Meduza, Italian Touch
Mattia, Luca e Simone sono autenticamente i testimoni di un sound dance che sa essere internazionale ma con un tocco melodico che è figlio di una lunga tradizione di producer e DJ italiani. Li abbiamo incontrati durante un’estate pienissima di impegni in consolle in giro per il pianeta
L’ultima immagine che avevo di loro, prima di incontrarli sul set del nostro servizio fotografico, è recentissima: settimana del design, festone in una location stupenda e Mattia Vitale che mixa. Il flusso della gente sul dancefloor è a ondate, prima un’enclave di designer quarantenni olandesi che ballano con il bicchiere in mano, poi un’onda di ragazzi ventenni che alzano le mani in aria quando sentono i coretti di Piece of Your Heart o Lose Control e alla fine tutti appassionatamente cantano One More Time dei Punk, mentre Mattia si diverte a giocare con gli effetti. Ecco, quello che amiamo dei Meduza è quella capacità di farsi amare da un pubblico trasversale, nonostante siano più presenti nei club e nei festival di elettronica che nei canali mainstream dell’intrattenimento italico.
A proposito di Italia, abbiamo proprio voluto giocare con il titolo Italian Touch perché – mutuando il significato che sottende il termine celeberrimo French Touch – i Meduza sono i portatori sanissimi di una stupenda tradizione, quella dei DJ e producer italiani che dagli anni ’80 ad oggi hanno continuato a trasmettere un certo stile nella dance. Non importa se talvolta la definiamo “commerciale”, come successe per la dance gli Eiffel 65 più ricercata, come nel caso dei Tale Of Us, ma siamo coscienti che è musica in grado di far ballare tutti, come accade con i Meduza.
Prima di iniziare questa intervista ci siamo divertiti (c’è anche il video) a fargli commentare una manciata di 12 pollici che mi sono portato nella mia DJ bag. Gli occhi di Mattia Vitale, Luca De Gregorio e Simone Giani si sono illuminati davanti alle copertine di singoli che hanno fatto la storia della musica dance. Groovejet di Spiller, Needin’ U di David Morales, Music Sounds Better With You di Stardust, giusto per ricordarne qualcuno.
Adesso tocca a loro parlare, all’indomani del loro nuovo singolo Fire, l’inno ufficiale di Euro 2024, infelice per noi italiani per il comportamento sul campo degli Azzurri, ma almeno dei Meduza possiamo sentirci orgogliosi.
L’intervista ai Meduza
Sto vedendo quante date fate quest’estate. È vero che vi dividete il duro lavoro tra di voi, ma davvero sono un bel numero di date come DJ set: più di quaranta in tre mesi!
Mattia Vitale: Peraltro senza considerare alcuni pre-show al Cafè Mambo a Ibiza!
Luca De Gregorio: …che sono una figata, perché mixiamo per un’oretta, talvolta in modalità back to back con qualche guest. Il tutto mentre cala il tramonto. Spettacolo. Sempre a Ibiza suoniamo nelle serate Our House al Hï.
Voi siete ormai degli habitué a Ibiza. Il suo pubblico è cambiato negli ultimi anni?
MV: Secondo me… (pausa, ndr) c’è una generazione completamente diversa rispetto a prima e l’età media si è abbassata di molto.
Simone Giani: Anche il tipo di musica proposta sta cambiando. Potrei dire che è molto più legata ai successi internazionali rispetto a prima, quando si cercava comunque di mantenere quella certa identità ibizenca nelle sonorità.
MV: Ovvio che a luglio e agosto l’isola diventi musicalmente molto più commerciale per la tipologia di turisti che arrivano, è una cosa risaputa per ogni luogo turistico. Solo che – rispetto al passato – Ibiza è diventata più permeabile alle richieste di quello che vuole il pubblico. Man mano che si va verso settembre ritrovi nei club anche gli addetti ai lavori. Quella fetta di clubber puri, veri appassionati e tanti americani. In quel momento della stagione ti puoi davvero divertire e sentirti più libero come DJ.
Siete anche diventati degli incredibili esperti nel mixare in ogni situazione: cosa significa per voi come DJ essere in consolle al Tomorrowland e poi passare a quella del Lollapalooza, tanto per fare due esempi? Immagino sia una sfida continua.
MV: Tutto questo è molto interessante per me. Sono cresciuto come resident DJ, quindi sempre abituato a cambiare il set a seconda del pubblico o della tipologia di serata… Per me, il fatto di suonare in situazioni diverse ogni settimana, aiuta anche me stesso a poter lavorare sulle tracce, sugli edit e a cambiare completamente prospettiva. Certo, quando vai a suonare a un festival – che sia più legato alla dance o al rock in generale – devi suonare la tua musica. Noi ci presentiamo come Meduza: siamo lì perché il pubblico si aspetta una nostra performance, con le nostre produzioni.
SG: Sul palco del Tomorrowland ci sentiamo nel nostro habitat naturale. Siamo in compagnia di altri DJ producer, mentre al Lollapalooza siamo coinvolti in compagnia anche di band e artisti che tendenzialmente fanno tutt’altro. È proprio in quel frangente che ci sentiamo spesso ancor più gratificati, perché i nostri singoli passati in radio o ascoltati sulle piattaforme accomunano una audience eterogenea che spesso ritrovi nei festival, come appunto il Lollapalooza, e alla fine veniamo accolti con favore.
LDG: Lato squisitamente produttivo, la cosa bella è che con le nostre canzoni riusciamo a piacere nei festival in Sud America come in quelli europei. Sempre più ci diciamo: “Ok, noi non siamo solo quelli che suonano e spaccano nei club, ma siamo tanto altro”.
Faccio un brevissimo rimando storico a tutto questo. Il meccanismo di accettazione della dance nei festival iniziò tra il 1997 e il 1998 con Chemical Brothers e Daft Punk, ricordate? Finalmente la gente che ballava il rock cominciò a portare rispetto ai clubber e a mescolarsi tra loro.
LDG: E negli ultimi quindici anni la musica elettronica è davvero esplosa come presenza nei festival, oltre ad essersi creato un circuito di festival dove questo genere è dominante. Oggi l’elettronica – e in particolare la dance – ha la stessa valenza di generi come rock, pop, hip hop.
SG: Hai nominato i Chemical Brothers. A me viene in mente non solo il loro coraggio di riuscire a suonare nei festival dove il rock era il genere protagonista ma anche il fatto che riuscirono a fare la differenza! Tutto questo, pensando alla mia storia personale, mi fa ricordare i tempi del Conservatorio: anch’io feci il mio atto di coraggio manifestando l’interesse e la passione per la musica dance. Ricordo benissimo di ritrovarmi sbeffeggiato il più delle volte (ride, ndr).
Immagino la scena! Chiudo il cerchio ricordandoti che Thomas Bangalter, appena sciolti i Daft Punk, ha fatto uscire un disco di musica classica contemporanea per la Erato, storica e rispettatissima etichetta…
SG: Oggi tanti confini si sono divelti. Due di noi hanno fatto studi classici, e non siamo gli unici!
Vorrei toccare il tema “Italian touch” che ci ha anche portati a intitolare così questa cover story ma che pervade tutto il numero. Siamo un paese produttore di fantastica musica dance, con successi che nei decenni tante nazioni ci hanno riconosciuto. Voi avete quel senso melodico nelle tracce che è anche figlio di questa lunga tradizione, no?
MV: Assolutamente! Siamo cresciuti fin da piccoli con la musica popolare italiana, quindi chi più chi meno, anche inconsciamente, ha quel retaggio dentro. Lo sentiamo affiorare quando ci mettiamo in studio, dove sempre facciamo un mix di tutte le esperienze che abbiamo in testa. Quelle melodie tornano a farsi presenti, come quella sensibilità nella costruzione delle armonie tipica di certi grandi cantautori del passato italiani.
SG: Io sono cresciuto con le canzoni di Battisti, Dalla e tutta quella scuola. Poi noi italiani sin dal ‘600, più o meno dall’Opera Buffa in poi, siamo dei maestri della melodia.
MV: Leggi la classifica degli autori italiani più ascoltati nel mondo adesso e ti ritrovi in alto Vivaldi! Per fortuna! Ti faccio adesso un ragionamento da DJ. Io non sono molto per i set tutti ritmici senza melodia. Ho rispetto per i DJ techno anche più puristi, ma per me il tutto a lungo andare diventa monotono. Ho bisogno di stacchi, di cantati e di melodie che ti facciano viaggiare, vivere un’esperienza diversa. I Meduza fanno questo nei set, è fondamentale.
SG: Mi ricordo che tanti anni fa, quando per la prima volta siamo andati insieme io e te a Ibiza, facemmo questo discorso sull’importanza della melodia. Stavamo osservando in consolle Carl Cox allo Space. Dopo un’ora di martellamento con strumentali quasi senza melodie alzò il cursore e partirono le note di Music Is the Answer di Danny Tenaglia. Apriti cielo. Si creò un’atmosfera pazzesca, da pelle d’oca.
Voi siete un caso a parte. Grazie ai vostri successi anche i media più tradizionali vi passano e vi invitano, ma ci rendiamo conto che oggi molti bravi artisti dance italiani non sono trasmessi in radio. Impossibile poi vederli in TV. Faccio giusto due nomi, uno già con una lunga storia alle spalle (Benny Benassi) e gli attualissimi Tale Of Us.
LDG: Non so spiegarmelo. È strano, perché comunque qui negli anni ‘90 la musica dance imperava ovunque, oggi diremmo “su tutte le piattaforme”. Abbiamo fatto diventare un fenomeno globale la dance made in Italy. Poi si vede che con una certa flessione avvenuta a inizio anni Duemila la nostra dance ha perso appeal in TV o in radio, tranne rare eccezioni.
SG: Da quel momento la musica dance è stata considerata spesso una produzione di serie B…
Eppure oggi tantissimi artisti hip hop / trap e anche pop flirtano terribilmente con la dance contemporanea.
LDG: Giusto.
MV: La cosa che veramente mi dispiace è che ci sono talenti che fanno bei numeri nei loro show e non hanno visibilità altrove. Benassi e Tale Of Us hanno comunque un impatto mediatico, eppure la reazione dei media mainstream è pari allo zero. Direi anche che circola una certa mancanza di rispetto anche a livello culturale, pensando che noi siamo tutti figli di Giorgio Moroder, che ha esportato nel mondo quell’Italian touch di cui stiamo parlando e che noi come gli artisti citati prima – ma come tanti altri – portiamo avanti con bei progetti e belle idee.
È triste arrivare al successo prima all’estero e poi in Italia. Quando entriamo in alcuni studi di registrazione all’estero, ti accorgi che ci lavorano sodo e bene una marea di italiani (potrei dire la stessa cosa per il cinema) che sono dovuti andare all’estero per dimostrare le loro capacità. Nel nostro paese non gli hanno dato una possibilità.
SG: La bassa considerazione degli artisti dance era toccata, fino a quindici anni fa circa, a chi faceva hip hop, tranne rari casi, se ci pensi.
L’intervista completa ai Meduza è sul numero di Billboard Italia di luglio/agosto prenotabile a questo link.