I Murder Capital: «Tutto ciò che possiamo fare è accettare l’idea di poter sbagliare»
Poco prima che salissero sul palco per aprire il live milanese di Nick Cave, abbiamo incontrato James McGovern e Gabriel Paschal Blake, frontman e bassista della band irlandese, per farci raccontare la genesi del loro terzo album “Blindness” in uscita il 21 febbraio
Sono partiti dalle loro paure, sono guariti e ora hanno abbracciato la cecità. Un’evoluzione inarrestabile che dall’Irlanda ha condotto i Murder Capital ovunque. Quando entro nella sala riunioni di uno dei tanti hotel adiacenti all’Unipol Forum di Assago, trovo James McGovern, con un nuovo taglio di capelli leopardato, e Gabriel Paschal Blake, senza barba, seduti uno di fronte all’altro. Il bassista ha tra le mani un foglio di carta con un appunto. Sbircio. C’è uno smile disegnato a penna con sotto scritto “I Love You”. Non è il titolo del loro terzo album, ma lo sarebbe potuto essere senza stonare. Il nuovo disco, anticipato dal secondo singolo Words Lost Meaning, invece si intitola Blindness e uscirà il 21 febbraio. Registrato a Los Angeles negli studi di John Congleton, è la risposta della band agli ultimi anni in cui per loro tutto è andato per il meglio.
Chi segue la nuova ondata rock d’oltremanica, i Murder Capital li conosce dal 2019. Da quel cupo primo album When I Have Fears acclamato dalla critica e passato in sordina solo perché nello stesso anno usciva anche Dogrel dei loro amici e conterranei Fontaines D.C.. Poi la pandemia e la metabolizzazione del lutto con Gigi’s Recovery, uno degli album migliori del 2023, che ha dimostrato che erano nati per restare.
Blindness è un disco diretto, più melodico, comunque rumoroso, in cui James, Gabriel, Damian, Cathal e Diarmuid, come suggerito dal loro producer, sono un intraducibile «Needle dropping into the feeling». Un ago che penetra nella sensazione e quella sensazione è riassumibile nella cecità. Durante l’intervista giriamo intorno al concetto. Non c’entrano José Saramago e l’indifferenza, perlomeno non in modo diretto. La cecità non è solo una gabbia mentale o la nostra visione distorta, ma è anche una forma di libertà che ci toglie il peso delle aspettative e ci dona il sollievo di riconoscere gli errori e non avere per forza una risposta a ogni cosa.
Ora si fa sul serio
L’estate scorsa i Pearl Jam e ora il tour con Nick Cave, tutti si stanno accorgendo di loro, compresi gli stessi componenti del gruppo che ora si sentono una band “vera”. «L’altro giorno parlando con Nick nel backstage, mi ha rivelato che una delle canzoni che preferisce del nostro nuovo album è Swallow. Quel brano è nato dalla linea di basso che ho scritto in camera poco dopo essermi trasferito a Dublino. Questa cosa mi fa capire quanta strada abbiamo fatto» rivela Gabriel quando gli chiedo del tour.
Il primo collegamento tra i Murder e Nick Cave che viene in mente è la sezione Capital Letters del sito della band, ispirato ai Red Hand Files, dove James risponde alle lettere dei fan. «Ne ho scritta una due giorni fa. Vado un po’ a rilento. Ho bisogno di entrare più in sintonia con la situazione, non mi considero ancora uno scrittore» spiega il frontman.
Il secondo punto in comune con l’artista australiano è l’identità della loro musica: il senso di perdita, la rinascita e la ricerca continua del senso delle cose. La cecità condivisa che li lega, al di là della differenza dei suoni, è ciò che ispira James e soci. Blindness, pur muovendosi verso l’esterno, è più personale rispetto ai primi due dischi. Per l’immediatezza, ricercata con forza e raggiunta senza sotterfugi, per le questioni mai affrontate in precedenza, come il rapporto con l’irlandesità e il patriottismo, e per quell’intimo desiderio di luce che passa inevitabilmente attraverso l’oscurità di certi pensieri.
L’intervista ai Murder Capital
Come sta andando il tour con Nick Cave?
Gabriel Paschal Blake: Indescrivibile. Il punto è che prima di quest’estate, quando siamo andati in tour con i Pearl Jam, non avevamo mai partecipato a spettacoli di queste dimensioni. Il nostro punto di riferimento erano i nostri concerti. Vedere l’organizzazione di uno show così grande ti fa quasi sentire insignificante.
James McGovern: Per me è molto emozionante perché Nick è uno dei miei eroi. Osservarlo esibirsi da vicino o anche solo vederlo mentre fa il soundcheck vuol dire molto per me. Prima di partire per questo tour mi sentivo un po’ perso e questo che sto vivendo ha ridato un senso alla mia vita. Anche se il primo impatto è stato brusco perché il pubblico è diverso. Ai concerti dei Murder Capital la gente si muove e poga, qua no. Quindi abbiamo dovuto cambiare la scaletta e renderla più malleabile e adatta al contesto.
Tra le canzoni che state suonando ce ne sono alcune dal vostro prossimo album Blindness. Come mai questo titolo?
J: Ci è voluto del tempo per trovarlo. Per la prima volta abbiamo registrato il disco senza averlo ancora scelto. Analizzando gli argomenti delle nuove canzoni ho scoperto che c’erano tante cose: fede, negazione mentale, irishness, patriottismo deviato, oltre che le mie relazioni personali. Il significato di tutte queste cose è indecifrabile, è come se ci fosse una “cecità” che copre ogni senso. Viviamo in un’epoca in cui tutti credono di conoscere la verità e di sapere più di quanto non sappiano. Io penso che invece che ognuno di noi è cieco di fronte a qualcosa. La nostra vita è piena di punti ciechi e tutto ciò che possiamo fare è rimanere aperti all’idea di poter sbagliare.
Uno degli inediti che eseguite dal vivo s’intitola proprio Words Lost Meaning (Le parole hanno perso significato).
J: È una delle canzoni più personali. Nel mio caso racconta del periodo in cui sono stato lontano dalla mia fidanzata a causa del tour. In quei mesi vivi su due timeline differenti e spesso capitava che, per messaggio, le parole “Ti amo” le scrivevamo per chiudere la conversazione e salutarci. Hanno un significato importante ed è triste quando si finisce per utilizzarle per dire: “Ok, ora vado”. La cosa incredibile è che la genesi del testo è molto simile a quella della musica…
G: Sì, la canzone è nata dalla linea di basso che ho scritto un giorno a Dublino. Io e la mia ragazza eravamo sul punto di litigare e per evitare di farlo ci siamo chiusi in due stanze differenti. Probabilmente James e gli altri della band da quel giorno sperano che io litighi più spesso con lei (ride n.d.r.).
In un’intervista, James, hai descritto questo terzo album come una lotta. Perché?
J: Gli ultimi due anni della mia vita sono stati pazzeschi in tutti i sensi. Sia esternamente che internamente. Scrivere i nuovi brani è stato difficile perché tutto andava bene. La sensazione stessa di non avere nulla contro cui lottare o da dover superare è stata una lotta.
Nei nuovi brani siete riusciti a equilibrare l’aspetto melodico, molto più nitido rispetto al passato, con il suono più cupo e rumoroso.
G: In un certo senso è quello che avevamo cercato di fare in Gigi’s Recovery, come risposta all’oscurità e alle distorsioni del primo disco When I Have Fears. Blindness volevamo che suonasse più immediato. Non volevamo nasconderci dietro ai pedali, ma tutto doveva reggersi da solo, sia le melodie che le mie linee di basso. Per descrivere questa immediatezza John (Congleton n.d.r.) ha coniato l’espressione Needle dropping into the feeling (Infilarsi nelle sensazioni come un ago). Non c’è alcuna costruzione o cambio, come nell’opening track Moonshot.
J: Abbiamo sfruttato meno lo studio, i brani sono più vicini alla nostra dimensione live. Per esempio, c’è una canzone che s’intitola Love of Country: l’abbiamo registrata per intero dal vivo.
Love of Country è una delle mie canzoni preferite del nuovo album. C’è un verso che mi ha colpito: «Could you blame a soul for living/Could you blame me for mistaking your love of country for hating a man? ». Mi ha fatto pensare ai Dublin Riots dello scorso dicembre.
J: Sì, in un certo senso deriva da quel contesto. La verità è che queste problematiche sociali non riguardano solo l’Irlanda, ma molti altri Paesi. Però, da irlandese, trovo molto difficile comprendere l’odio nei confronti degli immigrati, dal momento che siamo sparsi letteralmente dappertutto. Era qualcosa di cui volevo scrivere da anni.
Neppure da bambino lo capivo. Al parco giochi c’era chi ce l’aveva con i britannici e probabilmente, per sentirmi incluso, anche io ho espresso quei sentimenti. Poi a venti anni, quando i miei amici mi hanno reintrodotto alla musica tradizionale irlandese e all’amore per la lingua mi sono ritrovato di nuovo in difficoltà, anche nell’essere semplicemente patriottico. Persino il tricolore è stato spesso sporcato di xenofobia da quelle persone che pensano di avere un senso di proprietà totale sulla terra sulla quale sono casualmente nate. È necessario trovare un equilibrio tra senso d’orgoglio e cura per il proprio paese, non deve esserci spazio per l’odio.
Qualche mese fa in un’intervista, Conor Deegan dei Fontaines D.C., mi parlava del suo rapporto di amore e odio con l’Irlanda e del fatto che riesce ad amarla di più quando è distante. Vale anche per voi?
G: Non esattamente, nel mio caso l’amore è costante, in Irlanda ci vivo e non devo allontanarmi per sentirlo. Per me è come il rapporto che uno ha con la propria famiglia. Magari non si pone come vorresti rispetto a certe questioni, ma non puoi fare a meno di amarla, perché, appunto, è la tua famiglia. Ti cito un episodio accaduto un mese fa a Dublino.
C’è un negozio di vestiti usati, Tola Vintage, a cui sono molto legato perché il proprietario, un ragazzo originario della Nigeria, è stata una delle prime persone che mi ha accolto quando mi sono trasferito in città. In provincia tutti mi parlavano di Dublino come un posto pericoloso e quel negozio per me ha rappresentato un posto dove sentirmi al sicuro. Negli anni ha subìto degli episodi di razzismo, scritte e messaggi xenofobi, fino a che lo scorso settembre, durante i block party che hanno coinvolto tutti i locali della Capitale, le guardie ne hanno forzato la chiusura durante la festa senza un reale motivo. In seguito, sono arrivate le scuse da parte della Garda e l’impegno per l’anno prossimo a garantire una maggiore sicurezza.
È paradossale come io mi sia sempre sentito al sicuro in quel negozio, mentre lo stesso proprietario non lo era. Avrebbe potuto benissimo comportarsi da stronzo con me come certa gente della città fa con lui. Ecco, sembra sempre che le cose siano cambiate e invece poi ci si rende conto che il razzismo c’è ancora. Non concepisco come un irlandese, considerata la nostra storia, possa odiare gli immigrati.
J: È la “cecità” del titolo di cui parlavo prima. La gente che odia gli immigrati è cieca, perché io non credo che una persona sia intrinsecamente razzista, sono le circostanze e l’ambiente sociale a renderla tale.
Uno dei legami che avete con Nick Cave è il senso di perdita. Il vostro primo album, When I Have Fears, parlava del dolore e del lutto. Avete paura della morte ed è ancora una delle vostre principali ispirazioni?
J: Non temo la morte. Sono più vicino all’idea di non essere troppo coinvolto nella vita. Nelle nostre canzoni trattiamo temi esistenziali e ci poniamo delle domande, come la ricerca di un significato nelle cose che ci accadono tutti i giorni. Da qualcuno di caro che non c’è più al sandwich pessimo che hai mangiato e che speri non sia stato l’ultimo pasto della tua esistenza. Per fortuna, non siamo sempre necessariamente ispirati dalla morte in modo diretto, anche se immagino che col tempo, quando inizieremo a invecchiare, questa cosa cambierà.
G: Io sono a stretto contatto con la morte fin da quando ero piccolo. Mio padre è un becchino e io ho lavorato con lui, accompagnandolo ai funerali, fino a qualche anno fa. Durante i primi tempi con la band, nei weekend mi ritrovavo a suonare davanti a gente felice, mentre in settimana avevo di fronte delle persone che stavano vivendo il momento più triste della loro vita. Da un certo punto di vista ho avuto il privilegio di osservare la natura umana e di imparare a posizionarmi nel modo giusto. Sì, è vero il primo disco era molto legato alla morte, ma non siamo solo quello. È stata una cosa spontanea allo stesso modo di come è stato spontaneo il processo di guarigione in Gigi’s Recovery.
J: Nick, poco tempo fa, in un’intervista ha detto una cosa bellissima: “Solo quando si vive una vera tragedia e si sperimenta il dolore si diventa pienamente formati come persona”. Fino a quel momento non si è ancora completi. Per noi penso valga la stessa cosa.
Credete che sareste stati in grado di scrivere Blindness senza i processi creativi dei due dischi precedenti?
J: No (seguono secondi di silenzio e poi una risata collettiva n.d.r.). È un po’ come la questione dell’uovo e della gallina, non saprei. Oggi sicuramente siamo più spigliati e selvaggi in studio.
G: Anche grazie a John Congleton. La prima volta che abbiamo lavorato con lui per Gigi, venivamo da due anni di scrittura ed eravamo convinti di dover fare il disco della vita. A lavoro concluso ci fa: “Ok ragazzi, contate su di me quando avrete il vostro “vero” album”. E noi lì siamo rimasti spiazzati. Ci ha sempre spronati a fare meglio e così l’abbiamo contattato anche per questo nuovo progetto. Siamo persino andati a Los Angeles.
J: E abbiamo buttato altri soldi (ride n.d.r.). Registrando il terzo album ci siamo resi conto di avere talmente tanto materiale che ci siamo detti: “Forse ora siamo realmente una band”.