«Con “OKAY OKAY 2” torno alle origini»: Rosa Chemical si racconta per l’uscita del nuovo EP
Sonorità trap, urban e un immaginario crudo e provocatorio. L’artista torinese ci ha parlato del cuore del suo nuovo progetto, del rapporto con sé stesso e con la libertà espressiva, di sesso, salute mentale… e anche di sua madre

Rosa Chemical
Rosa Chemical, all’anagrafe Manuel Franco Rocati, è uno dei volti più eclettici e fuori dagli schemi della scena musicale italiana. Dopo un percorso fatto di trasformazioni artistiche, progetti anticonformisti, esperienze televisive come quella sul palco dell’Ariston – e attualmente, con Amadeus, nel programma Like a Star – l’artista torna con OKAY OKAY 2, sequel dell’EP che cinque anni fa aveva segnato il suo esordio nella scena musicale italiana.
Sei tracce dirette, crude, personali, che mescolano trap e urban, e riportano l’artista “a casa”, nel senso più autentico possibile. Non è solo un ritorno musicale, ma esistenziale. Rosa Chemical ce lo racconta in un dialogo intimo, sincero, mentre è in visita dal suo tatuatore a Torino.
L’intervista a Rosa Chemical
Venerdì è uscito OKAY OKAY 2, il sequel di un progetto che ha segnato il tuo esordio 5 anni fa. Com’è nata l’esigenza di tornare alle origini?
In realtà è stato abbastanza spontaneo. Dopo un periodo a Milano, dove tutto sembrava “funzionare”, mi sono reso conto che quella direzione non era più mia. Io cambio, faccio uno “switch” ogni anno, ogni due. Così sono tornato alle origini, prima ancora che musicali, personali: ho comprato casa dove sono cresciuto, ho ripreso contatto con la mia realtà. Il disco è nato da lì.
L’album è nato d’istinto o è frutto di un percorso più riflessivo?
È partito tutto d’istinto, ma poi ci ho riflettuto su. La mia terapeuta mi aiuta molto a non lasciarmi guidare solo dall’impulso, perché tendo a vedere tutto “o bianco o nero”. Ho avuto un’intuizione forte, l’ho seguita, ma mi sono anche fermato a chiedermi: “È la scelta giusta? Mi conviene, numericamente parlando?” E la risposta è stata no. Però alla fine ho deciso di fregarmene di cosa conviene o no, e di fare comunque quello che sentivo. E ha vinto l’istinto, come quasi sempre succede con me.
Hai sempre avuto un linguaggio diretto, provocatorio. C’è mai stato un momento in cui hai pensato di esserti spinto troppo oltre?
Al contrario, spesso mi sento limitato. Ho persone attorno che mi fanno ragionare su ciò che è giusto o no dire. Se facessi tutto quello che penso, mi avrebbero già arrestato [ride]. A volte penso anche a mia madre. Mi dico che se lei ascoltasse certe cose, sarebbe meglio evitarle. E allora mi modero un po’. Mi freno.
Tua madre ti supporta?
Sì, tanto. Dell’ultimo EP le sono piaciute perfino due tracce: Bratz e Tipo DN. È già un bel traguardo!
Parli spesso di psicofarmaci. Che rapporto hai con la salute mentale?
È un rapporto conflittuale, quello tra me e la mia mente. La salute mentale è qualcosa su cui rifletto molto, ma tendo a tenerlo per me. Vado in terapia, e ormai da qualche mese ho trovato una nuova psicologa con cui mi sto trovando benissimo. Però è un percorso complicato. E poi, onestamente, la sovraesposizione non mi ha portato tutta questa sanità, tutta questa gioia che magari uno si immagina. C’è questa idea che, se diventi famoso, ti conoscono tutti, allora sei felice. Ma per me non è andata così. Poi c’è anche il contesto: io, come tanti ragazzi, sono cresciuto in un sistema dove prima viene il lavoro, poi vengono le emozioni, il come stai davvero. E questo ti porta a stare male.
Il sesso è un altro tema ricorrente nei tuoi testi. Cosa rappresenta per te oggi? È istinto, amore, divertimento…?
Credo che sia un po’ tutto questo insieme. In terapia ho capito che, oltre a essere piacere, per me è sempre stato anche un modo per colmare un vuoto interiore che mi porto dietro da anni. L’arte è la mia prima casa, il mio primo amore, ma il sesso è la seconda. Lo vivo a modo mio: per molti è legato all’intimità, per me è quasi il contrario. Mi sento molto più a disagio a mangiare una pizza con una persona sconosciuta che a togliermi i vestiti ed essere me stesso in una stanza con lei.
Tra le sei tracce dell’EP, ce n’è una a cui sei più legato?
Direi 0.25x. È quella che rappresenta meglio la direzione sonora che ho voluto dare a questo progetto. Mi sono ispirato a una wave americana molto precisa, nata attorno alla crisi del fentanyl nelle strade di Philadelphia, in particolare a Kensington Road. Lì è nata una sottocultura con un’estetica musicale fortissima: strumentali rallentate, suoni ruvidi, quasi fuori tempo… ma affascinanti proprio per questo. In Italia non si era ancora sentita una cosa così, e ho voluto reinterpretarla a modo mio. Però Tipo DN è quella a cui sono più affezionato. Mi riporta indietro a quando ho iniziato a fare musica, sei o sette anni fa. C’è dentro quella wave con cui sono cresciuto, quella roba che ascoltavo anche da fan. Se oggi fossi un ragazzo che da fuori si è vissuto quel periodo, sentendola direi: “Wow, è tornata quella cosa lì“.
Parliamo di futuro: ti piacerebbe tornare a Sanremo?
Nella modalità giusta, certo. Perché no?
Articolo di Ludovica Boi