Dopo il dolore, la musica: Mike Shinoda racconta l’album solista “Post Traumatic”
Un esempio perfetto della sublimazione del dolore in creazione artistica: a un anno dalla morte dell’amico Chester Bennington, Mike Shinoda dei Linkin Park pubblica il suo primo album solista “Post Traumatic”
Il 20 luglio dell’anno scorso (un mese dopo l’ultimo live in Italia) si toglieva la vita Chester Bennington, frontman dei Linkin Park e amico fraterno del compagno di band Mike Shinoda. Per settimane Mike non è uscito di casa, divorato dalla tragica e improvvisa perdita. Poi, lentamente, la rinascita – attraverso la musica. Il risultato è un lungo album scritto quasi di getto, Post Traumatic: 16 brani che ripercorrono come pagine di un diario emozioni e riflessioni nel corso di un anno molto particolare. Perché per chi attraversa un periodo difficile, musica e arte – Shinoda è anche pittore: è suo l’artwork del disco – si rivelano la migliore terapia. Ma attenzione: si tratta di un album a tutto tondo, non di un mero lamento in memoriam per l’amico scomparso (come dice esplicitamente in About You). Ne chiediamo conto direttamente al suo artefice.
Nel corso della tua carriera musicale hai sempre mescolato diversi suoni e stili nelle canzoni. Come descriveresti Post Traumatic da un punto di vista sonoro?
È una delle cose di cui a volte mi dimentico di parlare, dal momento che l’album è liricamente così denso: per ogni canzone l’obiettivo primario era trovare le parole giuste e farne una specie di diario. Volevo essere sicuro di catturare ogni istante nel momento in cui capitava, come se ne facessi uno schizzo. Per i miei precedenti album con i Linkin Park abbozzavo qualcosa, poi ci ritornavo su il giorno dopo e magari settimane dopo lo rifinivo ulteriormente. Con quest’album, invece, quello che ho cercato di fare era mettermi a sedere e scrivere più che potevo nel momento in cui ero ispirato per una canzone. Questo è ciò che ha indirizzato l’album. E la musica fondamentalmente doveva supportarlo. Ma una delle cose che dimentico di dire è quanto la musica abbia guidato quel processo, perché a volte le tracce erano cose che avevo già creato nel mio laptop o in studio mentre altre volte facevo le parti vocali e la musica insieme. Così l’album è finito per diventare un disco multi-genere, intendendo la parola “genere” in senso lato: molti suoni diversi e molte cose che mi piace ascoltare.
Le canzoni di Post Traumatic sono state tutte scritte ex novo o ne tenevi già alcune nel cassetto?
Ci sono un paio di canzoni che in qualche modo esistevano già come Make It Up As I Go e Place to Start. Anche Running from My Shadow c’era già in parte. Le avevamo abbozzate all’epoca delle registrazioni di One More Light ma non erano mai state completate. Così quest’ultimo anno mi capitava di pensare: “Dovrei aggiustare quella canzone, descrive molto bene quello che mi sta succedendo oggi”. Allora mi ci tuffavo dentro, cambiando musica e parole, in un certo senso riscrivendola.
Qual è un aspetto di questa produzione di cui sei particolarmente orgoglioso?
L’obiettivo era catturare la verità nel momento in cui qualcosa succedeva e credo di esserci riuscito. Quello che capitava nella mia testa è finito nelle canzoni. Io tendo ad ascoltare musica non in base ai generi ma piuttosto in base al mood. Ogni venerdì do un’occhiata alle nuove uscite. Molte cose che mi piace ascoltare non fanno parte della musica più popolare e le devo “scovare”. Altre volte mi piace ascoltare la musica con cui sono cresciuto. Su Spotify ho una playlist pubblica che si chiama proprio così, Stuff I Grew Up On, e ha 130mila follower, una cosa per me pazzesca. Contiene pezzi dei tardi anni ’80 e dei primi ’90, ma anche qualcosa di fine anni ’90: cose come Public Enemy, Run DMC, N.W.A, Farside, anche Deftones e Nine Inch Nails.
Consideri Post Traumatic il tuo primo vero e proprio album solista?
Non ci ho mai pensato. Il mio album con i Fort Minor (The Rising Tied, 2005, ndr) era la prima cosa che facevo al di fuori dei Linkin Park. Dopo il successo dei primi album dei Linkin Park e dopo l’EP realizzato con Jay-Z (Collision Course, 2004, ndr) volevo fare tesoro di quello che avevo imparato – sul lavoro studio, sul songwriting, sulla registrazione, sulle tecniche di produzione e così via – e applicarlo alla musica con cui sono cresciuto e fare un disco hip hop. Così più di dieci anni fa ho realizzato questo album con i Fort Minor. Era la prima volta che andavo sul palco “da solo”: avevo sempre condiviso il palcoscenico con Chester e i ragazzi, ci dividevamo le interviste, mentre con i Fort Minor facevo io tutte le interviste ed ero responsabile di tutte le decisioni più importanti, che fossero di tipo creativo o di marketing. All’epoca ciò mi ha insegnato a prendere decisioni con determinazione: magari veniva suggerito qualcosa dal management o dall’etichetta che non mi sembrava adeguato e dovevo oppormi. L’ho sempre fatto in maniera molto rispettosa per mantenere buoni rapporti di lavoro. Tutto ciò costituisce le fondamenta di Post Traumatic. Ora vado sul palco completamente da solo, ma nel futuro prossimo quando sarò in tour mi piacerebbe aggiungere un paio di elementi, magari alcuni musicisti, per portare il tutto a un livello superiore. Voglio davvero che i miei concerti siano entusiasmanti e divertenti.
Quindi mantieni le cose semplici, per il momento.
Per adesso sì. Ed è una sfida il fatto di farlo da solo. È un’esperienza che voglio fare ora e una volta che mi sentirò sicuro di aver raggiunto l’obiettivo potrò aggiungere nuove parti per renderlo ancora migliore.
Post Traumatic contiene 16 tracce e dura quasi un’ora. Come mai un formato così lungo?
Avevo molto da dire! Quest’ultimo anno è stato davvero un viaggio per me e ho incluso le canzoni che mi sembrava esprimessero i momenti di quel viaggio: ho portato i fan a bordo con me. Alla fine dell’anno scorso c’è stato un momento in cui volevo pubblicare il 1° gennaio tutto ciò che avevo pronto – stiamo parlando delle prime otto o dieci canzoni del disco. Come puoi immaginare, se fosse finito con Crossing a Line sarebbe stato un’esperienza molto diversa, e molto più cupo. Ma ho parlato con il management e l’etichetta perché volevo andare avanti e loro erano d’accordo. Volevo completarlo con le altre cose che succedevano perché la musica era sempre migliore e le idee che avevo tutti i giorni erano molte. E sono contento di averlo fatto perché l’album è diventato molto più bello.
Come è stato accolto dai fan dei Linkin Park?
Le reazioni sono state incredibili. Quello che preferisco è la sensazione che stia aiutando un po’ di persone – si tratti di chi si sentiva a pezzi per la perdita di Chester perché lo ammirava come cantante e come persona, oppure di chi ha attraversato periodi di difficoltà e si identifica nei testi dell’album. I fan sono stati entusiasti per il fatto di andare avanti e pubblicare nuova musica.
Che futuro vedi davanti a te, artisticamente parlando?
La prendo come viene, non ho obiettivi particolari in mente. Ogni giorno è qualcosa di nuovo e diverso. Tengo gli occhi aperti su qualsiasi cosa succederà dopo.