Fuori “Pastiglia v7” degli Iside, tra Frank Ocean e Venerus: «Ma eliminiamo la parola “indie”»
Il singolo è il primo brano del collettivo bergamasco ad essere pubblicato da una major, Sony Music. La nostra intervista con il cantante e songwriter Dario Pasqualini
Sono in quattro (un cantante/songwriter e tre producer), amano definirsi “collettivo” e trascorrono giornate intere in studio alla ricerca del sound perfetto. I loro riferimenti più forti vanno a pescare fra i nomi più “sofisticati” della scena internazionale (e si sente): Frank Ocean, Tyler the Creator, Blood Orange, certe cose di Kanye West. Un’identità musicale che accomuna i bergamaschi Iside alla piccola ma effervescente scena musicale nostrana che va da Venerus a Memento: quel pop raffinato dalle tinte soul/R&B, caratterizzato da un’estrema cura del suono (che spesso fonde digitale e analogico) e da una visione alternativa della mascolinità. Pastiglia v7 è il loro nuovo singolo, il primo pubblicato da una major, Sony Music. Abbiamo colto l’occasione per conoscere meglio questo notevole progetto musicale scambiando qualche battuta con il cantante Dario Pasqualini.
Prima di tutto ho una curiosità di carattere terminologico: come mai voi preferite definirvi “collettivo” anziché “band”?
Per un po’ di tempo l’espressione che usavamo era “boy band”, che era nata sia per ridere sia per la nostra passione per i Brockhampton, che si definiscono così. Siamo quattro persone che si riconoscono nel sesso maschile, quindi “boy”, però poi ci siamo resi conto che poteva quasi rischiare di sminuire il lavoro, facendo pensare a cose di fine anni ’90, inizio Duemila. Quindi collettivo è “scientificamente” il termine più adatto. Io sono l’autore e il cantante e gli altri tre sono produttori. Nel live suoniamo molto da band, ma alla fine siamo tre produttori e un autore.
Come vi dividete il lavoro fra di voi? Chi fa cosa?
Con le mie pochissime skills di chitarra e pianoforte, io scrivo i pezzi e preparo le linee. Poi ci troviamo negli studi degli altri ragazzi, che arricchiscono la mia registrazione super basica con giri di accordi più complessi e beat particolari. Viene fatto tutto in fase di produzione. E poi siamo amici dalle elementari, una cosa molto bella perché non è un rapporto di lavoro ma più una cosa come: “Ragazzi, oggi ho scritto un pezzo carino. Domani ci troviamo?”.
Come mai avete scelto questo nome che si rifà alla mitologia egizia? C’è un motivo in particolare o semplicemente vi piace il suono del nome?
All’inizio ci sembrava una buona scelta perché siamo quattro maschi ma volevamo essere conosciuti con un nome femminile. A livello mitologico è interessante il fatto che la dea Iside sia coperta da un velo. Per noi è bello esserci, essere presenti, ma senza stare al centro dell’attenzione. È questa un po’ la poetica dei pezzi: ci siamo noi sempre in rapporto ad altre persone, mettendoci sempre un gradino sotto. È la nostra personalità: odiamo le persone che si vantano, quando probabilmente senza gli altri saremmo inutili.
Parlando di Pastiglia v7, questo è il vostro primo singolo per una major, cioè Sony Music. Com’è nata questa opportunità?
È stato tutto fantastico. Il 2020 è stato ovviamente un anno non bello, ma noi abbiamo avuto i nostri piccoli e grandi successi, uno dopo l’altro. Sony è stata l’apice di ciò. È stato un processo molto naturale: avevamo fuori i pezzi precedenti, c’è stato il loro interesse, abbiamo fatto sentire il nuovo materiale ed è piaciuto. Quindi una normale dinamica di A&R. Per noi è fantastico vedere che, nel marasma di gente che pubblica pezzi, una major nota il tuo lavoro. Il riconoscimento degli altri è fondamentale, a maggior ragione in questi casi. Il secondo vantaggio è che questo rende tutto il progetto più credibile.
A livello di produzione del brano, trovo che la componente synth/elettronica sia piuttosto “heavy”, satura, rispetto magari a brani di altri artisti che hanno uno stile canoro simile. Pensi che sia la vostra peculiarità?
Di sicuro con Pastiglia v7 parte un percorso nuovo. Gli strumenti che sono nel brano ci sono in tutti i lavori che stiamo portando avanti adesso: casse sature, rullanti ben presenti… che però sono in contrasto con pianoforti vintage e chitarre classiche e con la mia voce che si muove sopra in modo abbastanza leggero. La botta di cassa, rullante e basso ci piace un sacco. È quello che andiamo a cercare come reference: Brockhampton, Frank Ocean, Tyler the Creator…
Avete detto: “v7 è il simbolo delle nostre giornate passate in studio a ridisegnare i pezzi, con la paura di non poter mai raggiungere la versione definitiva”. Quanto tempo trascorrete in studio?
Un sacco di tempo. Potenzialmente la versione 7 poteva anche diventare la 50! Il fatto di decidere noi quando trovarci, senza sottostare ad altre persone, ti permette di fare i pezzi quando vuoi, che sia sabato, domenica, festa, Natale o vigilia.
In quest’ottica, quando capite quando fermarvi, quando un pezzo è finito?
Bel problema. Essenzialmente quando tutti sono contenti, quindi siamo molto democratici. Se anche uno solo ha un dubbio, vuol dire che bisogna fare la versione 8.
Ascoltando i vostri pezzi è evidente che i vostri riferimenti sono più internazionali che italiani. Quali sono gli artisti che nel corso dell’ultimo periodo, magari dell’ultimo anno, vi hanno particolarmente colpito per la loro scrittura, per la loro produzione?
A livello di produzione, sicuramente guardiamo molto all’estero. Oltre ai nomi che ti dicevo prima, aggiungerei Kanye West (per certe cose) e Blood Orange. Ma anche in Italia, soprattutto negli ultimi tempi, stanno uscendo cose pazzesche. Venerus è il mio idolo supremo. Anche Generic Animal mi piace tantissimo. Il suo primo disco, uscito ormai tre anni fa, è stato la prima volta in cui mi son detto: “Ah, l’italiano può fare queste cose?”. Fra i più recenti ci piace un sacco Ginevra. Anche i Post Nebbia, anche se non siamo vicinissimi a livello sonoro.
Mi permetterei di accostare il vostro stile anche a quello di Memento.
Certo, è fantastica tutta quella scena. Sicuramente lui ha riferimenti simili ai nostri. Esteticamente è fighissimo. È davvero post-indie. Io toglierei del tutto la parola “indie”: è proprio un’altra roba. Che bello.