Neffa è ancora un “Canerandagio”: «Se avessi fatto prima un disco rap sarebbe stata una gioia finta»
Il suo ultimo progetto riconducibile all’hip hop è stato “Chicopisco” nel 1999, e da allora Giovanni Pellino non ha mai smesso di trasformarsi, cercando ogni volta “Il mondo nuovo”, sempre con un solo mantra: metterci una profonda verità

Neffa, foto di Alan Gelati
Nell’estate del 2006 avevo 10 anni e il televisore sintonizzato costantemente su MTV dove in heavy rotation passava il video de Il mondo nuovo di Neffa. Credo che quello sia stato uno dei primi momenti in cui ho capito che ciò che mi inquieta è in realtà ciò che mi attrae di più. Non capivo perché quelle persone girassero per le strade con uno specchio da cui fuoriusciva solo il volto, eppure non riuscivo a smettere di guardarlo. Non sapevo ancora cosa significasse l’arrivo di una persona che si siede dove vuole e butta già la tua malinconia di vivere (a dire il vero non avevo nemmeno idea di cosa fosse la malinconia di vivere), eppure non riuscivo a smettere di ascoltarla. Per anni poi, quel “è meglio una delusione vera di una gioia finta” mi è ronzato in testa, a volte come sentenza, spesso come domanda.
E forse quella frase deve aver assillato anche Neffa tutte le volte che – nonostante in tutti questi anni non abbia mai smesso di trasformarsi, cercando ogni volta il suo “mondo nuovo” artistico – la domanda era solo una: ma quando torni a rappare? Inevitabile a fronte di un passato tanto leggendario quanto ingombrante, ma Giovanni Pellino di gioie finte non ha mai voluto saperne e darne (anche a costo di scontentare i più), e un disco rap lo ha fatto solo quando è stato lui ad essere scelto e non viceversa.
Canerandagio – Parte 1, il suo nuovo album (rap) uscito ieri, è un disco che Neffa ha fatto con l’unico spirito che conosce: quello libero di un cane sciolto. Non ha infatti controllato nulla – perché, come mi racconta, «faccio un album solo se le canzoni mi nascono in poco tempo e quindi non contengono una grande quantità di pensiero» -, se non «il grado di profonda verità che ci ho messo», quello stesso che ha reso Canerandagio – Parte 1 una gioia vera, soprattutto per lui.
In questa lunga intervista Neffa ci ha parlato di tutto: com’è portarsi addosso il peso di un paragone con dei dischi che hanno fatto scuola, come si smette di dover difendere ogni tua scelta agli occhi degli altri, il sodalizio con Fabri Fibra, il fatto che «oggi chiunque si proponga nel mezzo social è come se esponesse il proprio ritratto di Dorian Gray a tutti che possono dirgli tutto» e molto altro ancora.
L’intervista a Neffa
La democrazia dei social è sopravvalutata?
Questa cosa è interessante… La democrazia dei social dà sicuramente delle opportunità, un po’ come quando la tecnologia è entrata nei mezzi di produzione: una volta se volevi registrare un album dovevi avere un sacco di soldi perché lo studio costava caro, oggi alla fine con un telefono in un’ora hai fatto un album. Però noto che il dato B della piattaforma rischia di essere la forma piatta.
Questa è bella.
Se un artista emergente dice “io non voglio percorrere strade già percorse, farò qualcosa fuori dai canoni”, sui social si espone al giudizio di chi è abituato a dei canoni in modo molto massificato e tendenzialmente verrà criticato. E chi viene criticato per una scelta coraggiosa, se viene colpito nel profondo, la volta dopo tenderà a non fare una scelta coraggiosa, e questa cosa alla lunga porterà a una forma piatta, perché nessuno vorrà uscire dai canoni di quello che viene ritenuto mediamente e massmediologicamente corretto.
Hai detto che oggi un giovane artista che vuole fare della musica impegnata viene fatto a pezzi: dal pubblico o dall’industria?
Spesso siamo portati a guardare l’acqua del fiume e non il letto. Nella musica il letto del fiume è la società: l’industria fa quello che la società compra, non si inventa niente. Non ti dice mai cosa devi comprare, ti dice “cosa stai comprando?” e appena lo sa te lo dà. Tutto quello che accade attorno a noi succede perché la società accetta una cosa, e questo vale dai testi delle canzoni alla forma delle pubblicità, a cosa ti viene venduto, a quanto veleno ti viene propinato. Ci siamo posti per anni il problema delle radiazioni, adesso però vogliamo il wifi in fretta. Siamo parecchio tecnologizzati, però è un concetto che certo ci viene venduto, ma noi decidiamo di farcelo vendere.
E tu questa cosa come te la vivi?
Come un Canerandagio! Esiste un ordine prestabilito che vuole portarci a fare le stesse cose e in parte già l’ha fatto, perché se oggi si rompe Internet in Italia abbiamo un Paese che non è in grado di muoversi. Ormai la diversità è in pericolo, esiste un fascio di luce che in qualche modo ci porta a camminare in quella direzione e quindi è molto difficile stabilire un grado di indipendenza rispetto a questo, però una macchina non contiene l’umanità e l’umanità non contiene una macchina. Di conseguenza finché non saremo ancora androidi che hanno parti robotiche, abbiamo la possibilità di scegliere la nostra direzione.
Nell’81 in Ghost In The Machine i Police sono stati profetici: Sting diceva “troppe informazioni che mi girano per la testa, troppe informazioni che mi anno impazzire”. Noi oggi siamo questa cosa, però possiamo decidere il nostro grado di inquinamento tecnologico. Abbiamo sicuramente bisogno di essere nella rete del mondo perché la società oggi è lì, ma possiamo anche coltivare l’individuo.
Con questo album lo hai fatto?
Sì, perché è un disco che ho fatto in modo libero. La mia regola è “non faccio un disco a meno che” e questi a meno che hanno tutti a che fare con la mia individualità. Io faccio un album solo se le canzoni mi nascono in poco tempo e quindi non contengono una grande quantità di pensiero, perché il pensiero per me rovina la percezione delle cose. Pensa al bacio più bello della tua vita: lo è stato perché non ci hai pensato, ma hai sentito delle cose. Magari ci hai pensato dopo, ma in quel momento se pensi sei scemo!
E qual è stato l’a meno che principale dietro a Canerandagio?
A meno che non risulti credibile tanto quanto quello che c’è già stato, ma che allo stesso tempo non risulti una forma di revival che faccia pensare “Neffa vuole andare a grattare dove sa che prendeva”. Anzi, volevo che si capisse che per me quella di fare un disco rap era una scelta scomoda, non l’avrei mai fatta se non fosse stata lei a trovarmi, così come è successo quando ho fatto un disco tutto in napoletano o uno elettronico. Il fatto è che trattandosi di rap ho messo veramente molti sigilli qualità. Mi sono detto “okay, questa musica mi sta venendo senza che io la cerchi: benissimo, io la seguirò, però controllerò costantemente il grado di naturalezza di tutto” e quindi mi sono preoccupato di non pensare. Ogni strofa è stata scritta in pochi minuti, ogni base è stata fatta in poche ore.
Si smette mai di sentire il peso di un paragone con un passato che è stato così importante non solo per te, ma per la storia di un intero genere?
Io lo sento perché viene tramandato di generazione in generazione. Tempo fa un ragazzino di 18 anni mi ha detto “Torna a fare rap”. Lui quando io rappavo nemmeno c’era, ma qualcuno glielo avrà detto. Però posso dirti una cosa?
Vai.
È un peso che io sono disposto a portarmi. Io so il grado di verità che metto nel mio modo di vivere la creatività e anche in quello che decido di pubblicare. Faccio sempre musica, e a volte è talmente importante che mi fa dire “okay, questa cosa voglio farla sentire” e mi fa confrontare con il pubblico. Io sono uno che non avrebbe mai voluto deludere nessuno, ma a volte in questi anni persone deluse mi hanno detto “perché non fai più rap?”.
E adesso quindi è ancora più difficile.
Sì, perché il paragone col vecchio sarà inevitabile. D’altra parte però è come un pungolo: se tu continui a dirmi che quello che faccio non è abbastanza, la mia reazione è “ah davvero? Beh vuol dire che la prossima volta che decido di fartelo sentire sarà migliore”.
Senti di dover difendere le tue scelte agli occhi degli altri?
Da qualche anno a questa parte non mi pongo questo problema, perché la musica che ho fatto non sarebbe esistita se non mi avesse profondamente definito. Non posso trovarmi a difendere un sogno a occhi aperti che ho fatto. Quello è il mio sogno, forse non ti piacerà, però di certo non l’ho fatto pensando che potesse piacerti o no. Io non posso controllare quello che viene da fuori, ma solo il grado di profonda verità che ci metto. È un po’ il discorso “è meglio una delusione vera di una gioia finta”. Forse io ti deludo perché non ti do quello che tu ti aspettavi, però almeno è una delusione vera.
E se invece sai cosa il pubblico si aspetta e tu glielo dai anche se quella cosa non la senti…
Quella è una gioia finta perché starei deludendo soprattutto me stesso.
Ora fare un disco rap è una gioia vera quindi.
Fare un disco di rap non era assolutamente nelle mie previsioni, non l’avrei immaginato, anche se da quando ho fatto AmarAmmore ho lavorato solamente a basi, pensa che in questi ultimi cinque anni credo di aver scritto una sola canzone che ha uno svolgimento strofa-cambio musica. Ho scritto prevalentemente sui loop, ho fatto anche tanta musica trap perché mi piace moltissimo.
Ah!
Mi piace come musica, mi piace meno la narrativa. Anzi, ne approfitto per dire che su una musica così potente come la trap si dovrebbero mettere testi più rivoluzionari e meno materiali. Mi piacerebbe che si guardassero i veri nemici che sono lì che se la godono.
Chi sono?
Quelli che tendono i fili che arrivano fino al cellulare di ognuno e possono controllare direttamente quello che ti emoziona o non ti emoziona. È il sogno bagnato. Più che mai oggi c’è bisogno che nella musica si coltivi un pensiero di rivoluzionario.
Hai seguito l’evoluzione della scena in questi anni?
Cerco di non sentire nulla perché ho paura di essere troppo condizionato. Oggi molto spesso si fa la musica perché deve suonare come qualcos’altro che c’è già, mentre invece, che so, nella letteratura ti dicono “se vuoi scrivere un libro pensa a un libro che non è ancora stato scritto e scrivilo”. Allo stesso modo si può dire anche con una canzone, mentre invece oggi la società dice all’industria “dammi qualcosa di cui ho già sentito il sapore perché non c’è tempo di star lì a pensare troppo”. Ecco, io non voglio essere condizionato da questo, quindi guardo solamente alla musica madre.
La cosa che mi dà più fastidio quando mi parlano di un artista è quando mi dicono “è il nuovo” e poi aggiungono il nome di un altro. Perché dovrei ascoltare qualcuno che fa qualcosa che assomiglia a quella di un altro?!
Questo è il punto. Un paio di anni fa succedeva anche a me: ogni volta che facevo un pezzo qualcuno se ne usciva dicendo che assomigliava a qualcos’altro. Era successo ance con Il mondo nuovo, che so per certo essere la canzone che nella mia vita più non somiglia a niente, e qualcuno riuscì a scrivere che sembrava un pezzo dei Sud Sound System. Magari faccio sentire un beat a un rapper e mi dice gli ricorda Madlib, ma io non mi ascolto i suoi dischi perché ho paura di farmi influenzare troppo. Certo, la matrice è quella, veniamo tutti dalle stesse cose, sono intorno a me…
Ma non parlano con te?
Brava, non parlano con me! Mi piace mantenere un approccio un po’ campagnolo rispetto a tutto. Un po’ Neffa naïf.
Senti, ma invece come ti è venuta l’idea di recuperare il beat di Scattano le indagini e come hai tirato in mezzo Fibra?
Quella è stata un’intuizione della mia discografica che mi ha detto “sarebbe bello che tu prendessi un pezzo di Turbe Giovanili e lo rifacessi con Fabri” perché chiaramente quando si parlava di fare il disco io e lui avevamo già fatto Foglie morte, quindi si sapeva che avremmo fatto qualcos’altro insieme, era nell’aria. Io ero possibilista rispetto alla cosa, però essendo un po’ maniaco del fare qualcosa di nuovo ho sempre paura di riciclare le cose. Un giorno eravamo a pranzo io e Fabri quando ricevo la chiamata di Sara (Potente, ndr) che in vivavoce dice questa cosa. A quel punto, non so per quale energia, sia a me che a lui è sembrata proprio un’idea giusta. Se avessi visto lui non del tutto sicuro della cosa non lo avrei fatto. Simbolicamente poi è una cosa potentissima.
La chiusura di un cerchio.
Iniziato nel 2000, quando – come era previsto -, stavo preparando un album rap e avevo tutte le basi fatte, ma i testi non mi venivano. Capisco che la mia scelta di libertà e di verità è un’altra e che quella di fare un disco rap sarebbe stata di business, e io non ne faccio mai. Quindi prendo queste basi e le do a Fabri.
Posso dire il regalo più grande della storia del rap italiano?
Dici?
Assolutamente, ce l’ho anche tatuato quel disco.
Quindi ti sei presa male con Hype? Ti abbiamo fatto male?
Zero. Anche il ritornello di Myss Keta mi è piaciuto.
Secondo me poi la strofa di Fabri che è messa per prima ti dice come si svolge. È un momento importante, no? Io ricomincio a fare il rap e ripartiamo da quelle stesse basi che io ti ho dato. E poi Fabri è sempre stato il tipo di rapper che mi piaceva, quindi per me dare le basi a lui era anche una bella occasione di sentirci rappare su cose di un certo tipo, anche tecnicamente. Il rap di Turbe Giovanili è molto difficile da fare.
A proposito di questo: hai detto che cantare è difficile e rappare è facile. Forse è una domanda banale, ma è più facile scrivere una canzone pop o una canzone rap? A me il rap è sempre sembrato più complicato per la metrica, gli incastri, le figure retoriche che richiede…
Invece è una domanda molto interessante. Per quanto riguarda il testo per me è più difficile scrivere un brano pop perché devi raccontare una cosa con meno parole. La cosa difficile del rap è che hai bisogno costantemente dell’assonanza, delle rime, devi pensare moltissimo. La forma canzone per me è più sfidante perché non ho mai acquisito davvero il dono della sintesi!
Prima parlavamo di giovani artisti: che ruolo ha avuto Ele A nel tuo riavvicinamento al rap?
Un ruolo molto importante. Un giorno ho pensato che mi sarebbe piaciuto proporre questo beat a lei e mi sono detto “se una ragazza così giovane e così brava troverà il mio beat un po’ vecchio, il mio rap un po’ obsoleto e fuori luogo, per me sarà un segnale”. Sai cosa mi ha detto?
Cosa?
“Mi hai messo in mano una pietra bollente”. Quando mi ha detto così allora ho capito che avevo fatto bene.
Credi che i ragazzi siano più vicini anche a un rap di un certo periodo?
Ieri ho fatto il preascolto di Canerandagio e ce n’erano tantissimi. I giovani hanno meno inquinamento in testa. Io mi guardo allo specchio e la mia faccia non corrisponde a quello che dentro fa la musica. Non voglio fare il rimastone, ma non metto freni al mio lato bambino che vuole sognare. Trovo che gli adulti ne vogliano mettere di più dei ragazzi: i ragazzi vogliono sentire, e io di questo sono contento.