Jerry Horton dei Papa Roach, dalle origini del sound Nu Metal all’incontro con Ozzy Osbourne
Il chitarrista americano si esibirà con la sua band al circolo Magnolia di Milano il 3 agosto e si racconta nella nostra intervista esclusiva

Papa Roach, Credit: Bryson, Roatch
Jerry Horton dei Papa Roach è sempre stato un “Metalhead”. Così si definiva da ragazzo, cresciuto a pane e Metallica. Non riusciva ad orientarsi bene sulla chitarra acustica, la prima che ereditò dal fratello minore all’età di 14 anni. Quando parla di quel periodo della sua vita, nella nostra intervista esclusiva, il chitarrista della band che terrà un’unica data italiana il 3 agosto, lo fa ancora con gli occhi grandi e sognanti, ricordandosi delle prime sfuriate dei genitori per il volume troppo alto. Infatti Horton si fece presto regalare un’elettrica e un ampli, o di quando, come tutti i giovani metallari, provava a inerpicarsi nel tapping, cercando di emulare i propri miti, senza ancora capito bene come tenere il plettro in mano. La storia di Horton non è quella di un giovane prodigio iscritto al conservatorio obbligato di genitori a prendere lezioni di piano o sax e che poi per ripicca finisce ad essere il più duro degli screamers o dei punkabbestia.
Non ha mai nascosto il proprio animo rock e l’incontro con Jacoby Shaddix, all’epoca giovane cantante dei Papa Roach, una delle prime band Nu-Metal della west coast, gli ha cambiato la vita. “La verità è che all’inizio i Papa Roach non avevano neanche un chitarrista. E Jacoby iniziava a cantare in questo modo che probabilmente non era neanche rap. Era una sorta di parlato abbastanza spaventoso.” Ride mentre me lo racconta perché la verità è che non fu rapito dalle prime sonorità dei Roach tanto che, quando Jacoby, accorgendosi evidentemente che senza un chitarrista non potevano andare lontano, lo implorò di entrare nel gruppo, Jerry rifiutò. “Avevano un suono strano, sembravano i primi Red Hot Chili Peppers, ma senza una chitarra.”
Alla fine, Jerry si convinse e da lì inizio un viaggio che li ha portati circa 30 anni dopo a essere una delle poche band nu metal sopravvissute all’esplosione del genere dei primi anni 2000. Il fatto di non essere state delle meteore lo devono soprattutto alla loro versatilità. Abbiamo chiesto a Jerry Horton quali siano le sue aspettative per lo show al Circolo Magnolia e soprattutto come abbiano cacciato fuori Even If It Kills Me, la hit che ho in testa da circa due settimane.
L’intervista a Jerry Horton, chitarrista dei Papa Roach
Quando hai preso per la prima volta la chitarra in mano?
Avevo 14 anni. Mio fratello minore aveva iniziato a suonare la chitarra, ma ha perso interesse molto presto. Così ho deciso di provarci io, proprio nel periodo in cui cominciavo ad appassionarmi al rock. Volevo solo imparare a suonare le mie canzoni preferite.
Hai iniziato con un’acustica o un’elettrica? Avevi già un amplificatore?
La mia prima chitarra è stata un’acustica. Per Natale, il primo regalo che ho ricevuto è stato un piccolo amplificatore. Mio padre mi fece uno scherzo. Mi disse: “Così puoi collegarci la chitarra acustica, giusto?”, e io: “No, non si può.” Allora mi disse di controllare nell’armadio e lì c’era la chitarra. È stato un bel colpo di scena natalizio.
Quali erano le tue prime influenze musicali? Ricordi i primi dischi che hai ascoltato?
Credo che il mio primo vinile sia stato uno dei Ratt oppure Girls, Girls, Girls dei Mötley Crüe. Poi mi sono appassionato a Metallica, Sepultura, Megadeth, Slayer, Testament. Ero un vero metalhead.
I tuoi guitar heroes sono cambiati nel tempo?
Sì, all’inizio adoravo i Metallica, in particolare James Hetfield e i chitarristi di tutte quelle band metal. Ma poi ho iniziato a esplorare le loro influenze, e così ho imparato ad apprezzare Jimmy Page, Jimi Hendrix e tanti altri. Da lì mi si è aperto un mondo.
Quindi sei partito dal metal e poi hai riscoperto i grandi classici del rock?
Esatto. È una cosa abbastanza comune: da giovani si cerca il rumore, poi con il tempo si imparano ad apprezzare anche le radici.
Quando sei entrato nei Papa Roach, in che modo hai portato le tue influenze nel gruppo?
La band esisteva già da uno o due mesi quando mi hanno coinvolto. Li avevo visti suonare a una festa: c’erano batteria, basso, voce e trombone. Niente chitarra. Sembravano una versione dei Red Hot Chili Peppers, ma senza chitarra. Li trovavo strani, interessanti, ma lontani da quello che ascoltavo. Poi, una o due settimane dopo, Jacoby (Shaddix, ndr) mi chiamò e mi disse: “Ho sentito che suoni la chitarra, vieni a provare con noi.” All’inizio rifiutai, ma dopo qualche tentativo accettai. Abbiamo iniziato a jammare, trovando un punto d’incontro con Led Zeppelin, Nirvana e altri classici. Da lì ho conosciuto il punk e anche roba più stramba come i Primus. Abbiamo mescolato tutto — il risultato era ancora un po’ caotico, ma avevamo qualcosa di nostro.
All’inizio, cosa pensavi dello stile vocale di Jacoby e del suo approccio rap? Ti sembrava strano?
All’inizio non era vero e proprio rap. Era più un parlato melodico e ritmato. Direi solo strano. Jacoby cercava solo di essere il più originale possibile. Poi ci siamo avvicinati seriamente all’hip-hop, in particolare a quello della East Coast come i Wu-Tang Clan, e ce ne siamo davvero innamorati.
Parlando di influenze, recentemente abbiamo perso il grande Ozzy Osbourne. Che impatto ha avuto su di te come musicista e come persona? Hai mai avuto modo di conoscerlo?
Assolutamente sì. Faceva parte della band che ha praticamente inventato l’heavy metal (Black Sabbath, ndr). L’ho incontrato durante l’Ozzfest del 2001. Ero ancora molto emozionato, con gli occhi spalancati, e non ho detto molto — solo “Piacere di conoscerti.” L’incontro con Ozzy Osbourne è stato un momento davvero speciale.
L’ultima volta che avete suonato a Milano avevi un dito rotto e hai potuto solo osservare i tuoi compagni, ma cosa ricordi dell’atmosfera intorno? Ti piace il pubblico italiano?
Il pubblico italiano è pazzesco. I locali sono spesso piccoli, caldi e sudati, ma l’energia è incredibile. Tutti cantano a squarciagola, ci sono mosh pit, crowd surfing, è uno spettacolo.
Il prossimo concerto il 3 agosto al Circolo Magnolia sarà simile: un posto piccolo, all’aperto, zanzare e tanto sudore.
Sarà una follia, (ride, ndr), non vedo l’ora.
Ripercorrendo la vostra carriera, pensi che si possa dire che siete stati tra i pionieri del nu-metal?
Credo che i Rage Against the Machine siano stati i primissimi, ma noi non eravamo molto distanti.
Quando stavate creando quel sound, vi rendevate conto di star contribuendo alla nascita di un nuovo genere?
No, non ne eravamo consapevoli. Il primo album dei Rage è uscito nel 1990. Noi abbiamo iniziato nel ’93, e loro erano già famosissimi. I Chili Peppers avevano quel groove, da noi c’erano i Deftones, vedevamo anche i Korn dal vivo. Insomma, ci muovevamo in quel contesto. I Limp Bizkit invece erano più East Coast. Noi eravamo più influenzati dall’hip-hop West Coast, ed è ciò che ci rendeva unici. All’inizio suonavamo cose strane, tipo Primus o Mr. Bungle, poi siamo passati a una struttura più tradizionale. Tra il ’98 e il ’99 abbiamo trovato il nostro suono — quello per cui la gente ci conosce. E da allora abbiamo sempre continuato a evolverci.
Nel 2021 avete rilasciato Leave a Light On, dall’album Ego Trip, un singolo che ha fatto molto discutere, cosa ha significato per voi?
La demo ci è stata portato da uno dei nostri produttori. Era molto grezza, ma ci siamo subito innamorati della melodia e della progressione di accordi. Jacoby aveva già alcuni versi scritti. Il pezzo aveva un carico emotivo fortissimo e sentivamo che c’era qualcosa di importante da dire. È diventata una sorta di risposta a Last Resort, dove lì qualcuno grida aiuto, mentre qui c’è un amico che ti tende la mano. Quando ho sentito il testo per la prima volta, era chiaro che ci fosse qualcosa di speciale. Ci spaventava un po’ perché era diverso da quello che facciamo di solito. Ma abbiamo imparato che, quando proviamo quella sensazione, spesso significa che stiamo andando nella direzione giusta. Non pensavamo sarebbe diventato un singolo, visto che siamo una rock band, ma è diventato uno dei nostri brani più grandi. Incredibile.
Non riesco a togliermi dalla testa Even If It Kills Me. Chi ha scritto quella progressione così potente?
La musica l’hanno scritta Tobin (bassista della band, ndr) e suo fratello. I testi sono di Jacoby e del produttore Drew Folk. Amo tutto di quel brano: il riff, la melodia vocale, il breakdown. Quando ho sentito quel passaggio per la prima volta ho detto “Wow”. Adoro suonarla dal vivo. Ora Il pubblico sa che sta per arrivare e il momento è magico. È stato bello registrala in studio, ma dal vivo è ancora più potente.
A che punto siete con il prossimo album? Avete già una direzione precisa?
Siamo quasi alla fine. Sarà un disco molto vario: ci sono brani più heavy e altri molto melodici. Abbiamo appena ricevuto il mix finale di una canzone emozionante ma molto dinamica — difficile da definire a parole. Abbiamo lavorato con persone diverse, quindi il suono è coerente ma lo stile è variegato. Non c’è una traccia debole. Siamo molto selettivi. Ego Trip aveva 14 canzoni, questo ne avrà 10. Ci sono altri demo, ma vogliamo solo il meglio. L’unico dispiacere è non poterle suonare tutte dal vivo. Non possiamo fare concerti di tre ore, purtroppo.
Quando hai una melodia, una strofa o una progressione di accordi, a chi la fai ascoltare per primo?
A mia moglie e ai miei figli. Poi a mio fratello. Siamo molto uniti. Ci confrontiamo tra di noi. Anche all’interno della band c’è molta stima reciproca. Dopo tanti anni insieme, sappiamo riconoscere quando uno di noi crede davvero in qualcosa. Non siamo gelosi delle nostre idee. Se qualcuno ha un’idea migliore, o pensa che qualcosa non funzioni, lo ascoltiamo. Abbiamo imparato a dircelo con delicatezza, tipo: “E se provassimo così?” invece di “Fa schifo.” Un tempo eravamo più diretti e ci scontravamo. Ora tutto è in funzione della canzone. Se c’è una critica, è perché si vuole migliorare. Ed è questo il nostro vero metodo di lavoro.