Interviste

“In Memoria Di” non ci farà dimenticare di Lamante: l’intervista

Essere donna e fare musica come atto politico, liberarsi da se stessi per essere davvero liberi, un album nato (anche) per rompere una tradizione familiare: la cantautrice veneta è una delle protagoniste del programma Up Next Italia di Apple Music

Autore Greta Valicenti
  • Il4 Settembre 2024
“In Memoria Di” non ci farà dimenticare di Lamante: l’intervista

Lamante, foto di Kimberley Ross

“L’arte nella mia famiglia è sempre stata una questione di vita e di morte. A casa mia sono due le cose per cui si litiga: l’arte e la politica”. Forse basterebbe questa frase, che mi dice quando le chiedo quanto le discipline artistiche fossero importanti per lei e i suoi cari, per capire il modo in cui Lamante – al secolo Giorgia Pietribiasi, cantautrice veneta classe 1999 – sente e vive la musica. Con urgenza, senza mezze misure, scavando dentro fino quasi a sanguinare. Era così da piccola, quando a 8 anni – al suo primo concerto dei Massimo Volume – ha dovuto dire a suo padre di portarla a casa perché “sento che sto per morire”, tanto era forte la sensazione che quella musica le stava provocando in corpo, ed è così ora, che di anni ne ha 25 e ha pubblicato In Memoria Di, il suo primo album uscito a maggio.

Un debutto deflagrante prodotto insieme a Taketo Gohara (che, dalle parole di Giorgia, intuiamo sia stato quasi un maestro spirituale, oltre che professionale) che in 11 tracce ruvidissime e fragilissime allo stesso tempo e che suonano punk come quei dischi che ora in Italia non ci sono più racchiude tutto e lo fa in modo estremo. Cosa si prova ad essere donna e fare musica come atto politico, il processo di liberazione da se stessi per essere liberi davvero, la perdita e il lutto, l’amore che è anche sporco, e soprattutto la rabbia che non è solo sua ma “di tutte le donne della mia famiglia” che con questo album riscatta, rompendo una tradizione familiare che voleva che a portare avanti l’arte fossero gli uomini e che la rende per questo traditrice.

Il tutto costruito sulle ceneri di una provincia del profondo Veneto segnata dalle lotte operaie, dai movimenti extraparlamentari degli anni ’70 e dal fantasma dell’eroina. Un disco così umano e disturbante nel suo essere maledettamente vivido e reale che ci fa dire che no, di Lamante, noi, non ci dimenticheremo facilmente.

Lamante è tra le protagoniste di Up Next Italia, il programma di Apple Music orientato a identificare, mostrare e far emergere il talento delle stelle nascenti. Il prossimo 12 settembre si esibirà anche nell’evento dal vivo organizzato da Apple Music in Piazza Liberty a Milano. Con lei saliranno sul palco anche Anna Castiglia, Assurditè e Sarah Toscano.questo link è ancora possibile registrarsi per la serata.

Up Next Italia di Apple Music: intervista a Lamante

Il disco si apre con Come volevi essere: cosa voleva essere Giorgia da bambina?
Già da piccolina avevo le idee molto chiare su quello che avrei voluto essere. Da bambina avevo questo piccolo foglio in cui avevo scritto tutto quello che avrei dovuto fare nella mia vita per essere quello che volevo con tanto di firma.

Quindi una cosa super ufficiale…
Sì, sì, assolutamente! Per la Giorgia bambina avrei dovuto pubblicare un album, fare un film entro i 25 anni e entrare in Parlamento con un partito che si chiamava I Testimoni di Giorgia.

Sul primo ci sei, sul terzo forse c’è ancora un po’ di lavoro da fare, ma sul secondo?
In realtà sto lavorando a un po’ di corti con il mio compagno che è il regista dei miei videoclip, perciò anche su quello sono sulla buona strada!

Comunque politica a parte la Giorgia bambina è sempre stata focalizzata sull’arte.
Sì, io ho sempre saputo che quello che volevo fare era lavorare in campo artistico, essere un’artista poliedrica, e questa volontà per il momento si è focalizzata sulla musica…

In Non chiamarmi bella canti che sei “un’anarchica mancata”, però In memoria di a suo modo è un po’ anarchico. È molto diverso da tutto quello che si sente in giro e che funziona ultimamente, suona quasi più come un disco alternative rock italiano di qualche anno fa…
È vero. L’altro giorno ho fatto una data nelle Marche e ho conosciuto Rachele Bastreghi. Ero lì che stavo strimpellando e lei è venuta da a dirmi “Mi piace come suoni perché il tuo suono ricorda gli anni 90, quando si cantava per necessità”. Riguardo all’essere un’anarchica mancata, quella frase è preceduta da “ciò che è giusto lo decido io”, in cui io ragiono proprio sul concetto di libertà.

Che per te è?
Credo che la più grande libertà sia potersi liberare da se stessi. Non tanto fare ciò che si vuole o essere come si vuole, perché spesso ciò che siamo non è ciò che siamo davvero, ma il frutto di un sacco di circostanze o di vita vissuta. Ma per capire questa cosa ci vuole un processo di liberazione da sé stessi.

E in questo album l’hai fatto?
Penso di averci provato. Il disco si chiama In memoria di perché si gioca tanto sulla mia morte. Anche sulla maglietta c’è il mio necrologio, perché la morte della mia figura è vista come quella liberazione da sé.

Solo la morte?
Anche l’amore ci libera da noi stessi. Per me è una cazzata che l’amore è assenza di morte, anzi, secondo me è il sentimento più vicino che ci sia perché quello è l’unico momento della nostra vita in cui non siamo soffocati dal nostro cazzo di riflesso e per un secondo ci liberiamo di noi. L’amore è il sentimento più anti-capitalista e più rivoluzionario che esista. Per me amare è un gesto ancora più politico di andare in piazza.

La politica è un elemento che si intreccia molto alla tua storia personale e a quella della tua famiglia, che è un po’ il fulcro del tuo album.
Sì, anche se in questo caso io sono un po’ la traditrice della mia famiglia. I miei genitori hanno fatto politica negli anni ’70 a Schio, un luogo che ha una storia importante per quanto riguarda i movimenti extraparlamentari che lottavano per la libertà dei corpi, il diritto al divorzio… Mio padre è un veterano di quell’epoca, e io mi sono trovata a spiegargli che per me fare musica in Italia e farlo da donna è una cosa politica. Parlare d’amore nel modo in cui io faccio è fare politica.

Ci sono delle artiste che ti hanno particolarmente ispirata da questo punto di vista?
Sicuramente Carmen Consoli. Quando ho scoperto YouTube io ascoltavo già la sua musica, ma non l’avevo mai vista in faccia perché ho questa cosa di non voler vedere le immagini dei cantanti, però a un certo punto mi sono detta “Ma io forse lei la voglio vedere”. Quindi mio papà digita “Carmen Consoli Sanremo 93” e vedo questa donna coi capelli corti, i pantaloni in pelle e la chitarra elettrica che scende dalle scale dell’Ariston. Per me è stata un’epifania.

Ma perché non vuoi sapere che faccia abbiano gli artisti?
Ti racconto questa cosa: Internazionale ha questo format in cui i genitori inviano una piccola lettera e qualche mese fa una mamma diceva di dover portare la figlia di 10 anni a New York e di star discutendo con il marito se farle vedere dei film, e soprattutto quali, per spiegare alla bambina cosa andrà a vedere. La risposta del giornalista era “Quanto è bello sapere che c’è una persona in questo mondo che ha 10 anni e che non ha minimamente idea di come sia New York” e quindi di non farle vedere niente, perché quello sarà uno dei flash che le cambierà la vita. Questa cosa mi ha colpito molto e penso si possa applicare anche agli artisti.

E il primo flash musicale che ha cambiato la tua di vita?
Il primo concerto a cui sono stata con mio padre. Avevo 8 anni ed ero andata con lui a vedere i Massimo Volume. Una roba cupissima, e mi ricordo benissimo che ho iniziato a sentire che qualcosa dentro di me mi stava toccando, che si stava smuovendo. Un qualcosa di strano che non riuscivo a spiegarmi. Finché non sono stata talmente male che ho dovuto chiedere a mio padre di portarmi a casa. Ho detto proprio “papà ti prego, io sento che sto per morire, portami a casa”. Quindi non ho nemmeno finito il concerto. La mattina dopo mi sono svegliata e ho proprio pensato “non c’è niente che mi abbia mai smosso così nella mia vita figata”. Okay, sentivo che stavo per morire, però ho sentito qualcosa di forte.

Ricordo anche mio padre che suona Battisti con la chitarra e io che mi chiudo in bagno a piangere senza sapere perché sto piangendo. Poi negli anni ho scoperto che questo sentimento si chiama commozione, però ero molto piccola e non riuscivo a capire.

Quindi in casa tua l’arte è sempre stata molto sentita.
L’arte da me è una questione di vita di morte. Quando si litiga lo si fa o per l’arte cazzo o per la politica! Mia madre è una bibliotecaria, quindi legge tantissimo e con lei ho proprio un rapporto di affinità elettiva per quanto riguarda libri, scrittura di poesie… Mio padre era un chitarrista, aveva un gruppo quando era molto giovane. Sin da piccola con i miei genitori ho proprio esperito l’arte. Quando parlo con gli altri per loro è assurdo litigare per un film, un album o un suon, invece nella mia famiglia c’è sempre stata questa cosa.

Mi interessa molto la questione dell’essere una traditrice. Hai detto che la storia artistica della tua famiglia è sempre stata tramandata dagli uomini, mentre tu hai invertito questa rotta. Anche per questo ti definisci come tale?
Sì. Il mio bisnonno era un pittore che ha esposto anche alla Biennale, e ha tramandato questa cosa a mio nonno, che era anche un fotografo e che a sua volta ha passato questa passione a mio padre. L’arte è stata una linea che a congiunto tutti gli uomini in tutte le generazioni, però dalla parte di mia madre provengo da una famiglia contadina, con tutta la tradizione di canti delle mondine. Pensare che provengo da queste donne mi riempie il cuore.

E poi avevo anche l’esempio di mia zia, che faceva parte dei gruppi extraparlamentari con tutti i cori partigiani. Nelle mie zone poi c’è stata una delle poche Brigate Partigiane di sole donne. Tutte le ragazze degli anni ’70 hanno ripreso quelle canzoni le hanno fatte loro, quindi ho cercato di prendere quella cosa e di portarla avanti.

Il tuo modo di cantare infatti restituisce molto quella rabbia.
Perché alla fine un po’ tutti veniamo da famiglie patriarcali in cui la figura del padre per generazioni è stata quella fondante, e questa è una violenza. In questo modo io voglio riscattare le donne della mia famiglia. La mia rabbia non è solo mia, e questo è un sentimento che mi ha sempre protetto molto perché è sempre stato uno slancio molto forte per me per scrivere, insieme alla noia. Quando non hai un cazzo da fare il tuo cervello viaggia a 3000, e quindi ti vengono anche idee che normalmente non ti verrebbero.

E ora che stai a Milano come va con la noia?
Ma posso dirti una cosa? A Milano e nelle città non succede un cazzo! Succede molto di più a Schio. L’altro giorno ero al bar Confine e ho conosciuto questo tipo che era appena arrivato dal lavoro, ma era già ubriaco perché aveva già bevuto tre birre prima e ho imbastito una conversazione incredibile. Un sacco di persone mi hanno chiesto “Ma come sei riuscita a far suonare questo album in un modo così diverso dagli altri?”.

Come sei riuscita?
Semplice, non l’ho fatto a Milano. Tutti i pezzi li ho scritti a Schio, e le prime registrazioni le abbiamo fatte proprio nelle nostre zone per poi spostarci ad Officine Meccaniche a Milano. Penso che il fatto che quell’album non sia stato concepito a Milano e che i musicisti che hanno suonato erano tutti della mia zona, abbiano permesso anche di farlo suonare in un modo diverso. Da me tutti i gruppi nascono prima sul palco che in studio, e questo cambia tantissimo l’approccio che sia nello studio di registrazione. Infatti tutte le canzoni di In memoria di sono state fatte in presa diretta, come se fossimo in un live.

Un brano che mi ha colpita particolarmente è Ciao Cari. Sembra proprio una canzone di addio con cui tu lasci andare definitivamente delle cose.
Esatto, do l’addio ai miei cari e lascio andare le persone che hanno ascoltato tutto l’album. Ciao Cari è forse il pezzo a cui tengo di più di tutto l’album e anche quello che faccio più fatica a cantare live.

Infatti ha dietro una storia molto intensa.
Sì, nasce da un libro di poesie di Stefano Guglielmin, un poeta di Schio, che si chiama proprio Ciao Cari e che parla della generazione scomparsa di Schio, dove negli anni ’90 c’è stato l’arrivo dell’eroina. In quel periodo sono morti tantissimi giovani, sia per overdose che per AIDS. Questo libro racchiude un po’ i personaggi “di spicco” scomparsi in quel frangente.

Ero in libreria e mentre lo sfogliavo sono capitata sulla poesia dedicata a mia zia. Non me l’aspettavo. Quando l’ho letta ho provato un forte dolore. Ho pianto e mi sono sentita in colpa perché io ero viva e stavo leggendo questa cosa, mentre mia zia non c’era più. Da lì è nato questo pezzo. Penso che abbia questa potenza nell’album anche per il modo in cui è stato registrato.

Cioè?
Quando sono andata a Officine Meccaniche a finire le registrazioni c’era questo pianoforte. Taketo Gohara continuava a dirmi che quello era l’anima dello studio e io per una settimana ogni giorno arrivavo lì, suonavo un tasto e dicevo “boh, io non sento un cazzo”. Però continuavo a chiedere a Taketo “Ma quand’è che registriamo Ciao Cari?” E lui continuava a dirmi “aspetta, aspetta, aspetta”. Finché arriviamo all’ultimo giorno di registrazioni e tutti i musicisti vanno via, tranne lui che a quel punto mi guarda e mi dice “Questo è il momento giusto”. Mi ha amplificato il pianoforte, ho messo le cuffie, ho fatto l’accordo e lì ho capito.

Cosa intendesse con la storia dell’anima.
Ho cominciato a piangere e lui ha iniziato a registrare one take. Eravamo io e lui, da soli, era l’ultimo pezzo dell’album e ho proprio sentito che mentre cantavo stavo dicendo addio.

Il prossimo passo sarà il live di Up Next Italia di Apple Music il 12 settembre.
Sì, sono molto felice che una piattaforma di streaming così importante abbia dato spazio a un album che non rispecchia totalmente ciò che è l’industria della musica in questo momento. Anzi, alcuni addirittura l’hanno definito un suicidio, ti giuro, l’ho letto davvero. Sono molto contenta del fatto che invece Apple si sia preso anche questo rischio!

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