Interviste

Maurizio Carucci, tra la natura, il viaggio e la scrittura: «Non ho ancora trovato il mio posto nel mondo»

Il cantautore genovese presenta il suo primo romanzo “Non esiste un posto nel mondo”, edito da HarperCollins, e ci racconta del periodo di pausa e della riconnessione con la natura

Autore Andrea Florenzano
  • Il20 Ottobre 2024
Maurizio Carucci, tra la natura, il viaggio e la scrittura: «Non ho ancora trovato il mio posto nel mondo»

Maurizio Carucci, foto di Martina Panarese

“Ogni manifestazione così evidente della natura mi suscitava gioia”. La spiritualità nella voce di Maurizio Carucci quando parla di natura è contagiosa. Il cantante degli Ex-Otago, al suo romanzo d’esordio Non esiste un posto al mondo edito da HarperCollins, ci racconta di come ha trasformato un momento critico della sua vita in un’occasione per fermare il tempo e riflettere. L’industria discografica ha dei ritmi a volte insostenibili, che dopano il processo creativo non consentendone la naturale genesi. “Avevo bisogno di prendermi un periodo di pausa. Mi è venuta voglia di frequentare dei luoghi della cultura in cui si andasse più lentamente. In cui la mano dell’industria fosse un pochino meno presente.”

Questa ricerca di lentezza da parte di Carucci è culminata nell’inizio di una fase estremamente produttiva e florida della vita del cantautore genovese, per esattezza del quartiere Marassi, a cui ha dedicato un album, con gli Ex-Otago, e un capitolo del libro. La visione del suo luogo di nascita è mutata in base al supporto utilizzato per descriverla. Il testo di una canzone è una sintesi, un assaggio di verità. Le pagine di un libro sono il mezzo in cui l’inchiostro può penetrare nella profondità dei ricordi, per esorcizzarli, per cristallizzarli.

“Spero che in ogni caso si colga che, quando parlo del mio quartiere in maniera molto pesante e critica, in realtà sto parlando anche di me.” Percependo che quel senso di appartenenza viscerale nei confronti dei palazzi e delle strade di Marassi era arrivato a destinazione, Maurizio tira un sospiro di sollievo. In effetti scrivere sulle proprie origini è uno dei passaggi più complessi del processo di introspezione.

È un po’ come quando, in qualità di genovese doc, ti imbatti continuamente in ogni contesto sociale nella fase adolescenziale nella musica del gotha del cantautorato: De Andrè, Lauzi, Paoli, Conte. L’ammirazione può trasformarsi, soprattutto per chi sin da subito si sente uno scrittore, in un sentimento quasi ossessivo. E allora si cerca di fuggire dai propri affetti, dalle proprie radici, dalla musica che si ascoltava un tempo. E di evolvere. Anche se, per chi ama definirsi un viaggiatore instancabile, potrebbe sembrare complicato trovare il proprio luogo nel mondo. Probabilmente, per il cantautore, non ne esiste solo uno.

L’intervista a Maurizio Carucci

Com’è nata l’idea di scrivere questo libro? Stai attraversando un momento più introspettivo e riflessivo della tua vita?
Non faccio nomi, ma alcune case editrici, mi hanno sempre un po’ corteggiato da Sanremo in poi (2019, ndr) perché volevano da me è un romanzo. Io però non mi sono mai avventurato anche perché non sono un romanziere. In realtà non mi sentivo per niente pronto. Poi però a quarant’anni ho avuto una crisi importante.

Qual è stato il fattore scatenante di questa crisi?
Sono stati più problematiche che ho metabolizzato nello stesso periodo. In primis, dopo la bellissima data del palazzetto di Genova con gli Ex-Otago c’era da mettere in conto la fine di un ciclo con la band. Era da tre anni che non ci fermavamo un secondo e sentivamo il bisogno di prenderci una pausa anche se non è stato facile. Inoltre, in quel periodo era venuto a vivere da me in montagna un cantautore che mi aiutava nei lavori di campagna. Stavamo anche scrivendo insieme un disco. Purtroppo, a 29 anni gli è venuto un cancro ed è morto in pochi mesi. Il tutto poi in pieno isolamento a causa del covid. Questi fattori insieme mi hanno fatto un po’ perdere la brocca. Non riuscivo più bene a capire bene quale fosse la direzione giusta per me, mi sentivo come se avessi perso tutti gli appigli.

Quindi ti sei rifugiato nella scrittura?
Anche a causa di una società sempre più movimentata e radicale mi è venuta voglia di frequentare dei luoghi della cultura in cui si andasse più lentamente. In cui la mano dell’industria fosse un pochino meno presente. Ho sempre letto e amato la letteratura e cimentarmi nella scrittura pensavo avesse un senso in questo periodo per me.

Che valore ha per te è il viaggio?
Io mi considero un viaggiatore instancabile, ne ho compiuti molti negli ultimi 10 anni per me significativi. Ammiro chi viaggia in giro per il mondo e riesce a scrivere dei racconti personali come Tiziano Terzani e Paolo Rumiz. Mi son sentito desideroso di mettermi in scia con questo tipo di letteratura. Che mischia il viaggio, il memoir e il saggio. Mi sembrava la cosa più vicina a me e l’unica che potessi fare. 

Ma è più difficile scrivere un libro o un album?
Sono due cose diversissime, con ritmi quasi opposti, ma non saprei paragonarle. In ogni caso non le considero due operazioni esclusive. Tanto che con gli Otaghi è un periodo di scrittura molto florido, anche dopo l’album Auguri (uscito a maggio 2024, ndr)

Nel libro dedichi un capitolo intero a Marassi, il quartiere di Genova dove sei cresciuto. Con gli Ex-Otago nel 2016 avete intitolato un vostro album a Marassi. È cambiata la tua percezione del quartiere in questi anni?
Da ragazzino Marassi, per me rappresentava un po’ il mondo intero. Vedevo sempre le solite case, il solito asfalto e per me quello era tutto. Era una forma totalmente passiva di percepire il posto in cui ero nato e ciò mi faceva soffrire. Ora che sono adulto ritrovo sempre quei lineamenti, ma riesco da lontano a capirne anche i pregi. Oltre a ciò che mi ha tolto, intravedo anche ciò che mi ha dato. Ho avuto un po’ paura pubblicare il primo capitolo perché comunque lo distruggo un po’, però spero che emerga chiaramente che quando parlo di lui in realtà parlo anche di me.

In realtà Marassi per gli Ex-otago in quell’album rappresentava la casa, il punto in cui da cui non partire. Ha avuto in quel frangente un ruolo salvifico e protettivo. Nel mio libro assume un ruolo un po’ più drammatico e non l’ho mai percepito come rifugio. Capita che gli stessi posti, come le persone possono anche cambiare atteggiamento e ne possiamo avere una visione differente anche nel giro di pochi anni.

Restando al periodo della tua infanzia/adolescenza, che impatto ha avuto per la tua crescita personale la separazione dei tuoi genitori?
Da quel momento lì in poi ho capito che avrei dovuto sbrigarmi un po’ per diventare grande. Questo evento però ha acuito ancora di più la mia passione per la musica. Anche perché per me la musica era un luogo sicuro, in cui ripararmi e in cui conoscere degli stati d’animo inesplorati.

In un tratto del libro parli in questo modo di un evento atmosferico: “ogni manifestazione così evidente della natura mi suscitava gioia”, riferendoti a quando una volta con i tuoi genitori eravate rimasti chiusi in macchina, durante una gita in montagna, a causa delle temperature gelide. È quello il momento in cui per la prima volta hai sentito una connessione così potente con la natura circostante? In che modo la natura influisce sui tuoi rapporti umani?
Ad oggi che ho 44 anni io vedo la natura come una sorta di religione. Come un’entità divina, anche perché ci ritrovo tutto. I colori, i sapori, gli odori, la tecnologia e lo sviluppo umano. Facevo un ragionamento con un mio amico l’altro giorno sul fatto che io vado d’accordissimo con bambini e anziani. Forse perché sono le due categorie di esseri umani che hanno una connessione più vicina con la natura. I bambini perché sono arrivati da poco sulla terra e gli anziani probabilmente perché hanno meno tempo a disposizione. Ecco, con loro sento una connessione diversa. Questo legame così profondo mi fa fortemente mettere in dubbio la concezione comune di Dio e in generale della religione Cristiana.

Quali sono i tuoi posti del mondo? Come cambia la musica in base al luogo in cui la ascolti?
Come cambia non lo so, quello che posso dire che mi sembra proprio che cambi. Ecco io penso che comunque i posti condizionino fortemente la nostra visione del mondo, che si parli di musica o di cibo. Anni fa abitavo in un paesino in montagna ed era appena uscito l’ultimo album dei Kings of Conevenience, mi ricordo che stavo passeggiando era buio e avevo le cuffie. A un certo punto mi sembrava di essere in uno stato d’allucinazione, con quei profumi e quei silenzi potentissimi il tutto immerso nel buio… in quel momento ho vissuto qualcosa che altrove non avrei vissuto. L’esperienza sensoriale della musica in quel periodo mi ha condizionato l’esperienza uditiva.

Che influenza ha avuto il cantautorato genovese sulla tua scrittura? E che analogie ci trovi con gli altre ascolti che citi nel testo, dal punk degli anni ’70 alla New Wave anni ’80 fino al british rock anni 90’?
Io sono cresciuto con degli ascolti estremamente polarizzati. Ascoltavo la musica techno progressive ma anche Vasco Rossi, Battisti e ovviamente anche i cantautori genovesi. De Andrè, Paolo Conte, Bruno Lauzi. Ecco, con la scena genovese, ho un rapporto estremamente conflittuale. Se nasci in quei contesti lì, quella roba te la mangi a colazione, pranzo e cena. Quindi da una parte la apprezzi, da una parte dopo un po’ non ne puoi più e senti il bisogno di fuggire. Dopo un po’ il classico andamento chitarra e voce fatto da testi solenni ti stroppia. È lì che cerchi qualcos’altro, ascoltavo altre band come i The Hives, i Thursday e in generale la scena emo ’98.

Ma anche tanto Luca Barbarossa e Luca Carboni. In ogni caso, con gli otaghi miravamo a portare il pop su quelle vibes un po’ più hardcore. Sentivamo che in Italia sarebbe potuto esistere anche un altro tipo di pop oltre a quello di Laura Pausini o Eros Ramazzotti.

Un concerto che hai visto da ragazzo e che ti ha fatto scattare la scintilla?
Stadio Luigi Ferraris, 1996, Vasco Rossi.

Vai ancora ai concerti?
Devo dire che non sono mai stato un grande appassionato di concerti, devo ammetterlo. Mi piacciono, ma spesso mi annoiano. L’ultimo concerto che mi ha veramente colpito è stato quello di Nils Frahm al Monfrà Jazz Festival di Casale Monferrato. Una delle emozioni più forti che io abbia mai provato.

Nel 2016 cantavi con gli Ex-otago “I giovani d’oggi non valgono un cazzo”,  dal brano I Giovani D’oggi dell’album Marassi. Nel 2024, c’è qualcuno che ti piace dei giovani artisti emergenti?
Te ne direi tre. Anna Castiglia, Irbis e Olly.

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