Dall’Itpop alla trap, fino ai Phoenix: il MI AMI compie 18 anni. L’intervista a Carlo Pastore e Stefano Bottura
A poco più di una settimana dall’inizio del Festival in programma al Circolo Magnolia a Milano da venerdì 24 a domenica 26 maggio, ci siamo fatti raccontare dai due direttori la nuova edizione alle porte
Gli oltre cento artisti che saliranno sui vari palchi del MI AMI 2024 al Circolo Magnolia la prossima settimana andranno ulteriormente a infoltire la sconfinata rosa di band, cantautori, DJ, rapper e via dicendo, che dal 2005 hanno animato uno dei festival simbolo del panorama musicale italiano. Quella di quest’anno sarà la diciottesima edizione, quella della maggiore età. Un’edizione caratterizzata come al solito da nomi emergenti, ma che si arricchisce anche di momenti speciali con artisti internazionali, su tutti i Phoenix. Impossibile poi non citare il live dei CCCP – Fedeli alla linea del 23 maggio. Il concerto, che anticipa l’inizio del festival, si svolgerà, data la grande richiesta, al Carroponte. Una scelta desiderata e voluta «a tutti i costi» dai direttori Carlo Pastore e Stefano Bottura.
A poco più di una settimana dall’inizio del MI AMI 2024, e in concomitanza con la pubblicazione degli orari di esibizione sui vari palchi degli artisti, abbiamo scambiato quattro chiacchere con i suoi due ideatori. Abbiamo parlato della storia del festival, di come sia cresciuto e di come abbia mantenuto la propria natura in un mondo in costante metamorfosi. Perché da diciotto anni a questa parte l’obiettivo è narrare e, quando possibile, anticipare, le rotte della musica italiana.
L’intervista a Carlo Pastore e Stefano Bottura
Quest’anno il MI AMI arriva a quota diciotto e diventa maggiorenne. Cosa vuol dire aver raggiunto un traguardo del genere?
Carlo Pastore: È un motivo d’orgoglio. Ogni volta che ci penso mi viene da fare un grande sospiro emozionato perché non è scontato. Diciotto edizioni in realtà vogliono dire venti anni, quindi
due decadi di musica italiana con dei saliscendi pazzeschi e una crescita del festival che è andata di pari passo con quella della scena italiana ed è stata in alcuni casi anche un po’ propulsiva. In un certo senso noi ci sentiamo anche protagonisti di quello che è successo nella musica del nostro Paese, avendo interagito con gli stessi protagonisti e mettendoli sul palco prima che il mondo si accorgesse di loro. Il nostro è stato sempre stato un racconto della musica indipendente che poi è diventata musica importante. Un esempio è quello che è accaduto nel 2016 con quel “mostro a due teste”: l’Itpop da un alto e la trap dall’altro.
Oggi ripartiamo con un grande concerto di apertura di una band che tutti pensavano ormai consegnata ai musei, ovvero i CCCP – Fedeli alla linea. Per poi chiudere con un gruppo internazionale di primo livello come i Phoenix. In realtà il MI AMI è sempre lo stesso anche se la musica è cambiata. La nostra missione, dal 2005, è sempre quella di riuscire a intercettarla e raccontarla.
È più complicato organizzare il festival oggi, che è più affermato, o era più difficile agli inizi?
Stefano Bottura: Difficile rispondere a questa domanda. All’inizio hai l’adrenalina e la forza della gioventù dalla tua parte, quella roba che ti fa fare qualsiasi cosa e ti fa essere spericolato. Secondo me, questo ci ha aiutato parecchio ed è stato il carburante dei primi anni del MI AMI. Adesso che c’è il nome, con esso c’è anche il peso e la difficoltà di organizzare una cosa che è dieci, anzi trecento volte più strutturata, impegnativa, delicata e costosa di prima. Quindi, sono due situazioni opposte con i loro pro e i loro contro.
Ogni anno sul palco del MI AMI si alternano artisti emergenti. Quest’anno, per esempio, ci sono nomi come Marta del Grandi e Daniela Pes. Quale è stata la direzione che avete adottato nella scelta della line up di quest’anno?
S: Molto spesso della direzione ci rendiamo conto poi a posteriori. In questo senso l’edizione del 2016 alla quale accennavamo prima ne è la testimonianza. Quell’anno abbiamo dato vita a un cartellone diviso tra It pop e trap, un’analisi che possiamo fare oggi, ma non all’epoca. Quello che stava accadendo era qualcosa di ancora poco codificato. C’era questa “selva” – tanto per citare il titolo del disco di Marta del Grandi – di ragazzi che faceva rap in una maniera molto diversa e altri che scrivevano canzoni ispirandosi alla scuola di Battisti e Lucio Dalla. Non sapevamo ancora cosa sarebbero diventate queste due scene, però ci piacevano e per questo volevamo ospitarle.
Credo che quest’anno siamo di fronte a qualcosa di simile. Noi guardiamo alla musica di oggi come gli agricoltori guardano al clima. C’è un senso di spaesamento rispetto a certi cambiamenti che ti mettono un po’ in difficoltà, ma anche quella sensazione di essere partecipi e testimoni di qualcosa di nuovo che sta nascendo.
Quest’anno, in particolare nell’ultima giornata, c’è una presenza maggiore di artisti internazionali, tra cui Bar Italia, Cumgirl8 e Phoenix. È un’anticipazione di una futura strada sempre più internazionale del festival?
S: C’è in realtà un’idea ben precisa che sta dietro alla line up della domenica, che è il giorno in cui abbiamo più artisti internazionali, anche se poi negli altri giorni ci sono anche nomi italo-svizzeri e italo-arabi. Il concetto è un po’ quello dell’Italia vista da fuori. Sia i Bar Italia, la cui cantante è romana, sia le Cumgirl8, che hanno dedicato un brano alla pornostar Cicciolina, sia i Phoenix che hanno scritto un intero disco (Ti amo) sull’immaginario italiano, sono in qualche modo collegati al nostro Paese.
Noi siamo abituati a raccontare noi stessi da dentro, con tutte le consuetudini legate al nostro ambiente, ai locali che sono qui. Il rischio è quello di finire per essere autoreferenziali e negli ultimi tempi abbiamo sentito un po’ un’asfissia. Abbiamo così provato a capire cosa si pensa dell’immaginario italiano all’estero. La ritengo una cosa salutare, non solo per la qualità della musica che ascolteremo sui palchi, ma anche per la riflessione che la musica stessa porta con sé.
C’è un nome sul quale avete puntato più di altri e che volevate assolutamente sul palco del MI AMI?
S: Probabilmente è una risposta che, vedendo i nomi in cartellone, uno non si aspetterebbe. Dico Tamango. Tutto è nato da un video su YouTube. All’inizio di quest’anno, questo collettivo di musicisti e videomaker torinesi di cui non si sa nulla, il cui nome si ispira a un cocktail di uno dei bar della loro città, ha pubblicato una session che sui social è diventata virale. Ha ottenuto milioni di views e ha ricevuto vari commenti anche da grandi artisti della musica italiana come Cesare Cremonini. Addirittura, anche dall’account dei Grammy Awards. Tutto questo è accaduto in modo totalmente inaspettato.
I ragazzi sono subito spariti perché, in quanto indipendenti, hanno rifiutato tutte le avance da parte dell’industria. La loro unica data estiva sarà proprio al MI AMI. I Tamango sono il classico nome a cui nessuno fa caso, ma che ha un grande senso per il tipo di racconto che fa il nostro festival. Mi ricorda un po’ quello che era successo con I Cani: quando li chiamammo non avevano mai fatto un concerto e poi sono diventato un manifesto della storia del MI AMI. Poi ovvio che se, invece, dovessi dare una risposta più scontata direi CCCP e Phoenix.
Quest’anno ci sarà un ritorno importante, quello dei Tre Allegri Ragazzi Morti, che festeggeranno i 30 anni di carriera con una vera e propria residency.
S: Beh loro si sono esibiti nel 2005 e devo dire che, se alla prima edizione non abbiamo perso dei soldi, è stato proprio grazie a Davide, Enrico e Luca che si esibirono praticamente a rimborso spese, comprendendo l’idea del festival e investendo nel renderlo possibile. Saremo sempre grati ai Tre Allegri Ragazzi Morti. Quindi quest’anno, pensando ai 18 anni del Festival e a chi avrebbe potuto raccontarli la scelta è stata spontanea. Tra l’alto, coincidenza, è anche il loro trentennale. Non si poteva non fare, era proprio chiamata, un doppio compleanno da festeggiare. Abbiamo pensato di dividere le tre esibizioni in decadi. Il venerdì canteranno il loro repertorio dal 1994 al 2004, il sabato si sposteranno su un altro palco e si passerà al periodo 2004-2014 e infine domenica, su un altro palco ancora, eseguiranno un greatest hits dei loro brani più importanti.
Carlo Pastore: C’è anche un aneddoto legato a questa cosa. L’anno scorso Davide Toffolo si è esibito per ultimo al MI AMI 2023 e, quando lo incontro, mi dice: «Il prossimo anno facciamo trent’anni con i TARM». Io gli ho proposto di suonare tutte e tre le sere e lui ha subito detto di sì. Con Davide è così, è una persona speciale e spontanea. Un altro episodio simpatico è quello legato alla reunion dei Prozac+. Dovevamo uscire con i materiali stampa e ci mancava ancora un nome di apertura che fosse in grado di reggere un concerto prima di loro. Una notte ho scritto a Davide proponendogli di esibirsi con i TARM e lui ha detto sì subito anche in quel caso, mandando in crisi il suo booker (ride n.d.r.).
Quale è stata l’edizione più difficile?
Stefano Bottura: La più difficile per me è stata quella del 2015 perché avevamo appena chiuso il cerchio dei primi dieci anni e c’era da reinventarsi.
Carlo Pastore: La mia è speculare ed è quella prima dei dieci anni. Nel 2013 era un periodo di stanca anche nel panorama musicale italiano. Devi anche considerare che noi all’epoca ci eravamo autoimposti di non chiamare lo stesso artista per due anni di seguito. Questo complicava moltissimo la costruzione della line up. Per esempio, I Cani, quando sono esplosi non li abbiamo potuti ospitare di nuovo.
In tutti questi anni c’è un artista del quale vi sentite orgogliosi, del quale potete dire: “L’avevamo capito!“
S: È impossibile scegliere e citarne uno solo vorrebbe dire fare un torto a tutti gli altri. Sono i fatti a parlare e a far capire le scelte azzeccate. Al MI AMI hanno debuttato I Cani, Massimo Pericolo, LIBERATO, Cosmo, L’istituto italiano di cumbia, Ele A (che torna anche quest’anno). Sono passate delle cose che effettivamente hanno poi aperto degli scenari e di questa presenza è anche di questa reattività nei confronti di quello che accade nella musica, secondo me dobbiamo essere orgogliosi perché significa saper ascoltare. È una cosa fondamentale per chi fa questo lavoro.