Interviste

Love Will Save Us Apart: intervista a Nayt

L’amore che è salvezza prima individuale e poi collettiva, il potenziale culturale di essere un rapper oggi, come si sta a 30 anni dopo aver fatto finalmente pace con le ferite del passato: “Lettera Q” è molto più di un album, è un invito a uscire fuori da noi stessi

Autore Greta Valicenti
  • Il30 Novembre 2024
Love Will Save Us Apart: intervista a Nayt

Nayt, foto di Alessandro Treves

Quante cose può fare l’amore? Per i Radiohead quello vero, in una canzone immortale che inizia come una dichiarazione e termina come una preghiera supplichevole, sa aspettare. L’amore di Amy Winehouse è un po’ come quello dei Joy Division: un gioco in cui saremo sempre destinati a perdere e che ci farà a pezzi, ancora e ancora. Per Nayt l’amore è l’unica cosa che può davvero salvare in primis noi stessi per poi salvarci collettivamente, perché – come dice in Poter scegliere – “Il tuo dolore non ha un solo proprietario, è pure mio”, e quella lama invisibile che – insieme alla cultura – riesce a rompere le catene in cui la società in cui viviamo ci imbriglia e oltrepassare così i confini della nostra mente, quella stessa che per Marracash – di cui Nayt sembra davvero l’erede designato per liricismo, analisi e autoanalisi – era la sede della prigione da cui è più difficile evadere.

E proprio su come attraverso la cultura e la potenza della parola – ciò che davvero ci rende umani – quel cerchio in cui siamo rinchiusi possa essere spezzato Nayt si interroga in Lettera Q, il suo nuovo album uscito lo scorso venerdì. Un disco zeppo di domande come HABITAT ma forse con più risposte. Se il suo lavoro precedente era “una ricerca e un invito a ricercarsi” più orientato verso l’io, qui c’è una spinta propulsiva in più: quella di riscoprirsi in relazione con l’altro e con ciò che ci circonda, che William indaga con gli occhi e la profondità di chi non vuole farsi sfuggire nessun particolare. Il tutto legato da un unico filo, la consapevolezza.

Nayt, infatti, continua a mettere e mettersi in discussione, ma lo fa con una presa di coscienza diversa. Quella che arriva quando capisci come l’amore e l’accettazione possono cambiare le nostre prospettive, quella del potenziale culturale dell’essere un rapper in Italia oggi e quella che arriva quando, compiuti i 30 anni, fai finalmente pace con la solitudine e le ferite del passato. Senza però smettere mai di sciogliere i nodi.

L’intervista a Nayt per “Lettera Q”

Una volta Fabri Fibra ha detto che la semplificazione dei testi dei rapper è una reazione al calo di attenzione del pubblico. Tu vai in direzione completamente opposta e mi sembra che i giovani sentano un forte bisogno di ascoltare qualcuno che davvero dica loro qualcosa.
Fibra è una figura che mi ha insegnato molto precocemente che cosa significa la parola controcultura. Se c’è una cosa che sento è che le persone sono un po’ insoddisfatte di quello che gli viene offerto, non solo nell’arte. E penso che sia anche compito di un artista proporre delle alternative a quella che è la cultura dominante, soprattutto se quest’ultima sostiene un impoverimento. Io trovo che oggi ci sia una richiesta collettiva di essere rappresentati più che intrattenuti. Ora c’è tanto intrattenimento che crea un mercato che funziona su un breve raggio, ma dall’altra parte c’è una mancanza di confronto collettivo. E quando arriva qualcuno che parla per una grande maggioranza, e lo fa con criterio, allora viene accolto.

In questo disco esplori anche il modo in cui la cultura si interseca con la società, e restringendo il concetto all’hip hop mi viene in mente un’intervista in cui Kendrick Lamar diceva che il rap non è un gioco, ma un qualcosa che impatta veramente sulla vita delle persone che solo in questa musica trovano una rappresentanza e per questo non può essere trattato come un qualcosa da cui trarre solo guadagno.
È esattamente questo. Secondo me oggi essere un rapper in Italia ha un potenziale sociale e culturale importantissimo, quasi illimitato. Io sento di poter essere un ponte tra le generazioni, le culture e le varie classi sociali ed economiche. Tutti potenzialmente ascoltano rap, e magari più si va avanti con l’età meno è compreso. Ma io cerco di lavorare anche da un punto di vista autoriale per cercare di unire le generazioni. Per me questo non è assolutamente un gioco, e te ne accorgi quando poi vedi che certe cose risuonano.

Hai parlato del potenziale sociale che ha oggi essere un rapper. Quando l’anno scorso c’è stato il femminicidio di Giulia Cecchettin tu sei stato il primo nonché uno dei pochissimi a parlarne invitando a una riflessione, mentre in generale la scena si è esposta andando sulla difensiva solo nel momento in cui si è sentita attaccata per i testi.
Nel momento in cui nessuno si espone per un caso come quello di Giulia la risposta che io mi do è che evidentemente a quelle persone quel fatto risuona poco, e non mi metto a sindacare perché. Quando il rap viene attaccato c’è questo senso di far fronte insieme perché magari c’è la tendenza di dire “noi non rompiamo il cazzo a nessuno, raccontiamo soltanto le nostre cose”. E io posso anche capirlo da un certo punto di vista.

Poi penso anche che gli artisti non si debbano per forza impegnare. Uno potrebbe semplicemente dire “io faccio la mia roba, lasciatemi fuori da questa cosa”. È un discorso legittimo. Se poi mi chiedi se la trovo una cosa interessante o costruttiva ti dico che per me non lo è. Nel momento in cui mi rendo conto che questa musica ha un impatto, come adulto non riesco a non voler prendermi la responsabilità del peso che può avere quello che dico o il modo in cui mi espongo.

Forse è una domanda banale da fare a un rapper, ma che rapporto hai con la scrittura? In Certe bugie dici “Dico cose già sentite e neanche così bene”, in (partenza) “Ho l’ansia che quello che scrivo non sia niente di nuovo”.
Ho un rapporto realista. Ho la sensazione che non ci sia nulla che non sia stato già detto nei secoli in tutti i modi possibili. Quando dico quella cosa lo faccio per sottolineare questo impoverimento lessicale che viviamo oggi. Ad esempio, quando vedo delle interviste di Pasolini, mi rendo conto di non avere quella capacità dialettica. E probabilmente non averla non mi permette di fare dei pensieri più complessi. Il mio è un modo indiretto per dire che tante cose interessanti sono già state dette, ma forse ci sono sfuggite.

A te cos’è sfuggito?
Fino a qualche anno fa io rifiutavo una musica che non fosse quella attuale. Non riuscivo a sentirmi un certo tipo di cantautorato o della musica un po’ più dannata. Poi crescendo, sviluppando una sensibilità e facendomi una cultura ho ricarpito certe cose che mi erano sfuggite e ho pensato “ma non è che più che di parlare abbiamo bisogno di ascoltare dove non abbiamo aperto le orecchie?”.

Una domanda che si aggiunge a tutte quelle che ti ponevi in HABITAT e che ti fai anche in Lettera Q. L’anno scorso mi avevi detto che la più importante era “Dov’è il mio posto?”. Ora la domanda più iconica della tua generazione è “Che cos’è una relazione?”. Com’è cambiata la prospettiva?
Quando tu apri il libretto di HABITAT la prima frase che leggi è “Cercavo un posto ed ero io”, che racchiudeva un po’ il concept di tutto il disco. Una volta che ho preso questa consapevolezza sono riuscito a rapportarmi col mondo esterno in un modo più onesto e più costruttivo. In questo disco cerco di fare un altro passo avanti, di uscire dal cerchio e mettermi in relazione con l’altro.

Che sembra una cosa scontata ma forse oggi è quella più difficile. Come si può renderla più semplice?
Mi stai implicitamente chiedendo qual è la salvezza del mondo?

Lo è?
Lo è imparare ad amarsi, che sembra una banalità ma l’amore è un processo, e in questa società, in questa generazione, è la cosa più difficile da imparare.

L’importanza della relazione con l’altro e il concetto di salvarsi da soli, un tema che ricorre molto spesso nel disco, non sono due poli opposti?
Secondo me no. Il contatto con l’altro è fondamentale, ma nel momento in cui riesce ad emergere l’amor proprio è quella la cosa che ci permette di salvarci. Solo se salviamo in primis noi stessi poi possiamo farlo collettivamente e quella è la cosa migliore. Quando io spingo sul concetto di salvarsi da soli lo faccio dicendo che intendo farmi da parte.

Cioè?
Molti ragazzi mi dicono “con la tua musica mi hai salvato la vita”, ma io non sono un salvatore. Ovviamente mi sento onorato quando me lo dicono, ma cerco sempre un po’ di sottrarmi a questa cosa, e non per falsa modestia, ma perché quello che mi interessa è proprio smontare l’idolo.

Possiamo dire che l’amore è il filo conduttore di tutto l’album?
Sempre. E cerco di parlarne in tutte le sfumature possibili e in modo non banale perché la banalità rischia di intrappolarci negli ideali e non ci permette il contatto col piano di realtà.

E infatti nel finale di Di abbattere le mura (18 donne) c’è una poesia di Mariangela Gualtieri che dice “il tuo destino è l’amore”. Mi interessa come in quel pezzo parli di te stesso per sottrazione ma allo stesso tempo raccontando altre storie.
Per me il mondo femminile è qualcosa di incredibilmente curioso e che nonostante tutti gli sforzi che io sento di poter fare non potrò mai capire davvero. Il fatto di non essere qualcosa crea un legame e ti insegna delle cose continuamente, quindi ho citato delle donne che mi hanno dato delle lezioni preziosissime sull’amore in tutti i suoi lati. Mi rende molto orgoglioso il fatto che questo pezzo venga preso dalle donne come una rappresentazione e allo stesso tempo che ci siano stati ragazzi che mi hanno scritto che ascoltandolo si sono emozionati, perché vuol dire che li ha messi in contatto con qualcosa. Un contatto sano con il femminile.

Un’altra donna a cui hai lasciato spazio in questo album è Scozia.
Monalisa è una canzone di cui sono onorato. Lei me la fece arrivare tramite un amico in comune semplicemente per farmela ascoltare perché l’aveva scritta ispirandosi a me dopo aver sentito un mio album e io ne rimasi molto colpito e le dissi “per favore tienilo da parte”. Quando poi sono arrivato a buon punto con l’album ho deciso di prendere quel pezzo, produrlo e metterlo nel disco senza aggiungere nulla di mio perché per me era perfetto così. E sono contento che la gente lo abbia apprezzato così tanto.

Quando ti chiesi quale fosse il sentimento predominante di HABITAT mi avevi risposto l’inquietudine. Se ti chiedessi qual è quello di Lettera Q?
Ti direi la fede.

Intesa come?
Come fiducia nel fatto che le cose andranno come devono andare. C’è una sorta di pace e di serenità in questo momento. Oggi sono molto in pace con quello che verrà.

Mi hai anticipata perché ti avrei chiesto con cosa hai fatto pace ora che hai compiuto 30 anni, dato che hai detto di non esserti mai sentito meglio.
Con tantissime cose. Le ferite dell’infanzia e di conseguenza il mio rapporto con le dipendenze, le carenze e soprattutto con la solitudine. Io l’ho sempre sofferta tantissimo, sono sempre fuggito molto nonostante poi mi sia trovato tante volte interiormente da solo anche se magari esternamente non lo ero.

Anche Niky Savage mi ha detto di averla sofferta molto.
Niky è tutto il contrario di quello che appare. Io ho scorto subito questa cosa da qualche frase che aveva messo nei suoi pezzi, anche sul suo rapporto con il padre di cui non parla mai in modo super plateale, ma magari mette una rima qui, un’altra lì e così parla dell’uomo che è e dei sentimenti che prova, ma sempre tutelandosi. Secondo me lui nasconde molto altro.

Vi siete sentiti dopo che ha detto che sei uno dei suoi artisti preferiti?
Sì, ci siamo scritti e io gli ho detto di andare dritto. Chi sa ascoltare veramente si rende conto che ha qualcosa da dire, deve solo dimostrarglielo.

La sensazione di essere in qualche modo risolto l’ho ritrovata molto anche nella strofa che hai fatto nel disco di Lorenzza. Che tra l’altro mi ha ricordato quella di J. Cole in To Summer, From Cole di Summer Walker.
Questa cosa è bellissima perché io non conoscevo il pezzo, ma per assurdo l’ho approcciato esattamente in quel modo perché mi riportava alla mente l’immaginario e le vibe di J. Cole. Quando mi sono andato a risentire quel brano sono rimasto veramente incredulo.

In quella strofa parli più a lei o a te stesso?
A lei. E anche questa è stata una bella coincidenza perché io non sapevo che l’EP si chiamasse A Lorenzza e inconsapevolmente le avevo scritto una lettera. Quando mi è stato proposto questo pezzo io ho deciso di accettare perché trovavo lei molto interessante e trovavo interessante quello che avrei potuto dirle quasi come un fratello maggiore. Ho cercato di darle quello che avrei voluto ricevere io alla sua età.

C’è qualcosa che non ti ho chiesto e che avresti voluto che ti chiedessi?
No. Io aspetto sempre che gli altri mi facciano delle domande e capisco cosa c’è da dire quando gli altri chiedono.

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