Marika Hackman ha scritto il suo post-pandemic album
La cantautrice inglese ci ha raccontato in anteprima e in esclusiva la genesi del suo quarto disco d’inediti “Big Sigh”, in uscita il 12 gennaio. Il lavoro più difficile della sua carriera, nato in pandemia, dopo un lungo blocco creativo
I musicisti, in generale, sono più fortunati degli scrittori: in particolare gli artisti come Marika Hackman, quelli capaci di passare dalla chitarra al pianoforte con naturalezza. «Se non riesci a scrivere, cambia lo strumento» è il motto che le ha consentito si superare il blocco creativo. Sì è vero, uno scrittore non ha a che fare con gli accordi e le frasi melodiche, ma al massimo può passare dalla matita alla penna. La cosa in comune è invece l’ostacolo. Il foglio bianco fa paura tanto quanto il rumore assordante del silenzio. Quel rumore per Marika Hackman è durato per quasi due anni, il tempo impiegato per la scrittura del suo quarto album Big Sigh.
La pandemia e il lockdown nella campagna inglese hanno tolto qualsiasi fonte d’ispirazione alla cantautrice britannica. La svolta è avvenuta quando si è trasferita a Londra, durante la seconda ondata di Covid-19, in un appartamento condiviso con altri tre amici. Lì è riuscita a riflettere a posteriori sul significato di quel nebuloso periodo di isolamento. È per questo motivo che per Marika Hackman Big Sigh non è un album pandemico, come si potrebbe pensare al primo ascolto. «Lo definirei un post-pandemic album».
Post pandemic album, una definizione accuratissima. In Big Sigh, che uscirà il prossimo 12 gennaio, Marika Hackman analizza il periodo vissuto in isolamento a posteriori. Non è un album ispirato dalla solitudine – come lo era, per esempio, l’archetipo degli album pandemici Carnage di Nick Cave e Warren Ellis – ma un disco che dimostra come utilizzarla a proprio vantaggio. Anche quando restituisce nulla se non un enorme foglio bianco e un ingombrante silenzio.
Ci siamo fatti raccontare da Marika Hackman la genesi del disco più difficile della sua carriera – oltre che il più fisico e vivo – la battaglia vinta contro il blocco creativo più lungo della sua vita e il suo rapporto con il corpo e i suoi spaventosi meccanismi.
L’intervista a Marika Hackman: la genesi di Big Sigh
Hai definito Big Sigh come l’album più difficile della tua carriera, soprattutto per via del blocco creativo durato per quasi due anni. Hai mai capito da cosa sia derivato?
Credo che sia stato causato dal periodo di pausa che mi sono presa. Dopo il tour del 2019 ho deciso di rallentare un po’ e penso che questa mia scelta abbia reso molto più difficile tornare a scrivere. Poi più tempo passava, più lo stress e la pressione aumentavano. Nonostante non avessi scritto nulla del nuovo album, non mi sentivo per niente ispirata. È stato un periodo strano quello che ho vissuto durante la pandemia, come per tutti immagino. Il lockdown e tutto ciò che ne conseguiva non erano stimolanti creativamente. Era, più che altro, uno stress continuo che, anziché darmi idee, mi distraeva.
Quale è il primo ricordo che ti viene in mente di quel periodo?
Me lo ricordo come un unico blocco, tutto uguale, la stessa cosa ogni giorno. Penso che questo sia stato il motivo per cui è stato davvero difficile sentirsi ispirati, mi sembrava come se ogni momento fosse del tempo perso. In realtà, riflettendoci, Big Sigh mi ha richiesto solo un paio d’anni di lavoro che è il tempo che ci vuole normalmente. La prima ondata l’ho passata con i miei genitori nella loro casa nel sud dell’Inghilterra, in campagna. Poi mi sono spostata a Londra in un appartamento condiviso con altri tre miei amici.
È lì che hai scritto il disco quindi.
Sì, perché i miei amici lavoravano e praticamente avevo la casa tutta per me per gran parte della giornata. Potevo fare un sacco di rumore. Certo, non è stato semplice all’inizio. Avere tre persone in casa con te…scrivere musica diventa imbarazzante e non vuoi che gli altri partecipino al processo creativo. I primi giorni era come se mi mancasse spazio e mi sentivo abbastanza a disagio. La stessa Londra era claustrofobica.
Negli ultimi anni, molti artisti hanno pubblicato il loro pandemic album. Molti di loro sono stati ispirati dall’isolamento, per te è stato diverso.
È vero, forse per questo motivo non considero Big Sigh un album pandemico. Allora, quando avevo il blocco creativo, avrei voluto scrivere un disco sulla pandemia, ma non ci sono riuscita. Quindi il risultato è stato più una riflessione successiva. Lo definirei un post-pandemic album.
La fine del blocco creativo e le canzoni
Credo che Blood sia la canzone che più di tutte trasmette le sensazioni e i pensieri che attraversavano la tua mente in quel periodo di blocco creativo. Eri convinta di deludere i fan e le persone intorno a te.
Per certi versi è così, dal momento che lo scopo di un musicista è appunto fare e pubblicare musica. Tutti hanno un’immagine di te e la maggior parte di queste persone non ti ha mai nemmeno incontrato e non sa chi sei. Ognuno però proietta la propria idea su di te e sul tipo di artista che sei. Ovviamente la mia ispirazione primaria per quel brano è stata una relazione amorosa, ma in realtà assume un significato più ampio. Soprattutto se hai un sacco di tempo per stare da sola a riflettere sulle pressioni che provengono dalle persone e su ciò che si aspettano da te a causa delle cose che hanno creato nelle loro teste. In fondo anche quella con i fan è una relazione.
Qual è il tuo rapporto con il successo? Dai molto peso alle recensioni e al giudizio di chi ascolta?
Mi interessano molto le recensioni e ciò che le persone pensano della mia musica. È qualcosa che spesso gli artisti si sentono a disagio ad ammettere perché sembra quasi di cattivo gusto rivelarlo. Tuttavia, dal momento che tengo a quello che faccio, è normale che mi interessi sapere cosa le riviste scrivono. Questo non vuol dire però che mi interessa anche essere famosa oppure che la gente urli il mio nome quando mi vedono camminare per strada. La mia priorità è fare musica che mi renda orgogliosa e in cui la gente si riconosca e, qualsiasi cosa accada, trovare un modo per sostenermi ed essere in grado di continuare a farlo il più a lungo possibile.
Ma è vero che il tuo blocco dello scrittore è ufficialmente terminato nel bagno di un pub, dove ti sei resa conto della bontà del primo brano che avevi scritto (Hanging)?
Sì (ride n.d.r.). Diciamo che il blocco creativo in realtà è finito a casa, nella mia camera, il luogo dove per tantissimo tempo avevo provato invano a scrivere qualcosa di nuovo. Lì ho scritto Hanging in modo molto veloce. È stato il classico momento d’illuminazione improvviso, tant’è che lì per lì l’ho registrata sul mio cellulare, così da poterla riascoltare più tardi.
Perché sai, in tutto ciò che riguarda la creatività, ci sono dei momenti in cui credi di aver scritto un capolavoro e poi la ascolti, la leggi o la guardi due ore dopo e sei tipo: “Oh mio dio, è orribile”. La sera stessa ero al pub con i miei amici e volevo assicurarmi che mi piacesse ancora cosa avevo scritto. Mi sono intrufolata in bagno, mi sono infilata le cuffie e ho ascoltato il pezzo. Mi sono detta: “Grazie a Dio, mi piace. È una bella canzone”.
Big Sigh, la copertina e il pianoforte
È curioso che la maggior parte delle copertine dei tuoi album precedenti mostrino delle tue foto. Al contrario, Big Sigh, che è probabilmente il tuo lavoro più personale, ha uno schizzo a matita sulla cover. Come mai?
L’ha realizzato un artista irlandese che si chiama Brian McHenry che ho scoperto su Instagram, dopo aver finito di registrare il disco. Ho trovato che i suoi lavori corrispondevano alle sensazioni dell’album. Mi piaceva molto il suo alternare paesaggi urbani affollatissimi con altri più naturali. Infatti, nella cover ci sono le montagne sullo sfondo e un carrello della spesa in primo piano. Soprattutto mi ha convinta l’utilizzo della matita: è uno strumento onesto e diretto. Le prime cose che butti giù, di solito, le butti giù con la matita e, solo poi, utilizzi la penna. Questa copertina trasmette il senso di vulnerabilità, di solitudine ed è anche stridente. Il tema ricorrente in quai tutti miei dischi è la celebrazione della differenza. Ognuno di noi è diverso e la solitudine è un’esperienza umana universale.
Uno dei principali protagonisti di questo album è il pianoforte. Com’è stato il processo di scrittura, sei partita da lì, dalla chitarra o dai testi?
Non inizio mai dalle parole di una canzone, quelle mi vengono ispirate dalla melodia. Parto sempre da una struttura armonica con la chitarra. Faccio così da quando avevo 14 anni. Poi con Hanging sono cambiate le cose. La canzone era nata con la chitarra, ma ho deciso di trasporla sul pianoforte. La demo l’ho registrata così. Da lì, altri brani li ho scritti partendo dalla tastiera, come Vitamin. Io non so suonare molto bene il pianoforte, perlomeno non tanto quanto la chitarra. Per cui mi sedevo e scrivevo in maniera istintiva ed esplorativa. Credo che questo metodo mi abbia aiutato a superare il blocco creativo. Dico sempre: “Se non riesci a scrivere, cambia lo strumento”.
A proposito di Vitamin, sembra quasi che tu abbia voluto mescolare tutte le tue influenze in quel brano. Che musica ascoltavi in quel periodo?
Ho ascoltato poca musica, il che suona un po’ folle. Mi viene posta spesso questa domanda sulle influenze e su chi sto ascoltando. Sono una musicista, quindi ci si aspetta che lo faccia, ma in realtà non ascolto molta roba. Mi piace rimanere bloccata su un disco e girarci intorno. In quel periodo ero in fissa con l’album di Alex G (God Save the Animal, 2022) e con B-Sides, Demos & Rarities di PJ Harvey. È stato affascinante ascoltare le sue prime interazioni con le proprie canzoni, soprattutto quando stai lottando con il blocco dello scrittore. Comprendi che talvolta alcune cose rimangono imperfette o incompiute e vanno comunque bene così.
Sei stata ispirata dal “non finito”, ma Big Sigh ha una produzione molto matura ed elaborata. Quanto sono cambiate le canzoni dalla loro forma primitiva al risultato dopo il tuo lavoro con Sam Petts Davies e Charlie Andrew?
Ho fatto un intenso lavoro di produzione a partire dalle demo, prima ancora di entrare in studio. Per cui direi che non sono cambiate così tanto. Diciamo che sono state abbellite. Poi, ovviamente, il fatto di poter inserire degli archi suonati dal vivo è stato fantastico. Tutto prende vita con gli strumenti reali, piuttosto che con quell’orribile pianoforte midi.
Big Sigh di Marika Hackman è un album vivo
Quando hai deciso di inserire le due parti strumentali nell’album, The Ground e The Lonely House?
The Ground l’ho scritta all’incirca un anno prima che iniziassi a lavorare a Big Sigh, poi l’avevo lasciata lì nel cassetto con l’idea, prima o poi, di trasformarla in una canzone vera e propria. Quando ho cominciato a scrivere questo album, volendo inserire dei brani più epici, mi è tornata in mente e riascoltandola mi sono resa conto che funzionava così com’era. È l’intro perfetta perché è in grado di sommare tutti gli stati d’animo e i sentieri presenti nel disco. The Lonely House, invece, è nata al pianoforte e, anche in quel caso, la melodia era così convincente che ho ritenuto non ci fosse spazio per aggiungere altro. Sono molto orgogliosa di queste due tracce: mi hanno dato la consapevolezza che posso scrivere anche musica strumentale, una cosa che mi piace molto fare.
Quindi dobbiamo aspettarci una tua colonna sonora ben presto. C’è un regista con cui sogni di lavorare?
Oh, non ci ho mai pensato, ma lavorerei con qualsiasi regista. Magari qualcosa di strano come i lavori di Jim Henson, oppure in un film fantasy, come Il signore degli anelli. Adoro quella colonna sonora.
Anche po’ alla John Wiliams quindi, in un film di Steven Spielberg.
Sì, esatto. Quel genere epico alla John Williams o alla Howard Shore.
Non solo per gli strumenti suonati dal vivo, ma anche nei testi questo disco è fisico. Il corpo torna sempre: le ossa che si screpolano come in Slime, ti descrivi, attraverso le parole di tua madre, come A waste of skin and A sack of shit and oxygen. Penso che l’isolamento pandemico in molti casi ci abbia fatto ritrovare la consapevolezza dei nostri corpi. È stato lo stesso per te?
In realtà la prima presa di coscienza del mio corpo l’ho avuta a 17 anni, quando ho rischiato di morire per una grave forma di appendicite. Sono stata in ospedale per una settimana, ho avuto anche una setticemia. Quello è stato il mio primo grande confronto con il mio corpo ed è per questo che le mie canzoni, da sempre, ne parlano. Si tratta di una delle poche cose che unisce tutti gli esseri umani. Finché non ci sbatti il muso, credi di essere fatto, non so, di plastica. Poi, invece, scopri quanto il nostro sia complicato e anche quanto sia disgustoso. Sicuramente il lockdown e la pandemia hanno riacceso per me quel confronto e per molte persone è stato un periodo di realizzazione di come il corpo, nonostante sia tuo, sia qualcosa che non puoi controllare del tutto. È affascinante, ma anche molto spaventosa questa cosa.
Tutto questo si riflette anche nel modo in cui scrivi e canti delle relazioni amorose.
È una cosa istintiva. Come detto, vengo spesso attratta dal lato più oscuro delle cose e questo si riflette nell’immaginario del corpo e della fisicità. Però sono anche molto romantica e, quindi, combinare queste due cose mi viene naturale. Inoltre, trovo che le relazioni possano essere piuttosto ansiogene e quando ho l’ansia, sai, è come se fossi un po’ strana e tutto ha una ricaduta anche sul mio fisico. Il sesso, d’altronde, è fisico, è un incontro tra corpi.
Il primo singolo che hai pubblicato dall’album è stato No Caffeine, dove parli proprio di ansia. Che legame c’è tra la musica che scrivi e la tua salute mentale?
Quando scrivo di solito tendo ad affrontare temi complicati e l’ansia è uno di questi. La cosa che trovo davvero spaventosa dell’ansia o della depressione è che sono inutili e ti inibiscono: hanno un impatto sulla tua vita e ti impediscono di fare tante cose. Se però riesco a scrivere una canzone su come ci si sente, allora non sono più inutili. La cosa meravigliosa di esprimere queste sensazioni profonde e intime con le canzoni è che poi diventa un’esperienza condivisa e molti, ascoltandola, ci si ritrovano. Ci si comprende a vicenda, di colpo siamo tutti sulla stessa linea d’onda. Soprattutto nel mondo dell’industria musicale le scadenze e i tour possono diventare molto stressanti. È bello essere in grado di esternare il lato più oscuro delle cose.
Cosa senti di avere imparato dalla scrittura di questo album e dal periodo vissuto?
Penso di aver imparato che la chiave è andare avanti e non perdersi d’animo. Essere metodici, lavorare anche quando lo si trova davvero difficile, è molto utile. Le cose buone alla fine arrivano. La creatività trova sempre un modo per emergere, devi solo metterti in una posizione tale che ciò possa accadere. È come una grande curva. Dopo questo disco so come dover affrontare un blocco creativo, qualora capitasse di nuovo.
Senti quindi di esserne uscita come una persona migliore?
Sì, penso di sì. Sono stati anni folli per tutti, ma mi piace pensare che ogni anno che passa, si cresca e si diventi più saggi. Penso di esserne uscita come un’artista migliore di quanto lo fossi in precedenza. Sono più onesta e credo che col tempo lo sarò sempre di più con le mie canzoni. Sì, la chiave è essere onesti, soprattutto nella musica.
La tracklist di Big Sigh, in uscita il 12 gennaio 2024
- The Ground
- No Caffeine
- Big Sigh
- Blood
- Hanging
- The Lonely House
- Vitamine
- Slime
- Please Don’t Be So Kind
- The Yellow Mile