L’elettronica nera di Emenél: «Il mio diario al confine tra due mondi» – Intervista
A gennaio è uscito “Border Diary”, album d’esordio di Emenél. Un esordio di nome ma non di fatto, perché Moreno Turi (mente del progetto) ha alle spalle una lunga esperienza come cantante, producer, autore e compositore
A gennaio è uscito Border Diary, album d’esordio di Emenél. Un esordio di nome ma non di fatto, perché Moreno Turi (mente del progetto) ha alle spalle una lunga esperienza come cantante, producer, autore e compositore: frontman degli Steela fino al 2012, ha collaborato con gli Africa Unite e con Raiz degli Almamegretta e ha suonato in apertura ad artisti come Black Eyed Peas, Anthony B, Subsonica e Caparezza. Attualmente affianca Roy Paci e gli Aretuska nel progetto “Valelapena” ed è membro della band torinese The Sweet Life Society.
«Border Diary – racconta Moreno – è un diario elaborato al confine tra due mondi. Tra i ricordi di sud e la casa nel nord. Tra l’inutilità delle università e il sudore nei festival musicali. Tra una forma dell’essere e una del pensare. Tra la vita vissuta e quella osservata. Border Diary è un diario di confine, di rappacificazione, di consapevolezza».
Tu definisci il progetto Emenél come “elettronica nera”, una sintesi piuttosto inedita per l’Italia, e in effetti le reminiscenze “black” sono molto evidenti, soprattutto in alcune parti cantate. Ci dici tre artisti afroamericani (di ieri o di oggi) secondo te fondamentali? E perché proprio quelli?
Ce ne sarebbero tanti di fondamentali. Solo “tre” è riduttivo. Per quanto mi riguarda Michael Jackson, mi ha illuminato sin da quando avevo 4 anni. James Brown è la musica black. Di Bob Marley (anche se non troppo afroamericano) riconosco addirittura ogni suo brano dal fill di rullante iniziale. Potrei andare avanti per ore, credimi, ma se prendiamo gli ultimi cinquant’anni ti dovrei elencare almeno cento nomi – ognuno per qualcosa di incredibile che ha fatto.
La scena musicale torinese è fra le più interessanti della penisola. Quali sono le suggestioni musicali che trovi a Torino che nella tua produzione si fondono con il tuo gusto per la black music?
Torino è stata sempre una città accesa da questo punto di vista. Credo che questa città bilanci un po’ di cose nella mia vita. Io vengo dal sud, dal Salento precisamente, ed il fatto di essere nato a Lecce e di avere vissuto al mare mi ha regalato un’anima solare che va a pennello con la black music, ma è un po’ lontana per certi versi da quello che cerco nelle mie produzioni. Qui entra in gioco Torino con la sua aria un po’ parigina, tra le montagne e vicina all’Europa, dove alcune tendenze si respirano ancor prima che in altri posti in Italia. Più che suggestioni musicali torinesi (che ho avuto in passato soprattutto con tutta la musica che veniva da queste zone negli anni ’90, a cui sono molto legato perché l’ascoltavo già quando avevo 6 anni) credo che le mie produzioni abbiano bisogno di una certa malinconia che questa città sa regalarmi… e che adoro.
Nel disco c’è una cover di un gigante: James Brown, con la sua It’s a Man’s World. Cosa rappresenta per te questo pezzo e perché hai scelto questo in particolare dalla sua discografia?
Come ho detto prima James Brown è la musica black. Potenza ed emozione pura: eccezionale dal mio punto di vista. Ho scelto di rivisitare in chiave Emenél Man’s World perché è un brano che mi ha sempre fatto vibrare sin da quando l’ho ascoltato per la prima volta, quando ancora non sapevo di cosa stavamo parlando. Poi, oltre alla bellezza indiscutibile del brano, della performance, ha un significato potente e mi sembrava giusto rispolverarlo in questo preciso periodo storico.
La tua musica si esprime in italiano, in inglese e anche senza parole, in maniera solo strumentale. Ci sono altre possibilità linguistiche che ti piacerebbe esplorare, per esempio il dialetto?
Assolutamente sì. Sarò sincero nel dire che in questo disco non ho avuto il “coraggio” di cantare un brano in dialetto salentino sui suoni che ho scelto – coraggio che invece ha trovato Liberato, che ha scelto il napoletano per cantare i suoi brani con delle sonorità ben distanti dalla canzone neomelodica napoletana e con un risultato indiscutibile. Tanta stima per ciò che ha fatto e chissà che non voglia farne uno insieme a me e unire i due dialetti… Sulle produzioni mi sembra di capire che andiamo già abbastanza d’accordo. Per cui è un’idea che di sicuro troverà spazio nel prossimo disco che faro uscire l’anno prossimo.
Quali sono i chilometri in più che hai dovuto fare per la realizzazione di questo disco?
Di sicuro ho dovuto fare più strada con la mente che con le gambe. Mi sono dovuto allontanare da un certo modo di scrivere i testi, da un modo di concepire i miei beat e dai tempi che finora avevo dato alle mie canzoni. Queste sono distanze più lunghe e difficili da percorrere. A questi chilometri mentali aggiungi tantissimi chilometri percorsi per salire sui palchi, aerei e furgoni che fanno parte della mia vita e di cui ormai non mi accorgo nemmeno. È anche grazie a tutto questo che ho potuto concepire un album che a me piace davvero tanto.
In N.O.I. dici: “Siamo forse ospiti anche noi di questo mondo?”. Ti sei dato una personale risposta a questa domanda?
Certo! Siamo ospiti di questo mondo e, aggiungerei, anche abbastanza maleducati. Dovremmo essere consapevoli di dove siamo e cosa abbiamo intorno ed essere felici di tutto ciò. Evitare di devastare tutto, il pianeta, i rapporti con il prossimo, le opportunità. Siamo nati fortunati, soprattutto negli ultimi trent’anni e non siamo in grado di tenerci le cose. Un po’ colpa della “cultura liquida”, certo, ma qualche sforzo in più potremmo anche farlo. Tutti – e magari insieme.