Interviste

Dalla Corea agli Stati Uniti e ritorno: l’intervista a pH-1

Il rapper coreano-americano, nuovo volto della campagna primavera-estate di Stone Island, si è raccontato senza filtri: dal rapporto con gli Stati Uniti e con il mondo della moda a qualche anticipazione sul suo prossimo album

  • Il27 Maggio 2025
Dalla Corea agli Stati Uniti e ritorno: l’intervista a pH-1

Tra le storie che stanno contribuendo alla continua ascesa del cinema coreano ci sono quelle che raccontano la vita di chi ha dovuto lasciare il proprio paese. Past Lives, debutto alla regia di Celine Song del 2023, ha come protagonista Nora. Sceneggiatrice di base a New York, ma nata e cresciuta a Seoul, città che lascia con la sua famiglia a dodici anni per cercare fortuna altrove. Una storia simile a quella di Park Jun-won. Il suo nome d’arte, pH-1, ricalca i suoi due lati culturali: Park, Harry (il suo nome inglese) e l’1, la cui pronuncia è identica a quella di won. Vivere nella Grande Mela l’ha fatto avvicinare alla black music e all’hip hop che lui interpreta in maniera inedita: più cantato e molto introspettivo.

Eppure, il richiamo e il bisogno di tornare in Corea sono stati troppo forti. Park non è riuscito a trovare il minari che nel bellissimo film di Lee Isaac Chung del 2020 ispirava fiducia e invitava alla resilienza la famiglia Yi. pH-1 è diventato pH-1 tornando a casa. «Il mercato musicale americano non è molto aperto nei confronti dei rapper di origini asiatiche» ci racconta l’artista durante una lunga chiacchierata su Zoom. Dal 2017 fa parte dell’etichetta H1ghr Music di Jay Park e, dopo aver partecipato al celebre Show Me The Money 777 nel 2018, la sua carriera è decollata.

Ovviamente Park non rinnega gli anni che ha passato negli Stati Uniti – un periodo fondamentale per scoprire e ascoltare musica che lo ispira tuttora – ma tutti i suoi progetti, compreso il prossimo album (di cui ci ha svelato un dettaglio interessantissimo) li ha registrati nel suo Paese d’origine. Tutto ciò ha voluto dire imparare a confrontarsi anche con due pubblici molto diversi a livello di esigenza. Quello statunitense, interessato alla storia e alla realness, e quello coreano più attento alla forma e alla performance.

Nella sua musica, nei testi che scrive e nell’immagine estetica che propone, pH-1 vuole essere fedele a se stesso, senza mettere in ombra nessuno dei due lati culturali che lo rendono la persona e l’artista che è. Lo scorso 13 maggio è anche diventato il volto della campagna primavera-estate di Stone Island, casa di moda in cui ha ritrovato quella medesima volontà di distanziarsi dal mainstream e dalle mode passeggere che lo contraddistingue a livello musicale.

L’intervista a pH-1

Dopo aver studiato negli Stati Uniti, come mai, a un certo punto, hai deciso di tornare in Corea?
Premetto che a New York sono cresciuto ascoltando musica americana. Allo stesso tempo, però, essendo bilingue, avevo anche un forte interesse per la cultura, la musica e i media coreani. Mi sono sempre sentito una via di mezzo a livello di identità: cinquanta e cinquanta tra Corea e Stati Uniti. Quindi, quando ho iniziato a fare musica, non so, mi sono sentito e come se avessi bisogno di tornare qui a Seoul.

Una scelta coraggiosa dato che gli USA sono la culla del rap.
Per me è stato naturale e devo essere sincero: da artista hip hop coreano-americano è molto complicato. Il mercato musicale americano non è molto aperto come avevo sperato agli inizi. È difficile perseguire un certo tipo di carriera. In generale non si vedono molti rapper asiatici che sfondano davvero negli Stati Uniti. È brutto dirlo, ma è la verità.

Da cosa dipende secondo te? Ritieni che derivi da un diverso approccio musicale?
No, non credo che sia questo il motivo. Per esempio, ci sono molti artisti americani che come me scrivono testi più intimi e utilizzano un sacco il cantato. Penso a Tyler the Creator, anche a Mac Miller, artisti che non parlano di soldi, vita da gangster e cose simili. Raccontano di loro stessi e sono comunque tra i rapper più apprezzati in assoluto. Non credo però neppure che sia una questione di discriminazione. Il punto è che la cultura hip hop di base è una cultura nera. Per cui quello che ho pensato io è stato: “In che modo posso essere un rapper in modo tale da rispecchiare la persona che sono?”. La mia risposta è stata quella di tornare nella mia madrepatria, parlare nella mia lingua, ma anche incorporare la mia esperienza di vita a New York scrivendo canzoni che uniscono coreano e inglese.

Quale è la differenza principale tra il fare rap in America e in Corea?
Credo che cambi sicuramente ciò che la gente preferisce ascoltare. In America le persone apprezzano e considerano l’autenticità molto importante rispetto al pubblico coreano. In Asia sono molto più abituati ad ascoltare il K-pop o le ballad. Tendenzialmente cantanti che interpretano brani scritti e prodotti da altri artisti. È una sorta di pacchetto confezionato alla perfezione. Finché rispetti una certa etica e sei un artista capace fare spettacoli e performance di alto livello in Corea hai buone possibilità di vendere. In America la tua storia è molto più rilevante. Ovviamente non sto dicendo che uno sia migliore dell’altro. Sono solo due mondi differenti.

Hai mai pensato di collaborare con un artista K-pop?
Sì, sono sempre stato aperto da questo punto di vista, anche perché credo che sia un vantaggio da ambo le parti. Noi possiamo offrire loro uno spazio per essere più “autentici” e in cambio riceviamo un grande afflusso di appassionati e fan. Sono dell’idea che molti artisti K-pop sentano il bisogno di mostrarsi al di fuori della band di cui fanno parte e nel quale magari devono rispettare certe dinamiche. Per un idol che si trova, per esempio, in un gruppo di quindici membri, può essere un buon modo per uscire dal sistema e far vedere un suo lato artistico inedito. Nel mio prossimo album ci sarà un featuring con una girl band K-pop, ma non posso rivelarti il nome. 

Proprio il K-pop, insieme al rap, oggi è uno dei generi più legati al mondo della moda. Che ruolo le attribuisci nell’ambito musicale, fa la differenza?
Da artista credo che la tua personalità, il tuo suono e il modo in cui ti presenti visivamente al mondo siano le tre cose fondamentali. Non possono essere contrastanti. Quindi per me la moda è affascinante e funzionale. Pur non essendo un grande esperto adoro vestirmi, fare shopping e documentarmi sulle tendenze del momento. Cerco sempre però di mantenere un certo equilibrio.

Che intendi?
Quando ascolti la mia musica percepisci che non è così appariscente. Non è stravagante o aggressiva. Mi riflette in pieno e voglio che anche dal punto di vista estetico le cose, seppur alla moda, rimangano semplici. Per questo sono particolarmente felice di essere parte della famiglia di Stone Island che condivide un principio simile al mio: allontanarsi dalle tendenze mainstream e rimanere fedeli a se stessi. Ad esempio, evito di scrivere testi che non si allineano con le mie convinzioni/il mio stile di vita. Così vale anche per i vestiti.

Hai accennato al tuo stile musicale che è caratterizzato da un rap molto cantato. A cosa ti sei appassionato prima, all’hip hop o al canto?
Al canto, decisamente.Ho iniziato la mia carriera musicale ascoltando John Mayer e grazie a lui ho preso in mano la chitarra e ho iniziato a suonare e cantare. Per un periodo ho suonato in una band e ho imparato la batteria. Nel frattempo, a scuola ho studiato il sassofono e, dato che tutti gli asiatici suonavano il pianoforte, l’ho fatto anch’io. Solo più tardi mi sono avvicinato all’hip hop. Ecco perché nei miei brani cerco sempre di incorporare la mia conoscenza compositiva e armonica.

All’inizio della tua carriera hai partecipato a Show me the Money 777. Cosa ti ha spinto ad andare in tv?
Non è stata una scelta facile. Ho partecipato alla settima stagione, ma in realtà la mia compagnia avrebbe voluto che partecipassi alla sesta l’anno precedente perché volevo prima mettermi alla prova con un album. Andare subito in tv, senza aver prima pubblicato nulla, per me era come barare. Volevo che la gente mi conoscesse prima per la musica e non come personaggio. Poi dopo aver rilasciato il primo disco, mi sono reso conto di aver bisogno di una maggiore esposizione. I miei colleghi della stessa agenzia, dopo essere passati in televisione riuscivano a organizzare concerti, al contrario di me. Ero frustrato perché sentivo di meritare le stesse opportunità. Così la stagione successiva ho scelto di partecipare.

Quanto è cambiata la tua vita dopo Show me the Money 777?
Ti dico solo che prima di andare in tv per strada non mi riconosceva nessuno. Dopo lo show tutti sapevano chi fossi. In Corea la tv è molto importante e fa una grande differenza. Anche più dei social come YouTube.

Quale è il ricordo principale che hai di quell’esperienza?
La fatica. Perché sei lì anche per due giorni, non riesci a dormire, hai sempre fame. Sei semplicemente bloccato in una stanza, ad aspettare, aspettare e aspettare. E sei nervoso per tutto il tempo. È per questo che molti rapper in quello show, quando salgono sul palco, dimenticano i loro testi: sono letteralmente esausti per l’attesa. Ancora oggi, quando mi capita di andarci come ospite rivivo quelle sensazioni. È una sorta di PTSD (ride n.d.r.).

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