Interviste

10 anni di batteria, basso e Royal Blood: «Siamo sopravvissuti fidandoci sempre più l’uno dell’altro. E quella t-shirt indossata da Matt Helders…»

Il prossimo 6 luglio, insieme ai Queens of the Stone Age, il duo britannico torna a esibirsi dal vivo in Italia agli I-Days. Abbiamo fatto due chiacchiere con Ben Thatcher per farci raccontare come ci si sente ad aver raggiunto i dieci anni di carriera

Autore Samuele Valori
  • Il1 Luglio 2024
10 anni di batteria, basso e Royal Blood: «Siamo sopravvissuti fidandoci sempre più l’uno dell’altro. E quella t-shirt indossata da Matt Helders…»

Foto di Tom Beard

Dieci anni fa per la scena rock inglese, che stava vivendo un periodo di stanca e si aggrappava da tempo ai soliti nomi, l’uscita di Royal Blood fu come riprendere fiato dopo un’immersione. Un gruppo giovane, anzi un duo, cosa ancora più rara, che con batteria e basso dava vita a dei banger, come dicono gli inglesi. La ritmica da headbanging di Out of the Black, il riff alla Matthew Bellamy di Come On Over e il timbro radiofonico di Figure It Out: sono pochi i dischi che possono vantare un inizio del genere. Il palco è sempre stata la componente principale dei Royal Blood ed è quello che consente loro di non fermarsi mai: a distanza di un anno tornano in Italia, agli I-Days Milano Coca-Cola, stavolta insieme ai Queens of The Stone Age.

Mike Kerr e Ben Thatcher dopo un decennio non hanno perso quella carica che li ha sempre contraddistinti, anche quando hanno provato a cambiare le carte in tavola con il terzo album Typhoons, più pop, e l’ultimo Back to the Water Below che è la chiusura di un cerchio.

Sì, gli eventi dal vivo e il 2014. Per il duo britannico però non è andata fin da subito così bene, all’inizio in pochi credevano che avrebbero potuto davvero conquistare il pubblico e quindi pochissimi locali li ospitavano per suonare. Ecco perché forse, in barba al senso di soddisfazione degli anniversari a numeri tondi, è l’estate del 2013 uno dei momenti clou della storia del duo. Senza volerlo, vi accenna lo stesso Ben Thatcher, mentre è in chiamata Zoom da un hotel di Glasgow, con il suo immancabile berretto: «Registravamo un sacco di materiale senza sapere se saremmo mai rientrati delle spese. A un tratto abbiamo deciso che avevamo bisogno di stampare delle nostre t-shirt». E fu proprio da una maglietta che esplose il fenomeno Royal Blood.

Glastonbury, 2013 appunto, sul Pyramid Stage ci sono gli Arctic Monkeys il cui management, da qualche tempo, segue una giovane band rock. Matt Helders, il batterista, è talmente colpito dalla musica di Mike e Ben che decide di esibirsi con una maglietta nera con le lettere RB (con la -r specchiata). I fan delle scimmie artiche nei giorni successivi iniziano a indagare e scoprono che quello è il simbolo di un gruppo inglese chiamato Royal Blood. La prima t-shirt ufficiale del duo inglese è stata indossata da un componente degli Arctic Monkeys, una storia da film. Un favore che Ben Thatcher ha ricambiato lo scorso anno, sempre a Glastonbury, salendo sul palco con quella della band di Alex Turner e soci.

Ma adesso non esageriamo nel dare troppa importanza a un aneddoto. Se i Royal Blood girano il mondo e si esibiscono davanti a migliaia di persone, con alle spalle più di dieci anni di carriera, è soprattutto merito loro e non di una maglietta nera a maniche corte.  

L’intervista ai Royal Blood

Ormai è un po’ che siete in tour con Back to the Water Below, come ha reagito il pubblico alle nuove canzoni suonate dal vivo?
Sembrano molto contenti devo dire. Ci riteniamo molto fortunati, a dieci anni dal nostro debutto siamo ancora in pista e abbiamo ancora la possibilità di girare il mondo suonando le nostre canzoni. Tra l’altro, siamo molto affezionati al pubblico italiano, l’anno scorso è stato breve ma molto divertente con i Muse. Quei due show sono stato una delle prime volte che abbiamo suonato Pull Me Through. A Roma poi ricordo che faceva caldissimo, ci saranno stati quaranta gradi. Non ci aspettavamo anche quel tipo di calore oltre a quello del pubblico.


Quest’anno il pubblico di Milano vedrà i Royal Blood insieme ai Queens of the Stone Age. Non è la prima volta per voi, anzi, con Josh Homme siete amici da tempo.
Siamo sempre stati dei fan dei Queens of the Stone Age, siamo cresciuti ascoltando le loro canzoni. Anche per questo motivo nel dna dei Royal Blood c’è molta della loro musica. La prima volta che siamo stati in tour con loro nel 2017 è stato un grande passo per noi e da lì è iniziato un rapporto d’amicizia che continua tuttora. Con Josh abbiamo collaborato alla produzione del singolo Boilermaker e di un altro paio di brani durante la scrittura di Typhoons. Credo che dal vivo le nostre band creino una buona combinazione, è come se si completassero a vicenda.

Back to the Water Below è stato il primo album che vi siete autoprodotti completamente. Cosa avete imparato da quest’esperienza e tornerete prima o poi a lavorare con un producer?
Difficile dirlo, anche perché, in un modo o nell’altro, ci siamo sempre interessati in prima persona alla produzione dei nostri dischi. Diciamo che le mani in pasta le abbiamo avute spesso. Credo che sia importante essere aperti alla collaborazione con altri artisti, spesso ti aiuta a uscire dalla “tunnel vision” e ti permette di allargare gli orizzonti. Quindi, non escludo che potremo tornare a co-produrre. Però sono convinto che sia anche fondamentale riporre piena fiducia in noi stessi: quando io e Mike lavoriamo da soli è come se l’alchimia della band si rinforzasse. E forse è questa la cosa che abbiamo imparato lavorando a Back to the Water Below: a fidarci ancor di più l’uno dell’altro.

Back to the Water Below è un po’ la summa di tutti i vostri stili. In questo senso, quanto vi ha aiutato aver appena scritto un album diverso dal resto della vostra discografia come Typhoons?
Sì, credo che il nostro terzo album sia stato un ponte. In Typhoons ci siamo distanziati per la prima volta dal nostro stile classico, inserendo elementi anni Settanta e influenze della French Disco. Con Back to the Water Below è stato bello tornare un po’ indietro alle nostre radici, senza però rinunciare a provare nuove cose. Per esempio, a livello di arrangiamento abbiamo sperimentato molto con il pianoforte. Anche se io non amo molto le canzoni più “dolci”, provare a scrivere brani più delicati e senza i classici riff hard rock è stato stimolante.

A proposito dei pezzi in cui tornate alle origini, per esempio Midnight at Mountains, immagino siano tra quelli che avete scritto durante il tour di Typhoons.
In realtà, la cosa che ci ha ispirato di più è stata la mancanza dei concerti dal vivo. Il terzo album era nato durante la pandemia Covid e forse anche per questo motivo era diverso dal resto. Appena abbiamo ripreso ad andare in tour con Typhoons, vedere la gente scatenarsi sottopalco, ci ha fatto capire la strada da intraprendere per il disco successivo. Volevamo ricreare la stessa energia dei nostri primi lavori, mescolandola con qualcosa di nuovo.

Quando avete pubblicato Typhoons, così diverso dai vostri primi due dischi, non avete avuto paura della reazione dei fan più affezionati?
Più che spaventati, direi che fossimo eccitati e incerti allo stesso tempo. Ovviamente non potevamo sapere come la gente avrebbe reagito al nuovo sound. In fin dei conti, la cosa più importante era che fossimo tranquilli con noi stessi e non avessimo rimpianti: il nostro obiettivo inziale era provare a uscire dal seminato e dalla nostra comfort zone e l’avevamo fatto al meglio delle nostre possibilità.E alla fine la nostra sicurezza ha pagato perché il nostro pubblico l’ha apprezzato.

Prima hai nominato il pianoforte e, nel vostro ultimo album, ci sono molte canzoni, come Pull Me Through e There Goes My Cool, nelle quali è protagonista. Com’è stato per te rivedere Mike di nuovo alla tastiera? Dovrà essere sembrato un viaggio nel tempo.
In realtà no, perché la verità è che lui è sempre seduto al pianoforte. Scrive le canzoni in tutti i modi, talvolta partendo dalla chitarra, altre dal basso, ma il più delle volte dal piano, soprattutto per le parti vocali. Mike adora uscire dal seminato e trovare nuovi sentieri. Uno di questi, specialmente durante la scrittura di Back to the Water Below, era il voler inserire degli accordi. Sembra strano, ma è così. Lui si ritrova spesso a suonare note singole e riff. In questo quarto album ha deciso di lasciare i power chords, cosa che invece non accadeva in passato, perché tra la fase di scrittura e la registrazione scomparivano.

Nella vostra prima band, i Flavour Country, Mike suonava una keytar, mentre tu eri il chitarrista. È vero?
Sì (ride n.d.r.). Accidenti, è passato un sacco di tempo. Allora i Flavour Country avevano già un batterista, ma io adoravo a tal punto la loro musica che, pur di entrare a far parte del gruppo, mi presentai come chitarrista. Ci siamo divertiti un botto in quel periodo.

Quest’anno sono dieci anni dall’uscita del vostro album di debutto Royal Blood. Cosa significa per voi quel disco e quale è il primo ricordo che hai di quel periodo?
Beh, è stato l’inizio di tutto. In quel momento non ci rendevamo bene conto di ciò che stessimo facendo. Eravamo dei ragazzini, scrivevamo musica per suonare dal vivo e divertirci con i nostri amici. La cosa incredibile è che non ci fregava nulla dei soldi: andavamo in studio e pubblicavamo roba senza sapere se saremo mai rientrati dalle spese. Ricordo che un giorno ci siamo detti: “Ok, abbiamo bisogno di fare delle nostre t-shirt ufficiali per guadagnare qualcosa in più”.

Beh, in molti vi hanno conosciuto grazie a una t-shirt indossata da Matt Helders (il batterista degli Arctic Monkeys) a Glastonbury nel 2013.
Sì, lui ha indossato la prima in assoluto. Non le avevamo ancora messe in vendita.

In un’intervista hai raccontato che i primi tempi faticavate a trovare dei luoghi in cui suonare dal vivo a Worthing. Come giudichi oggi la situazione per le band inglesi più giovani, è più facile emergere o è ancora complicato?
Credo che oggi tutto sia molto più accessibile, con Spotify è più veloce farsi conoscere; quindi, da questo punto di vista, non sono molto preoccupato. Il problema però è che molti locali stanno chiudendo. Suonare dal vivo per i gruppi è imprescindibile. Le band nascono per esibirsi davanti a un pubblico, noi ci siamo fatti le ossa sul palco, ed è brutto che oggi molti non abbiano tale possibilità.

In questi dieci anni c’è mai stato un momento in cui avete temuto che la band fosse giunta al capolinea?
Ci sono state delle difficoltà, ma io credo che la band sia il rifugio e il veicolo con cui da sempre attraversiamo e affrontiamo quei momenti. Scrivere dei traumi personali e delle dipendenze fa parte del processo di crescita del gruppo. Quando Mike ha avuto problemi con l’alcol e ha lottato contro la dipendenza ha riversato tutto nella musica. La musica e la scrittura l’hanno aiutato e ne hanno guadagnato in modo reciproco.

Ti avranno chiesto migliaia di volta a quali batteristi ti ispiri, per cui ti chiedo se c’è, tra le band emergenti, qualcuno che ti ha colpito.
C’è una band inglese, che è stata anche in tour con noi, i Bad Nerves. (Saranno in concerto a Bologna e Milano il prossimo novembre) Il loro batterista Samuel Thompson è letteralmente una macchina. La sua mano destra è on fire. Io non riuscirei a suonare nel modo in cui fa lui. Un altro nome, ma questo non è emergente, è Craig Raynolds degli Stray From the Path.

I Royal Blood si esibiranno prima dei Queens of the Stone Age, insieme anche ai Vaccines, il prossimo 6 luglio all’Ippodromo SNAI San Siro agli I-Days Milano Coca-Cola: i biglietti sono disponibili su TicketOne e Ticketmaster.

Share: