorrere del tempo ti fa riflettere sulla velocità con cui lo vivi, no? Anche in fisica il tempo è il rapporto con la velocità. Quindi, se tu vivi delle cose in maniera frenetica gli anni ti passano in un secondo, se invece cerchi di rimanere nel momento e di apprezzare quello che hai, di pensarci, soprattutto a come spendi il tuo tempo, sicuramente la qualità cambia.
Era un momento della mia vita in cui sentivo che c’era bisogno di concentrarmi su questo, anche in rapporto alla mia età, perché mi è sempre stato detto che sembravo molto più grande della mia età o che parlavo come una persona più grande, il che mi ha sempre lusingata, ma allo stesso tempo mi rendevo conto che a volte ero proprio intrappolata in un corpo troppo giovane. Cerco un equilibrio nel riappropriarmi un po’ della mia età.
Sei più una persona che rimugina il passato, vive il presente o fantastica sul futuro?
Rimugino tantissimo sul passato e penso tantissimo al futuro, da sempre. Ho sempre avuto questa fame di futuro, forse è iniziato tutto con gli oroscopi, con l’astrologia. Vivere il presente è la cosa più difficile da fare perché mi sembra sempre poco interessante. E invece poi, quando passa il tempo, mi guardo indietro e dico: “No, sta cosa non era poco interessante, dovevi starci di più”.
Passando alla prima traccia dell’album, Ritento, ho notato una citazione di Bruno Lauzi quando dici “sincera come l’acqua di un fiume di sera”, tratta da Amore caro, amore bello.
È proprio uno statement quel pezzo. Racchiude tanto dell’intento che volevo mettere nel disco. È una promessa quella canzone, sai quando la gente si fa i tatuaggi per ricordarsi una cosa che fa? Ecco, io ho fatto una canzone che alla fine è come un tatuaggio, cioè rimane per sempre.
Cito Bruno Lauzi in un suo pezzo che adoro. Per me lui è uno degli autori più bravi della storia a scrivere d’amore, secondo me è stato irreplicabile e io ho sempre attinto molto dalla cultura della musica italiana degli anni ‘60 e ’70. Poi questa cosa del parlare un po’ con le canzoni del passato l’ho sempre un po’ fatta nei dischi. Io sono molto attaccata allo storytelling dei pezzi.
Che cosa ti piace della musica di quegli anni?
Mi colpisce il modo di raccontare che è molto diverso da come facciamo adesso. Ti faccio un esempio: in uno dei miei dischi preferiti di Mina c’è una canzone dove lei parla di quanto le piace il fatto che un uomo fumi la pipa. È una cosa microscopica, è un gesto. Le canzoni prima parlavano anche di una cosa veramente piccola su cui però potevi costruire tutto un immaginario, che è una cosa che invece adesso non si fa più tantissimo perché forse la tendenza degli autori è anche di fare delle canzoni in cui puoi vederci mille cose tue e mai una specifica.
A proposito di Mina, in Mi servi si sente la sua influenza. Chi è “l’uomo vero” che citi?
Quella frase è proprio una provocazione. Mentre la scrivevo, Pietro (Golden Years, ndr), che ha prodotto gran parte del disco, mi ferma e mi fa: “Ma quindi pensi che esistano uomini veri e uomini non veri?”. Innanzitutto è una citazione di Come ti vorrei, un pezzo di Iva Zanicchi. Lei a un certo punto fa una discesa con la voce nel pezzo su questa frase che mi fa impazzire. Ovviamente non non penso che esistano uomini veri e uomini non veri.
La mia provocazione sta nel dire che io magari mi sto facendo questo problema per una canzone d’amore che sto scrivendo, quando alla fine a me sembra che gli autori alle donne dicano solo che sono belle, non dicono nient’altro. Trovami una canzone d’amore di un uomo senza dire della bellezza. Io non dico mai che sei bello, non mi interessa proprio. È una piccola cosa che ho tenuto per scrivere una canzone d’amore come fanno i maschi.
I tuoi brani sono cantati principalmente in italiano, ma sono presenti anche inglesismi e parole arabe. Raccontaci meglio questo tuo altro lato.
Il ritornello in inglese in Sahbi è nato proprio per esigenze. Ero fissata che quella canzone doveva avere un drop strumentale al posto del ritornello, ma non riuscivo proprio a trovare una quadra. Poi ho pensato che essendo un brano più disco alla Donna Summer il ritornello dovesse essere in inglese, una frase breve tipo mantra. Dall’altra parte io sono per metà palestinese e un pochino di arabo lo capisco. L’occasione di parlarlo in un pezzo era una cosa che mi piaceva e che volevo fare da un po’.
Sahbi tradotto significa “amico”?
È tipo il nostro “bro”, fratello, compagno. Nel pezzo racconto di una serata dove c’è un disturbatore che ti dà fastidio e mi faceva ridere l’idea di rispondere nella canzone ad uno scocciatore con non parlo italiano, LaAatakalam ʾIṭāly. Perché so di sembrare straniera, ma non araba. Non ho una faccia proprio classica italiana, mediterranea. Fa parte anche un po’ della mia identità.
E invece Tuareg?
Tuareg è il nome di una tribù nomade che vive tra il Mali e il Sahara, in Africa. Nella canzone si parla di una persona che una volta mi disse: “Qua siamo Tuareg”. La canzone parla della Sicilia, del mare, delle olive. Mi ricordo che questa persona l’ho incontrata in una giornata caldissima e disse questa cosa e mi è rimasta impressa. L’immagine che volevo dare era quella di una persona così tanto abituata a delle cose estreme, ad un’isola, ad un calore, ad una terra aspra, che però vive tranquillamente “come un Tuareg”.
Ho notato dai social che hai rimandato l’annuncio del tuo album per la manifestazione pro-Pal.
Non avrei potuto fare altrimenti. Ovviamente non è che l’avevo programmato, però In un momento del genere in cui ci sono guerre dappertutto, un genocidio, delle cose gravi, è importante scendere in piazza. Sono tutte cose per cui la mia promo può ampiamente stare in pausa. Facciamo un mestiere, noi che parliamo con i nostri sentimenti, con le nostre parole che è fin troppo e inevitabilmente egoriferito. Però non esisto solo io e non esistiamo solo noi con i nostri stupidi programmi promo e quindi, cioè, ogni cosa che io metto fuori nel mondo la metto in un mondo che risponde di conseguenza. è una cosa di cui non riuscirei a non parlare anche se facessi altro.
Tornando invece alle tracce, Timido è invece figlio della tua esperienza in Brasile. È nata lì?
No, è una canzone che è nata quando sono tornata dal tour che ho fatto in Brasile nel 2023 in cui mi sono divertita tantissimo. Appena sono arrivata ho notato che le persone che avevo intorno mi facevano notare quanto io fossi timida. Sai che vuol dire? Nessuno in vita mia mi ha mai detto che ero timida. In confronto a loro, lo ero. Volevo fare una canzone che fosse un po’ una sfida con me stessa e che mi levasse dalla mia comfort zone. è stato un esperimento, non avevo mai fatto un qualcosa con un ritmo un po’ tropicale.
In Che lavoro fai muovi invece delle critiche. Ci racconti un aneddoto dietro a questo brano?
Qui volevo fare un pezzo che stringesse l’occhio alla drum and bass e parla di questa scena: io sono nata e cresciuta in un posto di provincia e adesso vivo tra Roma e Milano. A un certo punto mi sembra di vedere una persona che mi ricorda troppo un mio amico quindi penso: “Dov’è questa persona adesso?”. E così sto facendo l’ennesima conversazione inutile sul lavoro. A Milano subito ti chiedono che lavoro fai, e alla gente interessa molto. A Roma succede molto meno. Io sono privilegiata perché è un lusso poter scegliere che lavoro fare, ma non è quello che determina chi sei.
Desiderio è invece la traccia più soul dell’album. Dici anche che il desiderio ti fa sentire “triste e sensuale” e che “brucia e non muore mai”: raccontaci meglio.
Secondo me è la più particolare del disco perché è senza struttura. Non è diretto a nessuna persona. Parlo del desiderio nella sua forma più pura, nel senso che è una cosa che vive se hai fame, se tu la soddisfi non desideri più niente, no? Invece il desiderio è proprio questa mancanza. Volevo catturare questa sensazione che non mi sembrava di poter fare in un altro modo, cioè questo volersi anche un po’ concedere al desiderio, ma essendo triste perché sai che tanto non lo raggiungi.
A proposito di desideri, cosa ti auguri per il futuro?
Un sacco di cose. Desidero che vada molto bene e che venga ascoltato da un sacco di gente anche non solo in Italia. E poi già che ci sono vorrei tornare a Roma nel prossimo anno, ma con calma. Milano comunque è una città che mi tratta bene.