Interviste

Lucariello si dichiara “Innocente”, come tutti noi. L’intervista

Nel nuovo album di uno dei pionieri del rap napoletano c’è tutto il lato oscuro che la tv non mostra. Ma anche l’amore e la consapevolezza che non sempre si è artefici del proprio destino. Ne abbiamo parlato con lui

Autore Greta Valicenti
  • Il8 Aprile 2023
Lucariello si dichiara “Innocente”, come tutti noi. L’intervista

Lucariello

“Te penzave che ero muorto? Chi t’è mmuorto”. Game, set, match. Si apre così Innocente, il nuovo album di Lucariello uscito venerdì 31 marzo. L’incipit di Tornado, la traccia apripista del disco, è una dichiarazione di intenti a tutto tondo. Deciso e determinato, il rapper è uno dei pionieri di quella scena napoletana che negli ultimi anni ha occupato finalmente il posto che le spetta. Ora i rapper partenopei sono amati, il dialetto è cool, le sonorità sono quelle che più si avvicinano al panorama internazionale, soprattutto francese e newyorkese. Ma le cose non sono sempre andate così, come mi racconta Lucariello, nonostante queste caratteristiche siano sempre state congenite nel DNA del rap napoletano.

«Quando io portavo i dischi rap fatti in napoletano alle etichette milanesi mi dicevano che non sarei mai uscito dal quartiere e che il napoletano era una lingua da sfigati, parlata dalle vecchie generazioni». E da allora cos’è che ha cambiato le carte in tavola?, chiedo a Lucariello. «Sicuramente con Gomorra è cambiato un po’ tutto. La lingua è diventata una cosa figa, tutti volevano capire cosa si dicessero Ciro e Genny».

Ma con Lucariello, oltre che del suo nuovo progetto e dei riflettori puntati su Napoli, abbiamo parlato anche della sua esperienza come volontario nell’IPM della città, dove svolge dei laboratori di rap e dove dai ragazzi ha imparato che non sempre si è artefici del proprio destino e tutti meritano una speranza.

L’intervista a Lucariello

Lucariello, hai detto che il disco è il frutto di cinque anni intensi in cui sono successe tante cose non proprio positive. È la tua personale rinascita?

Sicuramente qualcosa si è sbloccato. In passato mi sono sentito in colpa per tante cose e il disco si chiama Innocente anche per questo, perché ho imparato che spesso il nostro orizzonte di scelta è sempre più stretto. Lavorando con i ragazzi dell’IPM mi sono reso conto di quanto certi reati nascano da un percorso che ti ha dato poche scelte. Se ci pensi questa cosa accade anche a livello collettivo. Noi crediamo di scegliere, ma le nostre scelte sono già indirizzate da qualcos’altro. Scrivere questo disco per me è stata una liberazione, anche perché avendo un carattere che va spesso in contraddizione ho fatto anche un po’ pace con questa cosa.

Quanto è labile in determinati contesti il confine tra l’essere la vittima e diventare il carnefice?

Io penso che più che dal contesto dipenda dalla famiglia e dall’architettura di valori. Se tuo padre per il compleanno ti ha regalato la pistola, quello è il pilastro della tua educazione, e se vai in quella direzione le scelte c’entrano poco. Tutti i ragazzi che ho conosciuto hanno una grossa base di povertà educativa perché sono cresciuti in contesti dove la violenza è vissuta con una certa normalità.

E la soluzione qual è?

Non saprei darti una risposta esaustiva, sulla base della mia esperienza ti posso dire che è importante prevenire. Qualche settimana fa a Napoli un ragazzo ha ammazzato un suo coetaneo. Quel ragazzo un paio di mesi fa aveva fatto un laboratorio con me in un centro diurno polifunzionale. Considera che quando era nella pancia della madre il padre l’ha accoltellata.

In un contesto del genere ci deve essere attenzione da parte dello Stato e della comunità. Che non significa chiamare gli assistenti sociali e togliere brutalmente i figli ai genitori, ma tenere un faro acceso, anche e soprattutto quando si è così piccoli. E questa, secondo me, è l’unica soluzione che può smuovere veramente qualcosa. Gli IPM sono come dei manicomi, i ragazzi vengono chiusi in un posto dove peggiorano invece di migliorare perché il problema viene nascosto, non affrontato.

Lucariello: «Col rap regalo ai ragazzi un’adolescenza che non hanno più»

E i media, soprattutto quelli televisivi, distorcono la percezione esterna di questa realtà o ne danno un’immagine piuttosto fedele?

Io capisco che per chi fa cinema e televisione ci siano delle esigenze narrative e che dunque non si possa raccontare la realtà per quella che è. Quello che ho notato in Mare fuori è soprattutto la presenza di relazioni tra ragazze e ragazzi, cosa che nella realtà non esiste assolutamente. In primis perché le ragazze negli IPM sono pochissime, in Italia sono meno di 20. E poi non c’è in alcun modo quell’atmosfera un po’ da liceo che la televisione fa passare, anzi. Gli IPM sono luoghi di dolore, dove le attività che si fanno sono poche e dove ci sono tanta violenza e tanto autolesionismo. Così come ci sono tanti psicofarmaci, i ragazzi sono chimicamente spenti. Tutte queste cose in tv non le vedi.

E il rap in tutto questo che ruolo può avere? È una valvola di sfogo efficace per loro?

Da rapper faccio un momento di ricerca artistica con loro perché hanno un sacco di storie, di energie, si creano dei bei momenti di scambio. Sicuramente anche fargli passare solo un’ora dove li vedi fare freestyle, saltare, ballare, è impagabile dal punto di vista umano. Gli stai regalando un momento di adolescenza in un posto dove l’adolescenza non c’è più. Io non penso che la musica possa salvare questi ragazzi, ci sono tante complessità in più dietro. Ma una cosa è certa: il rap ti fa cacciare fuori delle cose che hai dentro e quando le riascolti è come se le avessi già processate. Per loro poi è un genere identitario, è la loro musica. Negli anni ’90 eravamo in pochi fissati con questa roba, ora lo ascoltano tutti. Io ho un canale preferenziale con loro perché tutti conoscono le mie canzoni, quindi gli viene più facile raccontare cose.

Secondo te qual è la cosa più importante che sei riuscito a trasmettere ai ragazzi e cosa invece loro hanno insegnato a te?

Innanzitutto in questo disco c’è stata tanta ricerca sulle cose più nuove, ad esempio la drill francese me l’hanno fatta ascoltare loro! Uno dei pezzi in cui riesco ad esprimere con più naturalezza il rapporto che in questi anni ho avuto coi ragazzi è ‘E Cose Bell, che nel ritornello dice proprio “Mo voglio ‘e cose belle, voglio coccosa che brilla, coccosa ca nun trovo ‘int’â vetrina a via dei Mille”. Ecco, loro mi hanno insegnato quali sono le cose davvero importanti. L’abbraccio di tua madre, lo sguardo di una persona che ti vuole veramente bene. Cose che noi ci viviamo con una certa normalità, e invece per loro non è così.

Nel disco, oltre a Don Joe alla produzione, ci sono solo due featuring con altrettanti giovani artisti, Oblio e Volturno. Rientra anche questo nell’idea di voler dare una possibilità?

Un po’ è questo e un po’ è anche il fatto che non mi piace la corsa al featuring come se fossimo al mercato. A quel punto la cosa non è più naturale, deve farti piacere fare una cosa con la persona, non devi farla perché speri di prenderti un po’ del suo pubblico e della sua attenzione. Con Don Joe ci eravamo incontrati a Giffoni e tra di noi c’è un rapporto di amicizia e stima da tanti anni, quindi è stata una cosa spontanea. Per quanto riguarda Oblio e Volturno sono due giovani che per me meritavano un’opportunità, quindi sono stato felice di metterli nel disco.

Lucariello, secondo te la grande attenzione che c’è sulla scena napoletana oggi è qualcosa che può giovare anche alla città?

Che ci sia un interesse su Napoli, che è una città che ha sì tante problematiche ma anche tante potenzialità inespresse è un bene. Quando io portavo i dischi rap fatti in napoletano alle etichette milanesi mi dicevano che non sarei mai uscito dal quartiere e che il napoletano era una lingua da sfigati. Con Gomorra è cambiato un po’ tutto, la lingua è diventata una cosa figa, tutti volevano capirla. Anche il rap poi ha cambiato tutto, io stesso quando ho fatto la sigla (di Gommora, ndr) insieme a ‘Nto ho avuto un’esposizione che prima mi sarei solo sognato. E lo ha fatto senza snaturarsi. Se ascolto un disco di Geolier mi suona come la roba che facevamo noi nel 2003 e sono super orgoglioso di questa cosa. La vivo benissimo. Credo che l’esposizione in questo senso ci aiuti, perché ora è molto più facile per i ragazzi emergere.

Tornassi indietro ci riproveresti con la politica?

Io ho sempre pensato che la politica italiana abbia grossi limiti perché è gestita fondamentalmente da burocrati. Sono tutti commercialisti, avvocati, non c’è un altro tipo di espressione. La mia idea era quella, da cittadino, di continuare ad essere tale ma in modo più istituzionale. Non volevo fare il politico di mestiere, e forse anche per questo sono penalizzato, perché mi sono battuto contro gente che era molto agguerrita. Adesso come adesso non lo farei, ma in quel momento ci ho creduto tanto.

Anche perché credo che sia molto più politico e socialmente utile quello che fai nelle carceri.

Assolutamente sì. Però la volontà del singolo non basta, certe cose vanno anche messe a sistema e il mio obiettivo andava in quella direzione. Siamo tutti bravi a lamentarci, però quanti di noi poi vanno a votare? Però sono d’accordo con te. E poi comunque la politica mi avrebbe tolto del tempo da dedicare alla musica, quindi alla fine è stato meglio che non mi abbiano eletto!

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