Interviste

Mondo Marcio: «Prima fare musica era una crociata, ora voglio divertirmi»

Il rapper celebrerà i vent’anni del suo primo album ufficiale con due live al Gate di Milano domani e lunedì e in questa intervista ci ha raccontato come è cambiata Milano e la sua rabbia e perché non ha mai pensato di indossare la giacca della trap

Autore Greta Valicenti
  • Il14 Dicembre 2024
Mondo Marcio: «Prima fare musica era una crociata, ora voglio divertirmi»

Mondo Marcio

Mentre tutto nella musica si trasformava, Mondo Marcio non è mai cambiato. O meglio, non ha mai cambiato il suo spirito e la sua fedeltà all’hip hop. Quella infatti è la stessa del 2004, Gianmarco aveva poco più di 17 anni e faceva il suo ingresso nel rap con un album a cui aveva dato il suo nome d’arte e che nel 2024 spegne 20 candeline. Un disco sicuramente seminale e che Mondo Marcio pubblica in un momento in cui il rap italiano stava pian piano risorgendo dalle sue stesse ceneri dopo un periodo di blackout. Con Mondo Marcio, un rapper che stava uscendo dall’adolescenza trasportava l’attitudine d’oltreoceano all’interno dell’immaginario di un ragazzo milanese che cercava solo un modo di esorcizzare il proprio disagio, che solo dopo capì essere quello dei suoi Marci, come li chiama anche nella nostra intervista.

Mosso dal desiderio di fuggire da una situazione familiare complessa, dal bisogno di riconoscimento e di trovare un punto fermo, con Mondo Marcio il rapper ha dato voce al disagio sociale di sentirsi dimenticati e messi da parte, un sentimento più vivo che mai in un momento storico caratterizzato da incertezza e inquietudine per il futuro. Alla vigilia dei due concerti al Gate di Milano (domani e lunedì) con cui celebrerà i 20 anni dell’album, abbiamo incontrato Mondo Marcio per farci raccontare come è cambiata Milano e la sua rabbia, perché non ha mai pensato di indossare la giacca della trap e come ha smesso di vivere la musica come una crociata.

L’intervista a Mondo Marcio

Come ti stai vivendo questo ventennale?
Me la sto godendo! Nonostante siano passati vent’anni per me è veramente come quando ho iniziato. Non è cambiato lo spirito, non è cambiata la fame. Adesso mi sento più solido, perché ho imparato a mie spese tante cose che non sapevo quando ho iniziato. Non vedo questo momento come un traguardo o come un giro di boa, lo vedo semplicemente come il corso naturale del tempo che passa.

In cosa risiede secondo te l’attualità di quell’album?
Sicuramente nei temi, che sono attuali non tanto per la vita che vivo io perché non ho più 16 anni, ma per i ragazzi di oggi, e lo spirito che avevo quando ho scritto quel disco, che è molto vicino a quello che ho ora. Per me la musica è sempre stata terapeutica, è un processo molto curativo.

Hai detto che la Milano degli anni di Mondo Marcio non era quella a cui pensiamo oggi, ma la città del fumo.
Prima c’era una grande dispersione. I Marci di cui parlavo nelle mie canzoni erano ragazzi un po’ come quelli de I figli del grano. Tutti eravamo alla ricerca di un punto fermo, io ero arrabbiato perché non mi sentivo incluso, perché i miei genitori erano divorziati ed era comunissimo avere una famiglia sfasciata, quindi eravamo tutti un po’ a zonzo fisicamente e psicologicamente. Non c’erano delle sicurezze dei punti fermi a cui legarci, eravamo delle foglie nel vento. Già non chiedi di essere nato, in più sei in un contesto in cui non hai niente a cui aggrapparti. Ora c’à una ricerca diversa da parte dei ragazzi.

Di cosa?
Del riscatto, soprattutto da parte delle seconde generazioni visto che a quella precedente è stata negata una vera opportunità di integrarsi nel nostro Paese. La burocrazia italiana è stupida, a volte sembra costruita quasi per portarti ad infrangere le regole, e i figli di queste persone sono comprensibilmente incazzati neri. Le persone non possono essere trattate come bestie.

La sensazione di smarrimento ora è passata alla generazione di mezzo?
Anche, per questo credo che l’esperienza di Mondo Marcio sia comune a più età.

L’anno scorso nella nostra cover story Artie 5ive ci aveva detto che tu sei stato uno degli artisti che lo hanno avvicinato al rap.
Ho visto, con Artie poi ci siamo beccati in studio e mi piace molto, è in gamba. E ti svelo un segreto: spesso i rapper della nuova generazione ti dicono in dm che sei il numero uno, che li hai ispirati, ma poi quando fanno le interviste dicono “no ma io non ascolto rap italiano”. Quindi chapeau ad Artie che è stato sincero e mi ha fatto molto piacere.

Le cose ora sono molto diverse da quando hai esordito tu, in quegli anni uscivano pochissimi dischi, ora si stima che in un solo venerdì del 2024 esce più musica di quella che è uscita in tutto il 1989.
E lo scotto che paghiamo di questa cosa è la qualità. La società capitalistica ci ha portato a un sistema di produzione industriale in cui al valore intrinseco si preferiscono la quantità, la rapidità e la comodità. Se prima si scrivevano le canzoni per farle rimanere nel tempo adesso lo si fa per fare gli stream. Questo però è un cane che si morde la coda, perché uno dice “gli artisti dovrebbero ritornare a fare musica in un certo modo” e gli artisti a loro volta dicono “no, è il pubblico che dovrebbe ritornare ad ascoltare un certo tipo di musica”. La responsabilità però non è di nessuno. Stiamo andando in quella direzione, vogliamo le cose facili e le vogliamo subito, non sappiamo più aspettare.

Tu come ti poni verso questa cosa?
Io dal canto mio ho sempre preservato le mie scelte personali e una mia direzione, alle volte anche a costo di portare a casa meno degli altri. Però questa cosa a lungo termine mi ha tutelato, il mio pubblico sa che da me trova sempre un certo tipo di emozione e di messaggio. Cerco di essere un artista che ti tiene per mano e che può essere una presenza costante nella tua vita se tu lo vuoi.

Qual è il pezzo di Mondo Marcio a cui sei più legato?
Sicuramente Non so volare, ma sono legato in generale a tutto l’album proprio per come è stato concepito sia a livello musicale che autorale. Mondo Marcio è un disco che ho scritto abbastanza velocemente per quelli che poi sono diventati i miei tempi nella carriera ed è stata una delle due volte nella mia vita che ho scritto 14 canzoni e nell’album sono finite 14 canzoni. Questo perché c’era una grande necessità di far uscire determinati concetti, quindi avevo le idee molto chiare.

Ultimamente sono usciti dei singoli che sono il preludio di un nuovo progetto. Cos’hai in serbo per i prossimi mesi?
Da circa un anno ho cambiato un po’ modo di produrre. Ho allargato molto le collaborazioni e mi piace molto unire il mio stile a quello della nuova scuola, vedi i featuring con Vale Pain o Tokyo che è una super emergenza molto cazzuta e molto solida. Mi piace sempre unire mondi che sono uniti da messaggi universali. La Milano che vive Vale non è così diversa dalla Milano che ho vissuto io, le emozioni delle quali parlo del pezzo con Tokyo sono emozioni che vivono un po’ tutti. Diciamo che ora mi sto divertendo un casino a fare musica.

Prima non era così?
Per anni per me fare musica è stata un po’ una crociata. Io sono uno che non è mai cambiato, a differenza di altri artisti non mi sono mai messo addosso la giacca della trap quando andava perché non è la mia cosa. Quando tutti vanno in una sola direzione e tu ne percorri un’altra senti un po’ di camminare del buio da solo. Certo, è una cosa nobile, ma dopo un po’ diventa tosta. Ora semplicemente vado in studio e faccio la musica che piace e mi diverto.

C’è qualcosa che ti ha fatto cambiare attitudine?
Sicuramente ho fatto pace con molte cose che mi stavano strette, tanto per incominciare il fatto di fare musica in Italia. Io sono cresciuto con la musica black e tutto ciò che ne deriva e in Italia c’è sempre stato un grande problema di traduzione, mentre ora sono rasserenato dal fatto che questa cosa sta un po’ rientrando. E poi senza dubbio mi sento più risolto come persona, ho capito chi sono, e questa consapevolezza arriva passando attraverso tante prove del fuoco. Cadi, ti fai male, però quando ti aggiusti ti ricostruisci un po’ come vasi cinesi con il kintsugi.

Però forse c’è ancora un problema di comprensione. Carlo Conti qualche giorno fa ha detto che i rapper a Sanremo porteranno brani più pop perché “stanno crescendo”. Il rap dalla maggior parte delle persone è ancora visto come un genere per ragazzini.
Anche io l’ho trovata un’affermazione non particolarmente solida. Più che di comprensione lo definirei un problema culturale. Un Paese viene definito dalla sua storia, e la storia dell’hip hop ovviamente non è in Italia. Però è un genere talmente immediato e – nonostante la cascata di soldi che generi – talmente ancora di riscatto che riesce ad avere un superpotere. Onestamente io non me la sento di fare come fanno tanti colleghi che dicono che la gente dovrebbe documentarsi sulla storia dell’hip hop. Le persone hanno altri cazzi nella vita. Non puoi prendertela col metalmeccanico che vede i rapper in tv e dice “questi sono dei cretini” perché lui lavora dodici ore al giorno e ha altri problemi. Piuttosto è compito mio fare musica più accessibile e fare in modo di non dover spiegare quello che faccio.

Mi dici qualcosa dei due live che farai a Milano?
Saranno due esibizioni specifiche per il disco Mondo Marcio. Sono state pensate proprio per fare un regalo a me e ai miei fan, quindi sarà proprio una celebrazione, una festa.

Ci saranno ospiti?
Sì. Ma non ti posso dire chi.

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