“Long Story Short” è il sogno lucido di Laila Al Habash: l’intervista
Una canzone nata dopo un sogno, la competizione con se stessa, il tempo come strumento per conoscersi meglio e l’importanza del fatto che l’attivismo non rimanga una performance social che dura 24 ore: per farla breve, una lunga chiacchierata con la cantautrice romana
Nonostante l’estate sia ormai alle porte, le giornate di sole a Milano si contano sulle dita di una mano. Approfittando di una di queste, per la nostra chiacchierata Laila Al Habash mi dà appuntamento in un bar del parco, e la sensazione mentre iniziamo a parlare ancora a registratore spento è quella di una pausa caffè con un’amica. Tanto che uno dei primi argomenti che emergono è quanto sia difficile essere una ragazza in questo spazio tempo. Una parola che – insieme a sogni, da cui nascono anche alcune delle sue canzoni – ricorrerà spesso in questa intervista, dal momento che proprio il tempo è uno dei temi che Laila ha più sviscerato nelle cinque tracce di Long Story Short, il suo nuovo EP uscito oggi (che la vede per la prima volta in veste di produttrice insieme a Niccolò Contessa, Matteo Parisi e i B-CROMA).
Il tempo che è passato dal suo primo album, Mystic Motel (uscito nel 2021), quello come risorsa per conoscere davvero chi sei e consegnare alle persone una versione sempre diversa di te, quello in relazione al lavoro e ai ritmi frenetici dell’industria (“ma”, come mi racconta, “che non riuscirei a seguire per quello che è il mio modo di lavorare”) e quello di cui ha bisogno di prendersi per esporsi con cura sulle cause che sente estremamente. Come quella palestinese, per cui è fondamentale che “l’attivismo non resti una performance social che dura 24 ore ma che sia supportata da gesti concreti”.
L’intervista a Laila Al Habash per “Long Story Short”
Nello skit finale dici che “Il tempo è l’unica cosa che è di tutti ma non ce l’ha mai nessuno”. Che rapporto hai con questa cosa?
Quella frase l’ho sognata! Ricordo di essermi svegliata con il ricordo vivissimo di me che dicevo questa cosa, anche perché per me i sogni e le canzoni hanno un legame strettissimo. Il tempo è un concetto che in particolare negli ultimi anni mi ha un po’ attanagliato. Io sono una persona molto frenetica, devo sempre fare mille cose, però dall’altra parte questa cosa mi faceva stare male. Quindi mi sono avvicinata molto alla meditazione e ho iniziato a vivere le mie giornate in maniera differente.
E come vivi il tempo in relazione al tuo lavoro? Mystic Motel era uscito quasi tre anni fa ormai.
L’industria musicale detta sicuramente dei tempi frenetici, ma tutti gli artisti che ascolto non seguono queste regole. È vero, ci sono persone che fanno più dischi all’anno e sono felicissima per loro. Ma io non ce la farei mai per quello che è il mio modo di lavorare. Poi magari questa cosa diventa più complicata stando in un’industria, ma preferisco fare meno cose però che abbiano più spessore. Anche se sono stata ferma due anni e mezzo sento comunque di aver fatto un sacco di cose e mi piace consegnare alle persone qualcosa che sia diverso dalla versione precedente di me, che possa anche mostrare una mia crescita.
In che momento della tua crescita arriva questo EP?
Diciamo che tanta della mia produzione online è roba che ho fatto veramente da piccola, e penso sia fisiologico che più cresci, più cose hai da raccontare. Ad esempio i rapporti di amicizia o amorosi che vanno e vengono: questa cosa mi ha dato modo di confrontarmi, di capire anche un po’ meglio le dinamiche della mia vita, le persone, come io mi attacco a loro e cosa permetto loro di fare nei miei confronti. Da quando poi le mie canzoni hanno smesso di essere solo per me ho iniziato ad essere molto competitiva.
Cioè?
Competitiva con me stessa, perché non credo alla competizione con gli altri nell’arte. Cerco sempre di migliorarmi e studiare le cose che nelle mie canzoni possono essere perfezionate. È un po’ come se stessi sempre con il coltello tra i denti nei miei confronti. Ora mi sento molto più a fuoco su quello che voglio. Infatti ho seguito tutta la direzione artistica del progetto.
Prima parlavi di rapporti sentimentali e di amicizia: l’amore per te è una cosa totalizzante?
Quando scrivo mi piace partire da un’emozione e spremerla fino all’osso, e l’amore è quella che mi viene più facile quindi ne parlo tanto. Io poi sono una persona molto emotiva, mi piace trovare empatia in qualsiasi cosa. Anche nei suoni.
Gli ultimi dischi con cui hai empatizzato?
Sto ascoltando tantissimo il disco di Sudan Archives, quello di Colapesce e Dimartino. Poi mi è piaciuta tantissimo questa svolta jungle di Anderson .Paak con Fred Again.. Ah, e a proposito di jungle anche Knowledge di M-Beat mi sta piacendo un botto.
Long Story Short è – appunto – una raccolta di storie. Qual è quella a cui sei più legata?
Forse ti direi Giura, il brano che ho fatto con Niccolò Contessa. È una canzone che è nata con un sample di musica giapponese anni ’60 che sono andata a scovare ed è una delle poche che ho fatto che racconta una storia che non ho vissuto in prima persona. Mi ricordo che quel giorno non ero proprio a fuoco, non sapevo bene cosa scrivere, e Niccolò mi ha detto “Inventa, prova a metterti nei panni di un’altra persona”. Così ho scritto una canzone sui dieci secondi che seguono un sogno molto vivido, su quel momento in cui sei immobile e non riesci a capire se ciò che hai visto è vero o meno.
Ma sei una di quelle persone che quando fa un sogno si sveglia in piena notte per segnarselo?
Assolutamente sì perché se no poi non me lo ricordo! Bisogna sempre segnarsi i sogni perché è un allenamento, poi te li ricordi di più e soprattutto inizi a capire come sogni. Cosa che ti aiuta un sacco a leggerti. I sogni sono una grande risorsa per capire noi stessi.
In questo EP ti sei anche lanciata nella produzione.
Sì, è la prima volta che produco una mia traccia e sono molto soddisfatta. Di solito quando faccio qualcosa mi prende quella cosa di dire “C’è qualcun altro più bravo di me a farla”, invece stavolta mi sono detta “Ma sai che c’è? Mi suona bene, non importa se non si fa così!”.
Mi sono divertita molto a produrre questo brano perché ho messo dentro una mia amica che mi dice che sono come Hannah Montana, suoni che non sono di strumenti musicali ma quotidiani e c’è questo urlo iniziale che si chiama zaghrouta che è una sorta di ululato acutissimo che fanno le donne arabe prima di lanciare un messaggio, in particolare nelle occasioni cerimoniali. E il pezzo poi si chiude con un’altra frase in arabo che vuol dire “Stai tranquilla, è tutto a posto”, quindi ho un po’ recuperato le mie origini.
A proposito di questa cosa e dell’esporsi per la causa palestinese, ultimamente mi hanno colpito molto le mobilitazioni dei fan di Taylor Swift che la esortavano in massa a usare la sua risonanza planetaria per parlare di Gaza perché non lo ha mai fatto. Io trovo che da una parte sia importante che un personaggio così esposto usi il proprio potere comunicativo per lanciare dei messaggi, dall’altra sarebbe come svalutarli nel momento cui lo fai solo perché ti viene richiesto e non perché è una cosa che senti e in cui credi. Da artista e persona coinvolta in prima persona tu come la vedi?
Io ho due piedi in troppe scarpe in questa faccenda. Io mi sono sempre esposta per la Palestina, lo faccio adesso che ho un seguito e lo facevo prima quando ero rappresentante di istituto al liceo e organizzavo le assemblee per parlarne. Per me esporsi è una cosa che richiede tempo e cura, anche solo per selezionare i materiali e le notizie da diffondere.
La cosa che mi fa un po’ paura è vedere le persone che pretendono quasi una performance da parte degli artisti senza poi andare a verificare se sia effettivamente supportata da fatti reali come donazioni, scendere a manifestare in piazza, andare a sentire un dibattito o ascoltare le voci dei palestinesi.
Tu percepisci che le persone si aspettano qualcosa da te?
Diciamo che per me non espormi sarebbe impensabile, è proprio una cosa naturale e non riuscirei a non farlo. Dall’altra parte vorrei avere i miei tempi e la mia modalità. Dopo il 7 ottobre un sacco di gente mi ha scritto arrabbiatissima perché magari non avevo postato qualcosa per tipo 48 ore e mi chiedevano “Posso sapere perché hai deciso di stare zitta?”. Magari stavo zitta perché ero molto in pensiero e mi veniva la tachicardia anche solo a prendere il telefono in mano? Credo che l’aspettativa del pubblico nei confronti delle performance social degli artisti debba ridimensionarsi.
Anche perché, e non è il tuo caso, ma l’attivismo da social senza fatti reali serva a ben poco.
Non serve a niente se non a fare le storie, e le storie durano 24 ore. E poi? Scendiamo di più in piazza, supportiamo le organizzazioni, i medici. Servono gesti concreti.