Livio Cori a 360 gradi (dopo Sanremo, Gomorra e Liberato)
Recentemente Livio Cori ha portato nei club italiani “Montecalvario”, il suo album d’esordio, un disco in dialetto che unisce le influenze hip hop assorbite a Napoli a partire dall’adolescenza ai suoni della trap e dell’R&B internazionali, senza dimenticare le radici locali e la canzone pop
L’Italia lo ha notato grazie alla sua partecipazione all’ultimo Festival di Sanremo in duetto con Nino D’Angelo, e forse qualcuno dei fan di Gomorra lo avrà riconosciuto grazie alla sua parte nella terza e quarta serie tra le fila del clan dei Talebani di Forcella. Tanti altri lo hanno sentito nominare come il più probabile candidato dietro cui si celerebbe l’identità di Liberato. Ma Livio Cori, fatto tesoro dell’esperienza del Festival e contrastata con un contro-live la parentesi legata all’anonimo partenopeo, è deciso a riprendersi l’attenzione che si merita e a far conoscere la sua musica.
Recentemente ha portato in giro nei piccoli club italiani Montecalvario, il suo album d’esordio, pubblicato a febbraio da Sugar. Il nome è una dedica all’omonima zona nel cuore dei quartieri spagnoli di Napoli in cui Cori è nato nel 1990 e cresciuto, dove ancora oggi vive e scrive musica da quasi quindici anni. Un disco in dialetto che unisce le influenze hip hop assorbite a Napoli a partire dall’adolescenza ai suoni della trap e dell’R&B internazionali, senza dimenticare le radici locali e la canzone pop. Livio (che ha da poco pubblicato il nuovo singolo Adda Passà feat. CoCo) è il protagonista della rubrica Portrait Of di questo mese, con uno shooting fotografico a lui dedicato sul numero di novembre di Billboard Italia, ora in edicola.
In varie interviste post Sanremo rispondevi che stavi cercando di capire qualcosa della tua vita dopo quell’esperienza. A quasi un anno dal debutto, e attraverso questi live, hai capito chi sei?
Sicuramente ho capito qualcosa in più. Sanremo è un momento importante per un artista emergente come me, un palco incredibile che può farti da scuola: una settimana lì vale dieci anni di gavetta musicale, soprattutto accanto a un super big come Nino D’Angelo. Se sopravvivi a quello, credo tu possa sopravvivere a tutto. E infatti, quando qualche mese dopo ho suonato allo stadio San Paolo per le Universiadi davanti a 50mila persone, non ho avuto nessun tipo di ansia.
Grazie a quell’esperienza mi sento cresciuto dal punto di vista artistico, più sicuro, responsabilizzato e sicuramente ho una visione molto più focalizzata e matura. Poi è successa una cosa inaspettata: quando ho fatto uscire il secondo singolo dopo Sanremo, A Casa Mia, per strada a Napoli la gente ha smesso di indicarmi come “quello di Sanremo” e ha iniziato a dirmi: “Ah, tu sei quello di A Casa Mia!”. Aver spostato l’attenzione sul singolo successivo non era facile, e mi ha reso felice.
Ora finalmente può emergere Livio Cori. Immagino non sia stato facile essere definito per mesi prima per identificazione, e poi, in risposta, per negazione, con Liberato.
Nell’ultimo anno ho dovuto combattere contro qualsiasi cosa. A Sanremo si parlava di Liberato a Sanremo. Quando ho recitato in Gomorra si parlava di Liberato in Gomorra. È stato sempre in mezzo, al mio posto, ed è stato frustrante. Ho dovuto persino organizzare un live a Napoli in contemporanea al suo concerto a giugno per dimostrare che non eravamo la stessa persona, arrivato ormai al punto in cui mi sembra tutto uno scherzo, come quando finisci in galera e non è colpa tua. Avrebbe potuto essere un disastro, sarei potuto sparire, ma alla fine credo mi sia servito per darmi una spinta e per concentrarmi su quello che sono io e che voglio trasmettere.
Torniamo indietro nel tempo, alla tua infanzia a Montecalvario, il quartiere di Napoli in cui sei nato e cresciuto e in cui ancora oggi vivi, che dà il nome al tuo album. Il tuo primo ricordo musicale di quando eri bambino qual è?
Mio padre che ascoltava The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd. Un disco già forte per un adulto: immagina per un bambino, mi ha fottuto. All’inizio ne ero proprio spaventato, poi l’ho capito. Per osmosi ascoltavo quello che si ascoltava in casa: Pino Daniele, Rolling Stones, Led Zeppelin, musica sperimentale. E anche molta classica, perché mia mamma era ballerina al Teatro San Carlo di Napoli. Poi, visto che giocavo a basket, fin da piccolo ho approfondito l’hip hop e la cultura urban, di cui Napoli era un polo.
Giocavi seriamente?
Sì, ho giocato a livello agonistico per più di 13 anni, da quando ne avevo 9. Tutti i ragazzi che frequentavo giocavano a basket, erano più grandi di me e mi facevano scoprire i dischi nuovi. C’era un rituale nell’andare a cercarli nei negozi, per comprarli e poi ascoltarli, che purtroppo non esiste più. Su Napoli comunque c’è sempre stata una grande influenza americana, complice la vicina base Nato. Da un lato il sogno americano, dall’altro le radici napoletane e il background del mio quartiere hanno influito molto nel mio modo di fare musica.
Da ragazzino hai anche cominciato a suonare la chitarra.
Sì, da autodidatta. È stato il mio primo approccio allo strumento, cercavo di imparare a suonare i Linkin Park, interessato a tutta la questione crossover tra rap e rock. A 16 anni ho vinto una borsa di studio in una scuola di musica di Napoli, dove ho studiato sia canto che armonia, imparando ad arrangiare un po’ al pianoforte per potermi accompagnare e scrivere. Studiando la tecnica vocale ho scoperto capacità che non pensavo di avere e a controllare la mia voce. Farebbe bene a tutti avere una base di coscienza vocale, anche ai colleghi rapper, perché sul palco ti cambia la vita. Vedo spesso artisti che dopo quattro brani non hanno più voce. La tecnica è importante, o almeno, questo è sempre stato il mio approccio.
Sei uno che studia e si prepara molto?
Cerco di dedicare, quando riesco, almeno mezz’ora al giorno alla scrittura. Mi chiudo molto in studio, metto delle strumentali in sottofondo per far fluire l’ispirazione. Faccio uscire poca roba, perché butto sempre tutto, ma sono molto prolifico e sperimento molto. E quando mi interessa una cosa in generale divento maniaco. Anche perché non ho mai avuto maestri e le influenze musicali che ho sono frutto della mia costante ricerca e del mio studio. Il 90% della mia giornata lo passo con le cuffie nelle orecchie.
C’è qualcosa che di recente ti ha particolarmente colpito?
È da un po’ che non succede. Sto ascoltando varie cose, soprattutto R&B e dischi vecchi. Ascolto pochissima musica italiana. Quando non esce roba nuova particolarmente interessante vado a scavare tra gli artisti del passato, di solito stranieri. Adesso la musica è così. Se è difficile che rimanga attaccato a un disco nel tempo è proprio per le modalità in cui viene fatta la musica, a partire dalla sua struttura: è fatta velocemente e per durare poco. Quando io e Nino abbiamo finito Sanremo, arrivando ultimi con Un’Altra Luce, lui, che ha una discreta esperienza, mi ha detto: “Non ti devi preoccupare, perché questo è un pezzo che ai napoletani resterà per sempre”. E infatti è stato così, perché lo vedo nei numeri che continua a fare, o quando lui lo canta live.
Ti capitano mai dei momenti di sconforto in cui pensi: “No, vaffanculo, mollo tutto”?
Questi momenti costituiscono l’80% della mia vita, ma la frase “mollo tutto” non potrebbe uscire mai dalla mia bocca. Quando ho scelto di prendere questa strada ho rinunciato a qualsiasi altra cosa, consapevole di tutti i problemi che avrei incontrato – e che tutti gli artisti hanno. È un mondo in cui ci sono un sacco di alti e bassi, tutto dipende dal pubblico, da una cosa che tu non controlli e che non è matematica.
Non ho avuto maestri o persone che mi spingessero, non mi sono mai messo sotto qualcun altro per ricevere più visibilità e luce, è stata dura fare tutto da “solo”. Ma lo metto tra virgolette perché da soli non si fa mai niente: lavoro da sempre con un team di persone che ringrazio continuamente e che sono sempre state fratelli per me. Dal punto di vista dell’amicizia sono molto fortunato, ho una cerchia che oggi non è facile avere, perché oggi ognuno pensa molto per sé.
Siamo coetanei, entrambi nati nel ‘90. Ti confesso che sento molto l’avvicinarsi dei 30. Per te cosa significa avere quasi trent’anni?
Tutto quello che faccio è ormai in funzione della musica. Inevitabilmente capita di pensare che il tempo sia una variabile importante, che si debba sfondare entro una certa scadenza. O almeno, te lo fanno credere. Finito Sanremo ho cercato di abbandonare il confronto con tutti gli altri, artisti, generi, persone, e di prendere del tempo per me. Arrivare a 30 anni, in generale, è un momento importante: rispetto ai 20 hai una coscienza e delle responsabilità diverse, ti rendi conto che effettivamente il tempo passa, non solo di fronte allo specchio.
Ti guardi indietro e ti chiedi: cosa sono, cosa ho fatto fino ad oggi, come sono arrivato qua? È un punto di riorganizzazione, un giro di boa della maturità in cui dare tutto, e trasformare quanto raccolto fino adesso in quello che resterà, nel lavoro e nella vita. In una relazione inizi a domandarti: sarà per sempre? Farei un figlio? Da me i figli si fanno anche a 16 anni, quindi sicuramente non c’è pressione, ma bisogna comunque fare le scelte giuste. Tutto questo senza perdere mai la frivolezza e quella parte infantile che serve da benzina per tutto il resto.