Interviste

Mancinelli: «I cataloghi hanno un valore economico ma soprattutto culturale»

Già direttore artistico di The Saifam Group, recentemente Roberto è diventato CEO della divisione publishing. Un’occasione per riflettere con lui sui temi di più stretta attualità del settore

Autore Federico Durante
  • Il24 Gennaio 2024
Mancinelli: «I cataloghi hanno un valore economico ma soprattutto culturale»

Roberto Mancinelli (foto di Niko Coniglio)

La carriera di Roberto Mancinelli comincia alla fine degli anni ’80 ai microfoni delle radio libere, per culminare poi con il ruolo di A&R Director di Sony / ATV Music Publishing Italy, per la quale nel 2014 si è trasferito a New York collaborando con alcuni dei migliori songwriter italiani e mondiali. A New York ha fondato iMean Music Publishing & Management, con un roster teso alla creazione di un ponte musicale fra i due continenti. Dopo tre anni di direzione artistica di The Saifam Group, da poco Roberto Mancinelli è diventato CEO della divisione Publishing.

The Saifam Group, con sede a Verona, possiede un catalogo editoriale con oltre 45mila brani di artisti nazionali e internazionali tra cui Laura Pausini, Eros Ramazzotti, Francesco Gabbani, Marco Mengoni, Ermal Meta, Modà, Ivana Spagna, Fabri Fibra. E  ancora: Club Dogo, Guè, Emis Killa, Mondo Marcio, Righeira, Pitbull, Vegas Jones, Alex Gaudino e molti altri.

Roberto Mancinelli - the Saifam Group
Roberto Mancinelli, CEO del Publishing di The Saifam Group

L’intervista a Roberto Mancinelli

Da alcuni anni la musica di catalogo è sempre più importante. Come si riflette ciò sulle dinamiche del vostro lavoro di publishing?

Io ho lavorato per alcuni anni negli Stati Uniti con Sony Music Publishing. Quando sono tornato a Milano, questa ondata di interesse nei confronti dei cataloghi non mi è risultata molto nuova. Che il catalogo rappresentasse un asset per una società di publishing non era una grande novità. Ma, oltre al lato puramente economico e di copyright, l’acquisizione di un catalogo è prima di tutto di carattere culturale: insieme al catalogo viene un pezzo di storia del tuo paese, o perlomeno del tuo segmento musicale.

The Saifam Group ha acquisito recentemente Musiza (editore musicale, ndr) e il catalogo di Ron, più altre cose all’orizzonte. Insieme a quel catalogo, noi abbiamo coscientemente preso anche un pezzo di cultura italiana. La responsabilità che uno deve avere nei confronti di un catalogo è duplice: chiaramente economica, ma anche culturale.

Dopo anni di spettacolare crescita e di enormi acquisizioni, adesso Hipgnosis Songs Fund è in forti difficoltà. Cosa pensi di questa parabola?

Non ho un’opinione “chirurgica” dei loro asset societari. Quello che sospetto è che probabilmente dietro a queste grandi acquisizioni ci sono cordate finanziarie che non hanno niente a che fare con la musica. L’esperienza di oltre trent’anni mi ha dimostrato che attori che non sono innamorati della musica e pensano solo al business di solito falliscono. Per dire: la banca che investe sulla casa discografica perché la considera un puro asset economico molto spesso fa un buco nell’acqua. Noi trattiamo una materia che ha bisogno di empatia, di amore, di conoscenza, di vissuto.

Nel corso degli anni hai lavorato molto in America: tu quali prospettive di internazionalizzazione vedi per gli autori e compositori italiani?

Sono stato un po’ pioniere in questo campo perché quando sono andato a vivere a New York la mia “mission” era proprio di creare dei ponti culturali fra autori italiani e americani. Gli americani sono molto “9 to 5”: si va in ufficio alle 9 per scrivere una canzone e si esce alle 5 con il brano pronto. Quindi mettono tecnica, esperienza. Noi portiamo un approccio molto “di cuore” alla canzone, del tipo: “Dai, la finiamo domani, stasera ci mangiamo una pizza”. Mixato col tecnicismo americano, questo ha portato dei bei risultati. Noi mettiamo il lato poetico, loro lo schema di business.

Comunque in America fare l’autore è considerato un mestiere senza nessun dubbio. Da noi per molto tempo l’autore è stato considerato o l’artista che non ce l’ha fatta o uno che non aveva tutti i numeri per essere frontline. Poi New York è New York: non si fanno le session perché forse poi ne uscirà un brano; si fanno le session perché c’è già Rihanna che aspetta.

Secondo me per gli autori italiani ci sono delle ottime possibilità di internazionalizzazione perché, cadendo le barriere attraverso generi e tecnologie, è molto più semplice collegare. Una volta fare una session a Copenaghen era vista come una cosa pazzesca, oggi la tecnologia rende tutto più semplice.

In un’intervista Maurizio Fabrizio ci ha detto: “Non ho mai lavorato sulla moda del momento, mi sono sempre ispirato al mio cuore. Sono poi i produttori e il team accanto a te che ti consigliano una strada”. Cosa pensi di questa sua osservazione?

Dice una grande verità. Anche con lo status che porta, Maurizio (che è un nostro autore) si può permettere più libertà rispetto ad autori più giovani. È chiaro che non si mette a inseguire il numero 1 in classifica del momento. Lui ha una penna riconoscibilissima: quando mette le mani su un brano, se lavori in questo settore lo noti subito. È una persona ancora molto aperta al confronto, e ci fa fare il lavoro come dovrebbe essere, cioè un lavoro di squadra: tu hai il talento, io la visione di mercato. Non bisogna mai demonizzare nessuna di queste parti né essere oltranzisti.

Da editore, qual è il tuo punto di vista sulla vicenda SIAE-Meta? Peraltro la proroga sull’accordo scade il 31 gennaio.

Qualunque opera dell’ingegno necessita del rispetto dell’industria che ne fa uno sfruttamento. Se tu utilizzi una mia creazione per qualunque tipo di fine, ci deve essere una remunerazione per chi l’ha creata. Se c’è un utilizzo ci deve essere un corrispettivo.

Negli anni ’80 questo discorso riguardava le radio. Quando arriva un nuovo player ci sono degli aggiustamenti, ma la regola che ha dominato sempre è quella dell’equa remunerazione. C’è un’equazione molto semplice: scrivere una canzone è un lavoro, e in quanto tale va rispettato e remunerato.

L’intelligenza artificiale minaccia il lavoro degli autori?

Anni fa c’era un software in grado di capire la felicità delle canzoni, poi quello che capiva quando il tuo cervello si emozionava… Io credo che nel fare creativo l’elemento umano sia ancora imprescindibile. Quando è uscito Pro Tools tutti pensavano che chiunque avrebbe potuto mettersi a fare musica. In realtà è risultato un grandissimo strumento, che ha permesso di evitare nastri, tagli, studi di registrazione. Voglio sperare che l’AI si riveli allo stesso modo uno strumento d’aiuto. Ma sono ancora convinto che l’emozionalità che ti spinge a scrivere una canzone ancora non possa essere tecnicamente e freddamente imitata.

Share: