Noyz Narcos, Il mostro in prima pagina
Venerdì è uscito "Funny Games", il nuovo album del rapper romano: ce lo ha raccontato nella nostra digital cover story
“Tutto lo schifo che ci avete abituato ad ingoiare, vi verrà sputato in faccia senza pietà. Il mio mostro sta tornando in strada ed è tutt’altro che una fiction”. È con queste parole che Noyz Narcos aveva anticipato l’uscita di Funny Games, il suo nuovo album pubblicato venerdì. Non solo un annuncio, ma un avvertimento, un monito per ricordare che tutto è ciclico, anche la spazzatura di cui ogni giorno la società ci ingozza e che verrà rispedita al mittente senza chiedere permesso. Del resto a Noyz, di bussare alle porte di qualcuno per entrare con garbo non è mai interessato. La sua musica è sempre stata così: tagliente e chirurgica come una lama inaspettata, dritta come un pugno sferrato all’improvviso che fa sputare sangue. Comprensibile solo da chi parla la sua stessa lingua, quella che non vuole cambiare per compiacere e che per questo finisce per fidelizzare.
E così Funny Games diventa non solo un espediente narrativo disturbante e un incubo ad occhi aperti in cui la violenza diventa riflesso della realtà in cui chi guarda da vittima diventa carnefice. Ma il pretesto per rimettere al centro di una scena che a volte sembra aver perso la bussola ciò che l’ha sempre caratterizzato e su cui non ha mai ceduto. La coerenza estrema e radicale, il riconoscimento della strada, la voglia di dimostrare senza inseguire mode o sperimentazioni forzate. Attorno a lui una generazione che finalmente gli somiglia – Kid Yugi, Papa V, Nerissima Serpe -, un colosso del rap d’oltreoceano come Conway The Machine, sorprese come Madame e Shiva e gli amici e i colleghi di una vita come Achille Lauro, Gast, Guè e Jake La Furia.
Ma soprattutto Sine, che lo ha accompagnato in tutta la realizzazione del disco. Vent’anni dopo Non Dormire, Funny Games non rappresenta un cerchio che si chiude, ma un percorso che continua, che si rinnova senza mai tradire se stesso e che fa capire che nonostante tutto, il gioco, per Noyz, non è mai finito.

L’intervista a Noyz Narcos per “Funny Games”
Come mai hai scelto di ispirarti proprio a Funny Games?
Diciamo che Funny Games non è né nella mia top ten dei film horror, né uno di quei film talmente culto che ti fanno dire “voglio citarlo”. Però mi piaceva molto la storia e il fatto di mischiare la parola “Funny” con un’immagine così violenta – come quella della copertina – per stemperarla. Il titolo è arrivato proprio come ultima cosa, perché finché non ho il quadro di tutto non riesco poi a dare un nome e un’immagine. E poi Funny Games è anche il mio gioco divertente del rap.
Che poi il tema centrale del film si collega molto bene quello che hai scritto per presentare il disco, ossia lo spettatore che esponendosi volontariamente alla violenza diventa quasi carnefice.
La cosa interessante secondo me è che in quel film la vittima è casuale e racconta di una cosa che può succedere a chiunque, quindi mette lo spettatore nella condizione di pensare che può essere lui lo stronzo che finisce nella merda: mi piaceva riprendere questo meccanismo.
Secondo te nella tua fascinazione per questo tipo di immaginario quanto influisce ancora una città da un lato oscura come Roma?
Parecchio. La città e il caos per me sono sempre stati un’ispirazione. Mi ricordo che da ragazzino per arrivare a scuola prendevo due autobus, una metro e mi facevo un pezzo a piedi. Quindi un’ora e mezza immerso completamente nella città e nelle sue parti sotterranee in cui ne vedevi di ogni. I tombini, i treni, i palazzi grigi sono sempre stati una componente fondamentale del mio rap. Ultimamente però ci sono tanti rapper di provincia o di campagna che hanno trovato la loro formula per raccontare qualcosa di interessante.

Nel disco ne hai scelti tre: Kid Yugi, Papa V e Nerissima Serpe. Mi sembra che questa sia la generazione più affine alla vostra in assoluto.
Concordo. Mi sono stupito quando Papa V mi ha detto che loro da pischelli non sentivano rap americano, ma solo italiano. Sicuramente c’è stato un grosso salto generazionale: prima di loro ci sono state delle generazioni che con noi non ci azzeccavano proprio niente. Sarà anche a un certo punto sono tornati di moda gli anni ’90 – che sono quelli che ci hanno forgiato di più, che hanno creato tutto il nostro immaginario – e che loro essendo cresciuti a pane, Noyz Narcos e Club Dogo, in qualche modo hanno incarnato quella cosa, quel tipo di rap che ha una sua formula ben precisa, un linguaggio definito, uno slang per cui le cose possono essere anche ripetute più volte in maniera diversa, ma rimangono sempre fighe.
A proposito di questo, qualche giorno fa è uscito l’EP di Papa V e Night Skinny e molti hanno criticato una mancata evoluzione. Ma perché pretendiamo che un artista cambi quando è forte in quello che fa?
Guarda, sfondi una porta aperta. Piuttosto che forzarti a sperimentare e rischiare di fare cose fuori dal tuo mondo, finendo per scimmiottare qualcun altro, io penso che sia meglio lavorare sul tuo modo di vedere le cose. Spesso si vuole cambiare per non ripetersi o per portare qualcosa di nuovo, ma magari dentro di te non c’è realmente quella cosa, quindi sei costretto a rubacchiare da qualche parte. Secondo me, chi riesce a fare la propria roba senza rompere i coglioni raggiunge il traguardo più grande. Significa che il tuo mondo, il tuo slang, le tue idee sono così forti e varie che puoi triturarle e ritriturarle in modi diversi, eppure rimangono sempre fresche da sentire. Questo per me è molto più difficile che proporre qualcosa di diverso in ogni disco.
Nel disco dici “scrivo per gli stronzi che capiscono il linguaggio mio”. In un momento storico in cui il rap è così tanto sdoganato da entrare anche in ambienti formati da persone che non solo non lo capiscono, ma lo snaturano, quanto è importante per te mantenere la tua nicchia?
È fondamentale, anche se non escludo che uno che ancora non mi capisce possa arrivare a farlo. Io scrivo per chi è dalla mia parte, per chi la pensa come me, per quelli che soffrono come me, che hanno lo stesso tipo di visioni. A me non frega niente di propinare le mie robe alle persone per fargliele piacere per forza. Se quando ascolti la mia roba senti qualcosa dentro, ti rispecchi e ti appassiona, la mia missione è compiuta. A me non interessa andare su un canale mainstream e mettermi nella condizione di dovermi rapportare con uno che la pensa diversamente da me e che può dire questo è un coglione: se tu vai a cercarti la mia roba sapendo che non ti piaccio, il coglione sei tu.
Da quando sei diventato padre ti preoccupi di più del mondo che stiamo lasciando in eredità alle nuove generazioni?
Da morire. Se prima ero preoccupato per il mondo che avremmo vissuto un giorno noi, ora – con una bambina di nemmeno 3 anni – se penso a quello che l’essere umano è in grado di fare lo sono molto di più.
In che momento della tua vita personale e professionale arriva questo album? Senti ancora la necessità di dimostrare?
Sì, perché è una componente che ha sempre fatto parte della mia vita. Io sono nato come graffitaro, e nel mondo dei graffiti l’affermazione personale è fondamentale: c’è sempre da dimostrare, non bisogna mai sentirsi arrivati e mettersi nella posizione in cui sei intoccabile. Io non ho mai detto di essere il king, sono sempre stato una persona con i piedi per erra: se uno con meno neuroni di me si fosse sentito dire ottavo re di Roma, probabilmente si sarebbe sentito onnipotente.
Per me invece la prima cosa resta sempre la reputazione in strada: io non ho mai fatto rap pensando di diventare famoso, l’ho fatto per esigenza personale, anche se mi rendo conto che, nel mio inconscio, avevo un desiderio di affermazione, un po’ come un pittore che fa un quadro. Ecco, io voglio fare un bel quadro perché piace a me, poi se viene apprezzato sono ancora più contento.
Prima parlavi di quanto sia importante per te il riconoscimento in strada. La scelta di essere in un disco super underground come quello di Click Head mi sembra emblematica.
Quando sono arrivato a Milano e ho conosciuto il Click gli ho detto “te sei il più romano che ho incontrato qui, sei come me”. Ed è così: abbiamo le stesse reference, più o meno gli stessi anni, ogni cosa che piace a me piace a lui, siamo cresciuti proprio con le stesse fisse. Se oggi mi devo ascoltare un disco di rap italiano preferisco sentirmi quello del Click piuttosto che l’80% dei dischi di gente che magari è tecnicamente più forte ma che non mi gasa allo stesso modo. In quel disco ci sono voluto essere non solo per una questione di amicizia. Ma perché ogni cosa che dice fa parte del mio background e mi dà l’idea di casa.
In Funny Games invece c’è Conway The Machine: dopo Raekwon e Cam’Ron in Virus, un’altra collaborazione leggendaria.
Il feat con Conway non è una mossa commerciale. Se metto un artista americano nel mio disco lo faccio perché mi piace e lo sento affine. Conway fa parte di un movimento che è arrivato in un momento strano per il rap e saturo di trap e che è riuscito a portare in super hype un tipo di suono e un tipo di immaginario con una formula ancora old school. Questa cosa accade quando sei talmente skillato in un genere – che magari non è quello che va di moda – ma riesci comunque a imporre il tuo stile. Il goal di Griselda poi è stato portare questa cosa non solo in America, ma anche in Europa. Poi loro vengono da Buffalo, un contesto da cui è sicuramente più difficile entrare in certi circuiti.
Con Achille Lauro invece avevi collaborato l’ultima volta nel 2018: vedi ancora in lui uno spirito hip hop?
No, ma a dire la verità non lo vedevo nemmeno prima. Nonostante questo lo sento molto vicino a me: siamo della stessa zona, siamo cresciuti in un contesto che entrambi conosciamo molto bene. Ho molta stima di lui e del lavoro incredibile che ha fatto, dove è arrivato. In Pazza Idea non poteva esserci nessuno se non lui. La roba che io detesto e che ho detestato per anni è la tendenza a inserire un ritornello pop in un pezzo rap per andare in radio. Un sacco di rapper forti sono stati costretti a fare questa cosa. Ecco, non è il caso di questo pezzo con Lauro.
E invece Madame?
Lei è un’artista che sento molto affine a me. Scrive molto bene, ha un bell’immaginario e ha trovato il suo modo di esprimere le sue emozioni e per me è bellissimo. La proposta di coinvolgerla è arrivata da me, e il mio team l’ha vista come strana. Invece poi hanno capito anche loro che per assurdo in qualche modo potevamo funzionare insieme, pur essendo due mondi completamente diversi. Pure lei come me è un po’ un’outsider, e a livello umano ci siamo trovati. Prima di decidere il pezzo ci siamo fatti una bella chiacchierata, non abbiamo lasciato niente al caso.
Questo disco arriva a vent’anni da Non Dormire: è una sorta di chiusura di un cerchio?
Sine: diciamo che non è stata una decisione presa a tavolino, è successo e basta. Abbiamo ricominciato a fare musica dopo che veniamo da CVLT, e l’idea era cominciare a buttare giù un po’ di cose. Man mano che lo facevamo ci siamo detti “vabbè, forse non ci serve nessun altro”. Chiaramente questo ha portato anche a fare un po’ un bilancio della nostra storia. Sarà che un po’ coincideva questa cifra tonda – vent’anni alla fine sono vent’anni, è praticamente l’età dei ragazzi che cominciano a rappare adesso -, un po’ che la nostalgia di un certo sound molto nostro si faceva sentire. Alla fine abbiamo capito che davvero poteva essere una cosa fatta in famiglia.
Noyz: quello di cui mi sono reso conto io è che pur avendo lavorato con tantissimi produttori, quando faccio i pezzi con lui è proprio un’altra roba. Insieme abbiamo creato una sorta di suono che si rifà molto alle origini ma che in questo disco viene rinfrescato. La scommessa è stata non accontentarsi di fare quello che sappiamo che funziona alla grande. Eravamo fermi nell’idea di non voler fare un’operazione nostalgia, ma volevamo aprirci a sonorità nuove, a nuovi stili che magari prima non avevamo provato.
Il pezzo con Gast sembra quasi una presa diretta di una jam session blues.
Pensa. che ha pure preso delle lezioni di chitarra per poter suonare su quel pezzo. Una parte della composizione dell’album è stata fatta a Ibiza: in una decina di giorni abbiamo fatto quattro o cinque pezzi, tra cui quello. Volevamo un po’ sdrammatizzare visto che il disco è molto cupo, dare quasi una boccata d’aria. La gente magari pensa che qua la sera facciamo le messe nere, mentre lo spirito che si era creato in quella villa era vino buono, musica blues fino a tardi, cazzate.
Qual è il traguardo più importante che senti di aver raggiunto a questo punto della tua carriera?
Non penso ancora di averlo raggiunto. Io sono una persona eternamente insoddisfatta, e Sine te lo può confermare perché anche il giorno che abbiamo chiuso la traccia più bella dell’album e mi ha detto “Oh, ma che bomba è il pezzo che abbiamo fatto oggi?”, io non ero così entusiasta. A me piace la roba mia, me la risento pure – e insomma, per farlo vuol dire che ti deve gasare -. Ma non mi è mai capitato di dirmi “questo è il traguardo che volevo raggiungere, ora sono contento e posso morire felice”. Forse potrei esserlo se un giorno avrò – che ne so – Nas sul mio disco.
Quindi Nas è il sogno?
No, perché poi vorrei avere 50 Cent.