Paola Zukar: «Il ricambio generazionale nell’industria musicale è fondamentale»
Il rap a Sanremo, il modo in cui la televisione e i media generalisti veicolano il genere, l’idea di continuità per il Marrageddon, qual è il patto tra manager e artista da non infrangere mai: abbiamo chiesto questo e molto altro alla donna che ha cambiato il rap italiano
Se oggi il rap italiano è quello che è (ossia – con buona pace di chi ancora non se ne è fatto una ragione – il genere più influente e ascoltato nel nostro Paese, e non solo tra i giovanissimi), il merito non è solamente degli artisti che sono diventati delle voci generazionali, ma anche di quegli addetti ai lavori che con tenacia ci hanno creduto sin dagli inizi, quando tutto questo era ancora un grande sogno.
In particolare di Paola Zukar – la donna che ha cambiato definitivamente la traiettoria del rap italiano – e di quella volta che nel 2006 consegnò nelle mani di Pascal Nègre, presidente di Universal Music France approdato in Italia, i demo di un incazzatissimo Fabri Fibra, aprendo di fatto al genere le porte del mainstream con una lungimiranza e una visione all’epoca ancora inedite per l’Italia che hanno riscritto le regole del gioco. Che no, non è solo da ragazzi.
Per questo nel nostro numero di marzo/aprile dedicato alle donne nella musica (che potete prenotare qui) non poteva mancare un focus sulle grandi manager italiane (Sunshine Pegoiani, Marta Donà) che finalmente occupano quei ruoli apicali nell’industria fino a qualche tempo fa ritenuti di appannaggio prettamente maschile.
Dal ruolo del rap a Sanremo, fino al modo in cui la televisione e i media generalisti veicolano il genere passando per l’idea di una continuità per il Marrageddon, qual è il patto tra manager e artista da non infrangere mai per una progettualità a lungo termine e l’importanza di avere figure professionali giovani all’interno dell’ecosistema discografico e non. Abbiamo chiesto questo e molto a Paola Zukar.
L’intervista a Paola Zukar
Cosa deve avere un artista per convincerti ad intraprendere una progettualità a lungo termine?Ovviamente è difficile stabilire dal giorno uno se un artista avrà o meno una certa longevità. Quello che io cerco in un artista è un’identità ben precisa. Un modo unico di dire le cose. E questa è la peculiarità di tutti gli artisti con cui collaboro. Questo è quello che poi permette di rimanere nel tempo, perché significa che se tu vuoi ascoltare una canzone alla Fabri Fibra devi per forza aspettare che esca un suo disco. E poi è importante che si crei una connessione con me, che spero sempre di trovare quell’artista che possa davvero cambiare le regole del gioco.
Da questo punto di vista dev’esserci una linea di confine tra il rapporto umano e quello professionale? E in questo scambio reciproco qual è il patto che non deve mai essere infranto?Sicuramente quello di fiducia. Se manca quella manca proprio la relazione. E non parlo solo del “mi fido del fatto che il mio manager non mi freghi i soldi”. Ma di dare giudizi sinceri, di opinioni date col cuore e con la testa. Quello tra artista e manager è un rapporto molto particolare che non è paragonabile ad altro, per cui è molto difficile dare una connotazione. Se mi chiedi “siete amici?” ti direi di no, ma non siamo neanche semplici colleghi o conoscenti. Una volta Marra ha detto che siamo dei brothers in arms, ossia delle persone che hanno una missione e la portano avanti insieme.
Nel tuo roster non compaiono artisti che provengono dai talent show: è una scelta ben precisa o nessuno ha catturato la tua attenzione?
Io non ho mai seguito tanto i talent perché fondamentalmente è musica pop, quindi mi riguarda fino a un certo punto. Madame fa pop, però è un qualcosa che si mischia comunque col rap. Il talent è quel percorso televisivo che prevede che un artista stia a delle determinate regole e debba già piacere al pubblico. Ciò non significa che da parte mia ci sia una preclusione, ma i talent all’italiana sono quasi più dei reality.
Il rap a Sanremo e l’importanza dei media di settore
A proposito di rap e televisione: da poco è finito Sanremo e anche stavolta un rapper si è piazzato sul podio senza portare però un brano definibile rap. Secondo te il Festival è pronto per accogliere davvero il genere?
Per me no ma semplicemente perché il rap nasce diversamente. Magari tra dieci anni, quando una certa parte di popolazione italiana sarà estinta, allora il Festival potrà anche trasformarsi. Ma non dimentichiamo che Sanremo nasce come tempio della canzone italiana. E il rap non lo è in quanto genere di importazione afroamericana. Quando un rapper va a Sanremo è inevitabile che lo faccia edulcorandosi: è come se tu andassi in chiesa con le infradito e la canottiera.
Ogni contenitore ha il proprio contesto ed è normale che vinca la canzone più adatta, e non ci vedo niente di male nell’adattare il proprio linguaggio a quel palco. Lo ha fatto benissimo Geolier e lo ha fatto anche Madame quando ha portato Voce. Detto questo, se una persona vuole vedere del vero rap non guarda Sanremo, va al Marrageddon.
L’esempio di Geolier
In quello che è successo a Geolier forse influisce anche il modo in cui il rap viene veicolato dai media. In Rap. Una storia italiana dicevi che molti di questi non hanno capito il genere e i suoi protagonisti. Sono passati otto anni da quando hai scritto quelle parole, trovi che ci sia stato un cambiamento o la narrazione è ancora problematica?
Credo non sia cambiato molto, solo che adesso c’è meno la tendenza ad attaccare direttamente. Il giornalismo italiano è composto prevalentemente da persone che non sono cresciute con questo linguaggio o questo suono in testa. Quindi fanno molta fatica e si mettono di traverso a prescindere. Questo rimarrà il mio grande cruccio. Poi ci sono sicuramente dei bravissimi giornalisti che conoscono bene il genere, ma purtroppo non sono diventati delle firme di testate più blasonate.
A Sanremo in effetti non sono presenti testate di settore puramente rap, che ovviamente si identificano esclusivamente nel web e quindi sono ritenute meno “titolate”.
E quello sarebbe importantissimo, perché in queste redazioni ci sono ragazzi molto bravi. Il problema è che difficilmente faranno strada, e questo diventa un problema di tutti. Per me è un peccato che a prendere le difese di Geolier siano solo le pagine Instagram o i blog, sarebbe stato importante vedere lo stesso in sala stampa. Invece c’è gente proprio lontana dalla musica di oggi. Geolier è bravo, fa musica di qualità, rappa bene, ha un bello stile, è interessante. La signora da casa che guarda Sanremo può dire di non conoscerlo, non un giornalista che sta nella sala stampa di Sanremo. E se è così allora deve esserci qualcuno che per parità invece lo conosce molto bene. Se no si crea uno scollegamento completo dalla realtà rappresentata da una buonissima parte di ascoltatori.
Paola Zukar sul ricambio generazionale nell’industria discografica
Parlando sempre di giovani. La riedizione del tuo libro si conclude con una frase quasi lapidaria: “L’Italia non è un Paese per giovani, ma non è sulle vecchie e sorpassate certezze che si costruiranno le nuove figure professionali e le nuove economie davvero per i giovani”. Come si può invertire questa traiettoria?
Con un’alternanza delle generazioni che deve essere matematica, e questa cosa non può essere messa in discussione. Io ho preso a lavorare con me due ragazzi molto giovani che hanno un rapporto con le nuove tecnologie e un nuovo linguaggio che io non ho. Io sono entrata in questo mondo con una fanzine controculturale su un genere che era ancora di nicchia. Facevo una cosa estremamente giovane per l’epoca e questa cosa mi ha permesso di mettere un piede nella porta della discografia che non ci voleva. Adesso ci sono altri pertugi attraverso cui passare. Voi nativi digitali avete una marcia in più di noi, e solo unendo due esperienze – quella delle nuove tecnologie e quella sul campo – si può costruire un team forte.
E tu da questo punto di vista vedi apertura nei tuoi colleghi nell’industria?
La vedo tanto nella discografia, che ormai cerca solo persone molto giovani. Il problema è che dovrebbe esserci anche altrove, come – appunto – nel giornalismo, dove non vedo tutta questa voglia di passare il testimone.
L’importanza della Targa Tenco a Marracash per il genere
Grazie a Marracash e a Noi, Loro, Gli Altri che ha vinto la Targa Tenco come Miglior Album dell’Anno il rap ha letteralmente sfondato le porte dei salotti buoni della musica d’autore, ed è diventato un genere che non può più essere considerato di serie b o per ragazzini. Ma cosa manca secondo te per “istituzionalizzarlo”? Premi ad hoc, grandi manifestazioni dedicate…
Istituzionalizzare è una parola che non mi piace molto perché segnerebbe un po’ la fine del rap, che è una musica giovane che rimarrà fino a quando ci sarà la generazione più giovane che l’apprezzerà. Sicuramente sono importanti questi momenti di contatto con il mainstream anche più intellettuale. Quando Marracash scrive un testo di un certo tipo e viene riconosciuto da un Recalcati o dal Premio Tenco è un momento importante. Poi non è detto che tutto debba andare in quella direzione.
Guarda Guè: lui non cerca quel tipo di convalida, anche se potrebbe averla senza problemi. Cosimo è un uomo di grande cultura, di pensiero raffinato. Idem Fibra, uno che ha letto i russi e ti sa raccontare Guerra e Pace per filo e per segno. Sono persone non solo particolarmente dotate nel rap, ma anche di grande intelletto. Anche Geolier fa cultura, seppur popolare, e forma comunque una letteratura.
ll rap come cultura
Anche perché scrivere un testo rap è molto più difficile che scrivere un testo pop…
Esattamente, perché ci vogliono molte più parole, per non parlare della metrica, della retorica… In generale il rap tende ad essere cultura perché nasce dall’esigenza di sublimare un qualcosa che parte dalla violenza in qualcosa di artistico e poetico. Poi è inutile che ci nascondiamo, c’è anche tanta musica rap brutta, fatta male e stupida. Ma quello succede perché il genere ormai è così mainstream che alle volte permea anche ambiti proprio infantili, con ragazzini che non si rendono conto che usare un certo tipo di linguaggio è un po’ triste. Il problema è che quando un genere diventa di moda viene avvicinato anche da gente che vuole semplicemente farne parte senza nemmeno sapere cosa sta facendo.
I famosi turisti del rap…
Esatto. Ma guarda, tutti siamo entrati inconsapevoli nel rap, pensando che fosse una cosa e poi era tutt’altra. Però devi stare un po’ all’occhio, informarti su quello che è davvero e non cedere alle mode. Purtroppo adesso c’è tanta estetica, superficialità e banalità e la gente si avvicina a quelle, anche se credo che questo non accada strettamente solo nel rap. Siamo un po’ nell’era della stupidera.
Come la televisione veicola il rap
E un certo tipo di televisione che ruolo gioca in questa inconsapevolezza? Citando sempre le tue parole, tu hai detto che “L’Italia non vuole il rap per com’è o per come dovrebbe essere, ossia ribelle e fastidioso, controverso e parallelo ai canoni della cultura dominante”. Eppure qui si innesca un grande paradosso, ossia che l’Italia non vuole cosi tanto il rap da esasperare queste sue caratteristiche fino a farle diventare grottesche.
Assolutamente, ma quella è propaganda, e la propaganda è ciò che dà da mangiare al pubblico. In quei contesti è tutto finto, e di sicuro non c’è alcun intento di educare alla conoscenza del rap e di altre culture. Ma questo credo sia fisiologico, l’estrema destra esiste anche nei Paesi con la migliore istruzione possibile. I discorsi che vengono portati avanti in un certo tipo di televisione sono pre-confezionati, quindi non possiamo aspettarci che su Rete 4 ci sia un vero dibattito su Baby Gang, che è un ragazzo molto intelligente che se sei interessato ad ascoltare davvero ha tante storie da raccontare. Poi si può non essere d’accordo, ma bisogna restituire un quadro realistico. Se scrivi un copione in cui il rapper deve essere scemo e ignorante quello definisce più te come trasmissione che l’artista.
Tornando invece al tuo lavoro di manager: è più difficile far fare il grande salto ad un artista agli esordi o mantenere alta l’attenzione per uno di lungo corso?
Diciamo che è difficile in entrambi i casi perché si tratta sempre di un lavoro fatto coerentemente e in prospettiva di un percorso più lungo. Io non ho mai sentito l’urgenza di dover arrivare ad un successo clamoroso, non è una cosa che interessa più di tanto né a me né agli artisti con cui lavoro. A me interessa la maratona, non i cento metri, quindi c’è un altro tipo di allenamento. Fare il salto per me significa durare nel tempo ed essere sempre appassionati e rilevanti.
Paola Zukar sul Marrageddon: «C’è l’idea di dare continuità»
Uno dei frutti di questa maratona è stato il Marrageddon, che ha segnato senza dubbio sia un nuovo anno zero, sia un precedente con cui il rap italiano da oggi dovrà inevitabilmente fare i conti per quanto riguarda la dimensione live. Qual era l’idea iniziale di un progetto di questa portata? E secondo te è immaginabile una continuità nel tempo?
L’intenzione iniziale era proprio una celebrazione non solo di Marra, ma del rap in generale con un palco e degli effetti che non avessero nulla da eccepire rispetto al pop. Quella era proprio la nostra esigenza. Sul fatto dell’annualità non lo so, sicuramente non accadrà nel 2024 altrimenti avrermmo già iniziato con le comunicazioni, ma l’idea di dare una continuità sicuramente c’è.
Quali skills sono cambiate nel mestiere di manager?
Che differenze ci sono nel tuo mestiere tra oggi e vent’anni fa?
Le differenze sono tantissime, è completamente un altro mondo rispetto a quando ho iniziato io. C’è tutta la parte social che ha ampliato e amplificato le nostre voci e i nostri messaggi. Se ci pensi quando ho iniziato non c’era nemmeno Facebook, non c’era YouTube, ho dovuto prendere la mano con tutto. Stare a contatto con i giovani è una cosa che serve tantissimo.
E quanto conta invece uno studio accademico per questo lavoro? Ad oggi ci sono tantissimi corsi universitari dedicati all’industria musicale.
Ti direi che conta al 50%, l’altro 50 lo fa l’esperienza sul campo. A me la parte accademica è mancata, per dirti, non sapevo neanche come si girasse un contratto, non sapevo le percentuali, mi sono comprata dei libri e la parte accademica l’ho acquisita da autodidatta e anche se ho sbagliato tante volte mi è andata bene che non ho fatto errori così grossolani da tagliarmi le gambe o da pensare di dover lasciar perdere. Questo lavoro è una battaglia e devi essere in grado di affrontarla, e quella cosa può dartela solo l’esperienza. Ma avere un’infarinatura teorica ti dà un minimo di sicurezza in più per addentrarti poi nel piano pratico.