Il lato peggiore di Luchè è quello più vero: «Rivendico la mia libertà di essere scomodo»
Venerdì è uscito il nuovo album del rapper napoletano, che in questa intervista si racconta senza filtri, con verità, senza preoccuparsi troppo di risultare sconveniente e, soprattutto, senza celare quelle fragilità di cui non ha mai fatto mistero nemmeno nelle canzoni
Luchè
«Di sicuro nel prossimo disco avrò un approccio ancora diverso, ma la scommessa con me stesso è sempre essere più potente e intenso di prima. Mi piacerebbe però anche dare un messaggio di serenità a chi ha paura di fallire: c’è sempre una possibilità di rinascita». Con queste parole, nel 2023, si chiudeva una lunga intervista con Luchè durante la quale il rapper napoletano aveva tirato le somme di un Anno fantastico: un disco – Dove volano le aquile – compreso forse non subito ma che col tempo ha raccolto i suoi frutti e un tour nei palazzetti interamente sold out. Tutto, allora, sembrava essere esattamente dove doveva.
Quando qualche giorno fa lo rincontro in videochiamata per parlare del suo nuovo album, Il mio lato peggiore, mentre mi racconta ciò che ha vissuto in questo periodo e cosa lo ha portato a viversi in modo completamente diverso la realizzazione di questo disco, mi rendo conto che quelle di due anni prima non erano delle frasi di circostanza dette tanto per. La scommessa è stata rispettata (la potenza dei banger non manca, l’intensità dei brani 100% Luchè come Nessuna, Morire vuoto, Se non ci fosse la rabbia e La mia vittoria nemmeno), la rinascita dal buio si è compiuta. Luchè, del resto, non è mai stato uno che parla a sproposito: come ogni buon rapper che si rispetti dà un peso ad ogni parola che dice, ma senza un retro-pensiero calcolatore.
Così come nei dischi, anche nelle interviste Luchè si racconta senza filtri, con verità, senza preoccuparsi troppo di risultare sconveniente o fastidioso e, soprattutto, senza celare quelle fragilità di cui non ha mai fatto mistero nemmeno nelle canzoni. Non ha dunque paura di ammettere che, negli ultimi due anni, c’è stato un momento in cui ha toccato il fondo e che lo ha portato a scrivere uno skit – Lettera alla pistola alla mia tempia – che parla di suicidio e di dare un “senso a tutta questa sofferenza testarda che non mi abbandona mai” e che sfocia in quello che è a mani basse uno dei brani migliori non solo di questo album, ma di tutta la sua discografia, in cui – come se parlasse a uno specchio – si chiede cosa ne sarebbe di lui Se non ci fosse la rabbia a fare da motore.
Non nega di essere un provocatore, non nasconde che il fatto di non sentirsi totalmente capito dal pubblico possa anche essere in parte colpa sua e non si lascia andare a inutili ipocrisie quando dice che – nella società in cui i numeri sono sovrani e decidono il valore di un artista in determinati circuiti – anche il riconoscimento degli ascoltatori superficiali che ti conoscono solo per la hit conta. È così che capisco allora che il suo lato peggiore altro non è che quello più vero, quello che si vede quando scegliamo di togliere la maschera, restare solo noi stessi e capire che “il significato della vita è semplicemente essere vivi” e che “l’uomo soffre soltanto perché prende sul serio quello che Dio ha creato per divertimento”.
Probabilmente Luchè – uno per cui le mezze misure non esistono – quella leggerezza di vivere la musica come un gioco non l’acquisirà mai totalmente, ma ne Il mio lato peggiore ha capito che forse può essere fatta anche senza scavare fino a sanguinare: «è un disco che ho fatto in maniera più rilassata. Non che sia stata una passeggiata di salute, ma rispetto agli altri progetti ero più sereno. Mi sento meglio con me stesso e con tutto il resto. Fare un album poi è sempre un po’ un mettersi in gioco ed esporsi a quello che dice la gente, ma io sto cercando di distaccarmi».
L’intervista a Luchè
Cosa ti ha portato a vivertela in modo così diverso?
Un lungo viaggio interiore che ho fatto. Nel disco c’è uno skit in cui parlo di suicidio. Quello è stato il momento in cui ho toccato il fondo. Sentivo una pressione altissima, e ho capito di dover cambiare la mia vita. Non ho mai avuto una vita spensierata, è stata emotivamente sempre molto difficile. Mi sono detto che questa lotta doveva finire, e che l’unico modo era vivere giorno per giorno, godersi la propria persona. Quando sono stato male l’ultima volta ho detto basta.
Cosa è successo lì?
Ho riprogrammato il mio cervello, ho tolto la caffeina e tutte le cose che mi davano botte di dopamina e ho capito che la calma è lo stato in cui ragiono meglio. Non dico di essere ancora riuscito del tutto, ma credo di aver fatto dei grandi passi avanti che mi hanno reso la lavorazione di questo disco più tranquilla.
Questo down è arrivato dopo Dove volano le aquile?
Sì, anche se in realtà tutta la mia vita è stata un passaggio continuo dall’euforia alla depressione. Succede quando perdi di vista chi sei e basi il tuo valore su quello che gli altri pensano di te: ho lavorato tanto su questa cosa e sono riuscito a cambiare mentalità.
È stato complicato?
Molto. Devi metterti a nudo con te stesso, analizzarti, capire cosa hai affrontato nella vita. Ora sono consapevole che la mia vita è bella proprio perché complessa.
Prima hai detto che stai cercando di distaccarti da quello che dice la gente: quando hai annunciato la tracklist del disco ci sono stati molti commenti sui featuring.
I featuring però sono nei banger, non nei pezzi più intimi che sono l’anima del disco. Sono quelli i brani in cui io ho espresso davvero quello che volevo dire, nei feat esprimo il mio lato più spregiudicato, quello con cui provoco.
Il tuo lato peggiore…
Quello è un pezzo con una rappata serrata dove sfogo tutta la rabbia che ho accumulato in questi anni, fatti di soddisfazioni ma anche di tante critiche. Mi sono tolto un bel po’ di pietre dalle scarpe, diciamo così.
Se posso dirlo, i tuoi pezzi solisti per me sono i migliori del disco.
Mi fa piacere, perché vuol dire che anche i pezzi personali arrivano, e per me quella è la cosa più importante. Vorrei che più artisti ne facessero perché là fuori c’è un pubblico che magari non lo dice, ma ha voglia di artisti che mettano l’anima nei dischi.
Che poi è quello che i tuoi fan cercano da te.
Io alla fine sono contento di avere una vita molto intensa, che mi fa soffrire tanto, ma che poi mi fa dire delle cose nelle canzoni. Io ricevo più critiche di altri, sono uno che provoca ma sono anche provocato. Non ho una vita molto serena da questo punto di vista. Per me è difficile gestire tutti questi affronti, tutte queste parole dette su di me da persone che non mi conoscono e che non vanno a fondo. Però se sono un veicolo per far sì che alcuni concetti arrivino alle persone, allora tutta questa sofferenza ha un senso. Almeno so di avere un ruolo in questa società, e me lo voglio vivere in fondo. Quello che vorrei è che le persone che mi apprezzano per i miei brani più sentiti mi lascino fare anche i banger, perché io sono anche quello.
Ti senti capito dal pubblico?
Non totalmente, ma anche io potrei colpevolizzarmi per questa cosa.
Cioè?
Magari non mi sono espresso abbastanza al di là della musica. Adesso voglio dare tutto di me, voglio che ogni mio pensiero esca fuori, anche se sbagliato. Il messaggio che vorrei arrivasse è che ciascuno di noi deve pensare con la propria testa. Prima le critiche mi ferivano, ora quando leggo i commenti rido.
Diventano uno stimolo?
In qualche modo sì. Da una parte è un po’ frustrante reggere questa quantità infinita di stupidità o la critica superficiale – a volte penso che i commenti sui social andrebbero limitati alle persone che si seguono a vicenda -, dall’altra per me è benzina.
Spiegami meglio questa questione dei commenti.
Tu non puoi entrare a casa di qualcuno che non conosci e sparare una cazzata che leggono tutti. Sui social ci sono tante persone intelligenti, purtroppo però gli stupidi fanno più rumore e non capiscono che le loro cattiverie hanno un peso sulla sensibilità di un artista.
Però lì subentra anche la consapevolezza di chi si è.
Vero, però dal punto di vista artistico sento che per qualche motivo non c’è una conoscenza completa di quello che ho fatto e che sono. Ci sono ragazzini che mi criticano e poi magari conoscono solo Non abbiamo età o Stamm fort, e non hanno mai ascoltato Il mio ricordo o non ascolteranno Se non ci fosse la rabbia. I miei dischi possono piacere o meno, ma è innegabile che io abbia sempre cercato un sound mio senza somigliare agli altri. I giovani oggi dovrebbero imparare ad innamorarsi della musica e non a prenderla solo come un trend per i balletti.
Dall’altra parte però mi chiedo e ti chiedo quanto è poi veramente importante avere il riconoscimento di chi non ti conosce davvero.
Dal punto di vista personale concordo con te, io so benissimo cosa ho fatto e lo sanno anche le persone che mi hanno sempre seguito. Dal punto di vista del business però non vale lo stesso discorso: se tu non hai certi numeri sembra che vali meno degli altri. In Italia non abbiamo il premio Pulitzer, abbiamo Sanremo che non ti prende se fai un pezzo come Se non ci fosse la rabbia, abbiamo le radio che non ti passano se non sei estremamente commerciale, se non fai l’estivo. Ormai se non fai platino in una settimana sembra che qualcosa non vada.
È un meccanismo tossico?
È più che altro umiliante che ci sia così tanta superficialità. La televisione è così lontana da quello che succede nel mondo reale che ci sono presentatori che chiedono ai figli gli artisti da scegliere, e se tu non sei nei giri che fanno determinati numeri sembra che la tua roba non valga niente.
Il rap avrebbe bisogno di un riconoscimento a parte rispetto a Sanremo?
Assolutamente sì. Bisognerebbe creare una struttura completamente alternativa, perché noi siamo due modi diversi. Il rap non è adatto ad andare a Sanremo perché il Festival si muove sui propri binari e noi non possiamo cambiarne le regole. È sempre stata la trasmissione estremamente mainstream della canzone italiana guardata da un pubblico di massa, mentre noi siamo sempre stati l’alternativa. Noi siamo la musica dei ragazzi, la la controtendenza, quelli che dicono le cose scomode, quelli che raccontano la strada. La televisione ha un potere enorme, ma bisogna creare degli eventi che premiano il nostro genere, dove invece di regalare tutto il nostro pubblico a un contenitore che ci vuole cambiare, lo teniamo per noi e dove possiamo davvero essere noi stessi senza snaturarci.
In questo disco trovo una sorta di riappacificazione. Quel ritornello di Giorgia ne La mia vittoria l’ho letto un po’ come una voce della coscienza con cui ti perdoni.
Sì, è la mia presa di coscienza che la vittoria è personale, è l’essere la migliore versione di se stessi.
Però poi l’album si chiama Il mio lato peggiore: non è un paradosso?
No, perché il mio lato peggiore alla fine è semplicemente quello più vero. E il nostro lato più vero è sempre il migliore, anche se a qualcuno può dare fastidio.
Rivendichi la libertà di essere “l’errore più grande”.
Io voglio sbagliare il più possibile. Qui tutti vogliono essere perfetti per non perdere quello che hanno, ma se non si sbaglia non si rompe mai nessuno schema. Senza rischiare non si farà mai nulla di grande. Guarda anche solo le donne che hanno cambiato la storia: sono quelle che hanno avuto il coraggio di vivere la propria femminilità, la propria sessualità. La stessa cosa vale per gli artisti. All’inizio magari ti criticheranno, ma poi si vedranno i risultati. Rivendico quindi il fatto di dire cose scomode, perché sono sicuro che prima o poi le persone le capiranno.
Quando ci siamo parlati due anni fa mi hai detto che il significato di Si vince alla fine era l’essere ancora nel viaggio. Ora sei arrivato alla meta?
No, e spero di non arrivarci mai. La felicità è un traguardo, e per questo ne sono spaventato perché mi chiedo “dopo quello cosa c’è?”. Ti dico la verità, per me non arriverei alla vittoria nemmeno se questo disco dovesse andare estremamente bene. Cercherei sempre una nuova sfida perché amo essere creativo.
Alla fine dell’album c’è un pezzo con Ntò. Come vi siete riavvicinati?
Il nostro riavvicinamento è stato una di quelle cose che avvengono quando si allineano i pianeti nel posto giusto al momento giusto. Ci siamo visti, ci siamo parlati, e quando ci siamo ritrovati in studio era come se quei 20 anni non fossero mai passati. Quando abbiamo iniziato a fare le prove per le date a piazza del Plebiscito mi sono reso conto che conoscevo i suoi movimenti a memoria, le sue vecchie strofe a memoria. Nonostante tutto tra me e lui c’è sempre quella sintonia: siamo cresciuti insieme, ed è stato tutto così naturale. Il fatto di metterlo come ultimo feat non è casuale: io volevo chiudere l’album con lui.
Il 5 giugno invece sei al Maradona.
Stiamo iniziando le prove, ho già tutta l’idea dello show. Voglio che sia un’esperienza molto forte, anche dal punto di vista visivo. Sarà uno spettacolo bello intenso.