Interviste

“I Nomi del Diavolo” di Kid Yugi è la non banalità del male. L’intervista

Se con “The Globe” aveva attirato l’attenzione della scena e del pubblico che lo ha eletto a nuovo prodigio assoluto del rap italiano, con il suo secondo album il rapper di Massafra gioca nel campionato dei grandi e conferma che sì, una penna come la sua si vede davvero una volta ogni vent’anni

Autore Greta Valicenti
  • Il1 Marzo 2024
“I Nomi del Diavolo” di Kid Yugi è la non banalità del male. L’intervista

La cover de "I Nomi del Diavolo", il nuovo album di Kid Yugi

“Lucifero” è forse una delle parole più ambigue e ambivalenti della lingua italiana. Secondo l’etimologia latina, infatti, il suo significato è “portatore di luce”, un concetto nettamente in contrasto con ciò che poi diventerà. Ossia il male per antonomasia. Il nome che venne dato all’angelo più bello che osò ribellarsi a Dio per precipitare dal Paradiso e diventare il peggiore dei demoni. Nel 2024, possiamo dire senza troppe riserve che Kid Yugi è il vero Lucifero del rap italiano. Lo è perché ha riacceso le speranze sul fatto che scrivere bene – ma davvero bene, anche parlando delle cose più turpi – è ancora possibile; lo è perché, con riferimenti coltissimi che si cementano nell’asfalto, dimostra che la cultura di strada può avere anche un’altra accezione pur mantenendo salda la sua credibilità.

Lo è perché al giorno d’oggi, mentre molti tendono a scarnificare i testi in nome della fast music e del consumo bulimico di dischi poveri di parole e contenuto che con molta probabilità dimenticheremo qualche giorno dopo, la complessità è il suo atto sovversivo verso l’ordine costituito per restare.

La differenza tra Lucifero e Kid Yugi, però, è che dalla sua ribellione il rapper di Massafra esce vincitore all’unanimità. Se con The Globe, il suo progetto d’esordio uscito nel 2022, aveva attirato l’attenzione della scena e del pubblico che lo ha eletto a nuovo prodigio assoluto del rap italiano, con il suo secondo album fuori oggi, I Nomi del Diavolo, Kid Yugi dopo un anno di allenamento gioca nel campionato dei grandi e conferma che sì, una penna come la sua si vede davvero una volta ogni vent’anni.

I Nomi del Diavolo, infatti, è la non banalità del male di Kid Yugi. Quello stesso male che si annida delle piaghe scoperte della società e in quelle più nascoste dell’essere umano e che Francesco racconta in modo non scontato per un ragazzo della sua età, tra la mancanza di prospettive che scompaiono dietro ai fumi tossici dell’Ilva (un tema per cui Kid Yugi si è sempre battuto, anche a livello pubblico, come ci aveva raccontato nella nostra cover story), la disillusione che arriva quando i sogni si scontrano con la realtà, la paura di non sentirsi mai all’altezza delle aspettative e quella di non lasciare una traccia di sé.

L’intervista a Kid Yugi

La stesura del disco è stata travagliata come quella del Maestro e Margherita?
Grazie a Dio quel parallelo è mancato! Scriverlo è stato facilissimo per me, il mio team mi ha sempre supportato e ho avuto in mano completamente la direzione artistica del progetto. C’è ancora questo falso mito per cui l’industria ti prende e ti cambia, manipolandoti per diventare commerciale, invece nessuno ha messo bocca su questo disco se non nel ruolo di consiglieri perché comunque credo che il confronto sia sempre importante, altrimenti si rischia di diventare troppo autoreferenziali. 

Ascoltando già solo l’intro de I Nomi del Diavolo chi pensava che ti fossi rammollito ha dovuto cambiare idea…
Ho letto solo cose positive infatti. Poi non perdo troppo tempo a leggere i commenti della gente, se no rischio di imparanoiarmi o gasarmi troppo, cerco di pensare solo alla musica. Certi pensavano che facessi un disco da venduto, ma penso anche io che dopo l’intro dovranno ricredersi. Non è proprio una roba commerciale. 

Anche perché per il disco hai preso come reference il romanzo più difficile della letteratura del Novecento.
Mi piace perché è un romanzo stravagante che non si pone limiti e che ha una grandissima potenza creativa e narrativa. Il mio intento era creare un’opera che avesse un po’ gli stessi obiettivi – ovviamente non paragonabile – ma che nel suo piccolo fosse in qualche modo sovversiva. Il flash vero però mi è arrivato leggendo Il signore delle mosche di Golding. Sono rimasto sorpreso da quanti nomi avesse il diavolo e soprattutto quante sfaccettature avesse nelle diverse culture e quanto il male cambi a seconda degli assiomi e dei dogmi etici che ci sono in una società. 

Il tuo essere sovversivo sta nella complessità? Qualche giorno fa Fibra ha detto che il linguaggio del rap si sta semplificando perché l’attenzione degli ascoltatori mano a mano cala, e dunque questa è la ribellione degli artisti. Tu vai nella direzione diametralmente opposta, eppure arrivi ad un pubblico vastissimo. 
Sì, penso sia così. Ma secondo me le cose fanno anche il giro. Quando il rap stava iniziando ad essere più pesante e meno di strada siamo arrivati alla semplificazione totale dei testi, che ora a sua volta ha rifatto un altro giro. Credo che bisogna tornare ad essere più solidi nel contenuto. 

Kid Yugi: «La mancanza di prospettive è il male peggiore»

E invece secondo te quali sono i modi peggiori in cui il male si può manifestare?
Credo che stiamo vivendo un periodo davvero difficile tra guerre, catastrofi ambientali, crisi climatica, incertezze per il futuro, che è come se non si vedesse proprio, e soprattutto la mancanza di prospettive. Anche per questo motivo ho deciso di fare il remix di quella traccia iconica (Ilva, Fume Scure RMX, ndr) con Fido Guido, un artista leggendario di Taranto, perché lui ha sempre cantato i mali della nostra Terra in dialetto. Quel ritornello secondo me è la cosa più bella che sia mai stata scritta sul tema dell’Ilva, solo una frase ma ripetuta in loop, che per me nella sua semplicità trova la sua forza espressiva: “Si vede da lontano un fumo scuro, così scuro che non brilla più la luce”. Lui ha scritto quella cosa dieci anni fa ma è come se fosse ancora attualissima e io ci vedo tutto il male della nostra società.

Per questo è un disco ancora più cupo di The Globe? Ne I Nomi del Diavolo sembra quasi che tu non veda mai la luce in fondo al tunnel.
Sì. E poi anche perché l’ho scritto in un anno e mezzo in cui la mia vita è cambiata drasticamente. Molti sogni che avevo si sono scontrati con la realtà e credo che nel disco si percepisca questa disillusione.

Me ne dici uno?
Pensavo che che l’agio economico portasse alla felicità e che il successo, anche se io non penso di aver avuto successo, potesse farti vivere in tranquillità. Invece non è stato così. Forse proprio in questo anno e mezzo ho passato i giorni più tristi della mia vita e mi sono trovato tante volte a fare i conti con me stesso. Ora sono totalmente disilluso da questo punto di vista.

Il rapporto con la fama

Che rapporto hai oggi con la fama? È una cosa che ti pesa?
Io di mio sono una persona abbastanza timida. Non non mi piace stare sotto i riflettori o al centro dell’attenzione, quindi non lo so è un po’ un amore e odio. Ovviamente ci sono dei benefit a fare questa vita, però mi piacerebbe di più vivere nell’ombra.

È il motivo per cui non ti sei ancora trasferito a Milano?
Sì, faccio su e giù da Massafra. Il lavoro è a Milano, quindi per esigenze materiali devo essere qui gran parte del mio tempo, però cerco di bilanciare al massimo perché ho proprio bisogno di non circondarmi magari di tanti yes man che si possono incontrare a questo punto della carriera.

Lucifero è un pezzo incredibile in cui con un climax molto forte e di impatto elenchi tutti i motivi per cui non fai musica. Ti chiedo, allora, perché lo fai.
Per lasciare una traccia. So che è brutto da dire, ma io scrivo perché ho paura che quando morirò non rimarrà niente di me. Le persone vengono dimenticate, il mondo va avanti e l’essere umano in confronto all’universo è un battito di ciglia. Mi piacerebbe che rimanesse qualcosa di me, anche se mi rendo conto che alla fine ciò che rimane è un nulla. Infatti nel pezzo dico che del filosofo resta la forma, del poeta mezzo rigo e così via. È come se se dicessi a me stesso che per quanto mi affanno o mi impegno comunque rimarrà pochissimo.

La cosa che mi colpì la prima volta che ci siamo parlati e che mi ha colpito anche stavolta ascoltando il disco è quanta differenza può esserci in come ci guardano gli altri e come invece ci vediamo noi stessi. Tu che ti dai del fallito mentre gli altri parlano di prodigio, o che definisci quelle che scrivi delle cazzate quando invece possiedi una penna che non si vedeva da anni nel rap italiano.
Ci sono dei momenti in cui si vede tutto buio e in cui non non ti senti all’altezza di niente, soprattutto delle aspettative, e quindi volevo mostrare come anche queste cose facciano parte della vita di una persona. Volevo esprimere quei momenti di blackout totale.

All’altezza delle tue aspettative o di quelle degli altri?
Delle mie, assolutamente.

Ti senti ancora l’anti-idolo?
Sì, adesso anche più di prima.

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