Pietro Morello: «La musica è un linguaggio emotivo e un atto politico»
A pochi giorni dalla ripartenza del tour del suo show “Non è un concerto”, abbiamo incontrato il musicista e creator torinese. La sua intraprendenza è contagiosa, il racconto delle sue missioni umanitarie in giro per il mondo toccante. Tutto sempre con il sorriso, scegliendo la felicità
John Coltrane era convinto che la musica avesse dei poteri eccezionali ignoti. Per tutta la sua vita, attraverso il jazz, ha cercato di scovarli. «Mi piacerebbe molto scoprire un metodo con cui, se volessi la pioggia, potrei far piovere. Se uno dei miei amici fosse malato, mi piacerebbe suonargli un certo brano per farlo guarire» diceva nel 1962. Nessuno ci è ancora riuscito e forse mai ci riuscirà. Ci sono però altre soluzioni in cui la musica è il mezzo, è l’«atto politico» o «emotivo» capace di raccontare e scatenare sensazioni positive. Esistono svariate possibilità di creare e fare musica. Pietro Morello cerca di sfruttarle tutte. Costruisce strumenti musicali improbabili, trasporta pianoforti nei luoghi più sperduti del mondo. Parla e fa parlare la musica, soprattutto per i bambini.
Content creator, o sarebbe meglio dire music creator, star sui social, musicista e uomo di spettacolo. A soli venticinque anni Pietro è inarrestabile. Tutto è cominciato poco dopo i dieci anni, quando ha iniziato a suonare la tastiera di sua sorella. Non ha mai preso lezioni, «non uso le diteggiature giuste, non sono un bravo musicista», ma la musica e l’arte erano nel suo destino. Contemporaneamente le missioni umanitarie, iniziate per placare il desiderio d’avventura dei diciassette anni e diventate una ragione di vita. L’anno scorso Pietro Morello ha raccolto tutte le sue esperienze nello spettacolo Non è un concerto che, a partire dal prossimo 20 novembre, tornerà a proporre in numerosi teatri in giro per l’Italia.
Nel suo show non parla direttamente sé, ma lo fa attraverso i piccoli protagonisti che ha incontrato nelle sue missioni in giro per il mondo e nei reparti d’ospedale del Regina Margherita di Torino dove fa musicoterapia. Questa seconda parte del tour, sembra un paradosso, ma per Pietro è una pausa per ricaricare le batterie. A febbraio tornerà in Congo per tentare ancora una volta di «fare scuola dove scuola non c’è». Per strada, sotto le bombe, sempre. «La guerra è l’esemplificazione della morte della cultura» e questo l’unico modo per resistere. Sempre armati di pianoforte e anima.
L’intervista a Pietro Morello
Come ti stai preparando alla ripartenza del tour?
Sono talmente emozionato che non riesco neppure a spiegarlo. Questo spettacolo per me vale tanto. Mi ha donato molto, sia a livello empatico ed emotivo per il rapporto con il pubblico, sia a livello personale perché è la più grande concretizzazione di tutti quei numeri fantomatici che si vedono sui social. Finché sono solo numeri che salgono o scendono non te ne rendi conto. Quando, invece, hai della gente davanti cambia tutto. La preparazione poi adesso è una figata perché, essendo una seconda parte e avendo già portato lo spettacolo in giro, so già come funzionerà. Se l’anno scorso c’era l’ansia di dover portare qualcosa di nuovo, adesso è solo goduria e voglia di rendere lo show ancora migliore.
Nella tua carriera sei stato anche in tv, a Sanremo con Madame e hai presentato il pre-show di X Factor. Ti senti più a tuo agio lì o a teatro?
Tutta la vita a teatro. Ovviamentemi piace il mondo televisivo, in generale tutto ciò che riguarda i video. Quando mi riprendo e monto le clip per i social mi diverto ed è anche un po’ emozionante vedere cosa ne nasce. Però cento persone in un teatro valgono come 100.000 visualizzazioni. Con questo non sminuisco l’importanza di chi mi segue, anche quello è un bellissimo rapporto. Però il contatto umano dal vivo, quando si apre il sipario, è spettacolare.
Come dice il titolo del tuo spettacolo, non è un concerto, ma è un po’ tutto te stesso.
Sì, ci siamo un po’ scervellati su questo titolo. Magari la gente, da qualcuno che sui social fa principalmente musica, si aspetta un concerto “normale”, dove arrivo, suono e me ne vado. A me però piace comunicare, piace raccontare. Il principio fondante dello spettacolo sono diventate le storie dei bambini che ho incontrato nelle mie missioni e delle quali io faccio solo l’ambasciatore. Racconto quello che mi hanno raccontato, anche perché di me e della mia storia ho poco da dire.
Beh, per esempio, quando è cominciato il tuo rapporto con la musica, Quale è stato il momento in cui è scattato il click?
È cominciato durante le medie, un periodo un po’ del cazzo a livello di frequentazioni. Nel senso che ci sono i classici episodi in cui magari ti senti più escluso, ti senti meno accettato e armonizzato con le persone. In realtà io non avevo il pallino della musica. Non ero quel ragazzino sempre con le cuffiette per intenderci, ma mi sono innamorato del pianoforte. Prima in modo intimo come confidente. Arrivavo a casa e lo suonavo un po’ a caso per buttare fuori le emozioni. Poi col tempo è diventato uno strumento e ho iniziato a sfruttarlo per dire: “Guardatemi, ci sono anch’io!”. Talvolta anche esagerando. Però il click è scattato quando ho capito che poteva essere uno strumento comunicativo.
Quando invece hai capito che potevi sfruttare la musica per raccontare anche altro e l’hai fatta diventare protagonista delle tue missioni?
La musica e le missioni umanitarie sono due cose che sono nate e cresciute in modo parallelo. La mia prima missione l’ho fatta a 18 anni e da lì non mi sono più fermato. La musica è diventata parte del mio impegno sociale quando ho capito che era un linguaggio emotivo. Di solito si usa l’espressione: “la musica è un linguaggio universale”. Non è vero, ogni parte del mondo ha il suo linguaggio musicale, ogni Paese ha una tradizione musicale molto differente dalle altre. Per me è invece è un linguaggio emotivo perché chiunque può utilizzarla per esprimere le proprie emozioni. E quindi mi sono detto: “Perché non sfruttarla per raccontare le guerre? Per raccontare la tristezza e anche la felicità e la voglia di rivalsa che si trovano in quei posti?”.
Tra le tante missioni umanitarie ce n’è una che ti porti dietro particolarmente?
Non ti cito le missioni con più ricorrenza perché a quelle, per forza di cose, sono legato. Quei bambini li ho visti crescere e ho conosciuto le loro famiglie. Tra quelle invece one shot, che hanno una funzione più di racconto, sono rimasto molto affezionato a quella in Palestina. Ci sono stato lo scorso aprile e ci ho lasciato il cuore. Ho conosciuto il coro di bambini di Amwaj diretto da Michele Cantoni. È una realtà incredibile che consente a questi ragazzini palestinesi di uscire da Gaza grazie alla musica. Pensa che io li ho visti per la prima volta a Lione. Lì c’è un contrasto sconvolgente: c’è il declino totale della razionalità umana e la morte della cultura e poi vedi i bambini cantare.
E quella di cui invece ti sei sentito poco soddisfatto e avresti potuto fare di più?
Il Congo, dove infatti tornerò a febbraio. È stata una delle missioni più difficili, anche a livello emotivo, dove ho visto le cose più brutte. Sono stato nei tunnel delle miniere d’oro dove lavorano i bambini. Con Ocapia, l’associazione con cui collaboro in quei luoghi, vogliamo costruire qualcosa. Altrimenti non serve a nulla raccontare.
È vero che ci si può sentire svuotati dopo un’esperienza del genere e subire un contraccolpo psicologico? Ti è mai successo?
Guarda, penso che farei prima a elencarti le poche volte in cui non mi è capitato (ride n.d.r.) perché. Il mental breakdown dipende dal tipo missione che fai e da quanto sei abituato a quel tipo di missione. Quando il lavoro è complesso possono esserci dei risvolti psicologici al ritorno. A me è successo di rientrare a casa chiuso, negativo, persino stronzo con chi mi era intorno. Non è una bella cosa, ma è segno che hai bisogno di metabolizzare quello che hai visto e provato.
Quindi credi che con la musica si possa realmente cambiare il mondo?
La musica è un atto politico e va rispettata in quanto tale. Lo è stata sempre, basta pensare al punk, al blues, al jazz. Poi io non mi sento in grado di fare musica in quel senso, non sono un musicista abbastanza bravo. Io la utilizzo come linguaggio comunicativo e sono le idee che trasmetto, basate sugli studi e sulle cose che ho visto, a essere atto politico.
Oltre alle missioni umanitarie, c’è anche il tuo lavoro con la musicoterapia. Mi racconti la tua esperienza e come ti sei avvicinato a quel mondo?
Ho iniziato frequentando il corso del professor Manarolo di Torino e ancora continuo a studiare. È un percorso che non finisce mai ed è fantastico poter essere utili all’interno di un reparto ospedaliero come quello del Regina Margherita. Ovviamente è una terapia laterale che non sostituisce in nessun modo quella farmacologica, ma può rappresentare un grande aiuto in quanto migliora il modo in cui il paziente, nel mio caso i bambini, interagiscono con i farmaci. Devi prepararti a vedere tanti piccoli passi. Ora mi sono preso una pausa. Per andare in missione e per andare nei reparti di ospedale si deve essere carichi. Se non hai la batteria al completo rischi di fare cazzate e di agire con un senso egoistico terrificante e pur di raccontare che lo fai, lo fai male. A gennaio però si ricomincia.
I tuoi prossimi sogni?
Divulgare musica, la storia della musica, portare la scuola dove non c’è, soprattutto nelle zone di guerra. E poi mi piacerebbe insegnarla. Non nel contesto scolastico classico, ma in uno tutto mio. Prima o poi lo farò.
Le date del tour Non è un concerto
- 20/11 Recanati (MC), Teatro Persiani
- 22/11 Legnano (MI), Teatro Galleria
- 27/11 Biella, Teatro Odeon
- 28/11 Ivrea (TO), Officina H
- 30/11 Bari, TeatroTeam
- 1/12 Pescara, Teatro Massimo
- 4/12 Napoli, Teatro Augusteo
- 6/12 Sondrio, Teatro Sociale
- 7/12 Alessandria, Teatro Alessandrino
- 10/12 Lodi, Teatro alle Vigne
- 13/12 Padova, Gran Teatro Geox
- 14/12 Brescia, Teatro Clerici