Vogliamo un rapper come RRARI DAL TACCO: la sua prima intervista
Il rapper di Monopoli classe 1999 è una delle penne più interessanti della scena attuale: con lui abbiamo parlato di religione, inseguire un sogno senza inseguire la grande città, scelte, destini imposti e del suo album di debutto, “Non sono Gesù”, che uscirà il 14 marzo

RRARI DAL TACCO, foto di Alessio Mariano
GEN B è il nuovo format editoriale di Billboard Italia che vuole dare agli emergenti più interessanti in circolazione lo spazio che meritano. Una serie di cover digitali che approfondiscono a tutto tondo le next big thing della scena scelti direttamente dalla redazione, che ogni mese punterà su due artisti che hanno dimostrato di avere quel quid per fare il grande salto. Il primo protagonista è RRARI DAL TACCO.
Foto: Alessio Mariano
Hair: Cristian Guardino
Executive Producer: Carlo Bartolomucci
Se negli ultimi mesi non avete vissuto in un bunker sotterraneo privo di connessione o più semplicemente avete scrollato la Top 50 di Spotify oltre le posizioni occupate dalle canzoni di Sanremo, almeno una volta vi sarete imbattuti in una strofa che fa più o meno così: “Lei vuole un rapper, le nuove tette, rifarsi il naso, le borsette, far l’influencer”. Ma Bianca – questo il titolo del pezzo in collaborazione con Kid Yugi, diventato virale su TikTok ancor prima di essere pubblicato ufficialmente e di schizzare al primo posto della classifica italiana nella settimana pre Festival – è solo una sorta di cavallo di Troia con cui RRARI DAL TACCO è entrato prepotentemente nelle nostre playlist. Dietro, infatti, c’è molto di più, come dimostra col suo album di debutto, Non sono Gesù, in uscita il 14 marzo.
Classe 1999 e nato e cresciuto a Monopoli, Matteo Sardella (questo il suo vero nome che inizialmente non ha voluto usare perché «era troppo da cantante neomelodico, ma ora un po’ mi pento di non averlo fatto») ha tutte le carte in regola per diventare il nuovo rapper preferito del tuo rapper preferito (Guè ne ha già tessuto le lodi, affermando che «Dalla wave che ha portato Kid Yugi stanno uscendo dei rapper fortissimi e RRARI DAL TACCO è uno che spacca», e persino Cesare Cremonini ha condiviso la sua Domenica Italiana nelle Instagram Stories).
Barre crude e schiette, realness indubbia, un immaginario identitario e terreno di un ragazzo estremamente vicino alla normalità e lontanissimo da una qualsiasi forma divismo, che viene «da un paesino di provincia dove c’è poco o niente e sei un po’ ucciso dalla noia», punta a comprarsi una villa nella campagna pugliese e non teme di ammettere di aver provato un po’ di vergogna a mettersi per la prima volta davanti al microfono, forse anche perché «per noi ragazzi del profondo Sud non c’era ancora stata la rivoluzione che sta accadendo in quest’ultimo periodo», come ci ha raccontato nella sua prima intervista in assoluto in cui abbiamo parlato di religione, scelte, destini imposti e di come inseguire un sogno senza per forza inseguire la grande città.
L’intervista a RRARI DAL TACCO
La luce che ha acceso Kid Yugi su un Sud diverso da quello che era sempre stato rappresentato fino ad ora nel rap italiano ti ha dato più fiducia nel far uscire i tuoi pezzi?
Assolutamente sì. Con Yugi ci conosciamo da molto prima che entrambi facessimo musica e sono felice di aver seguito tutto il suo percorso. La sua crescita è stata una cosa stimolante non solo per me, ma per tutti i ragazzi della zona. È stato il primo del nostro contesto ad arrivare al grande pubblico e il primo a farci pensare “okay, allora possiamo farlo anche noi da qua”. Per noi ormai è una leggenda. Prima sembrava che solo Napoli potesse farcela e quindi eravamo un po’ scoraggiati, ma in realtà mancavano solo le persone che parlassero il linguaggio giusto per la nostra realtà e che rendessero visibile il nostro contesto al resto d’Italia.
Prima parlavi di noia che uccide: che rapporto hai con questo sentimento?
Per me la noia è stata uno stimolo per creare qualcosa, ma mi rendo conto che per molte persone può voler dire rassegnarsi e dire “nemmeno ci provo, tanto qui non c’è nulla, non ci sono possibilità”.
Tu hai mai pensato questa cosa?
Fortunatamente no perché sono una persona molto testarda. Piuttosto mi incazzavo con me stesso, ma non ho mai smesso di credere che prima o poi qualcosa sarebbe successo. Se vuoi davvero una cosa, e non per il fine di averla e basta, io penso che mettendoci tutto te stesso puoi ottenerla.
Come stai vivendo ora l’attesa del tuo primo disco?
Con un po’ di ansia! Però sono molto fiducioso, proprio ieri me lo sono risentito tutto dall’inizio alla fine, e mi sono detto “beh, è un bel progetto, autentico, una roba che è al 100% mia”. Quindi spero che anche chi lo ascolti riuscirà a percepirlo in questa maniera.
Nel titolo ho visto una volontà di ribadire un senso di normalità, sbaglio?
Non sbagli per nulla. Ho scelto questo titolo perché il disco non solo è molto crudo e molto di strada, ma anche perché è una cosa che si usa dire giù da me. Non sono Gesù significa che non mi voglio porre come un esempio perché non sono un santo. E poi io sono molto affascinato dalla religione e da tutto ciò che è sacro.
Raccontami meglio.
Diciamo che nonostante tutto il marcio e lo schifo cerco di vivere seguendo gli insegnamenti cristiani e credendo al racconto biblico. Non mi definisco proprio praticante perché non sono uno di quelli che vanno in chiesa, ma ho una mia spiritualità legata anche molto al contesto in cui sono cresciuto. Nelle mie zone c’è un rapporto molto stretto con la religione. Un’immagine molto vivida che ho è quella di mia nonna che va a fare l’offerta ai santi.
Foto: Alessio Mariano
Anche la copertina del disco ha un richiamo religioso.
Sì, il riferimento è San Matteo e l’Angelo di Caravaggio. Io mi chiamo Matteo e mi piaceva l’idea di avere una sorta di angelo che mi dà l’ispirazione e mi detta quello che devo scrivere.
Beh, il culto del sacro è una cosa molto italiana che quindi si inserisce bene nel tuo immaginario.
Nell’americanizzazione che abbiamo sempre vissuto a livello storico c’era la percezione che la roba italiana fosse vecchia mentre quella che arrivava dagli Stati Uniti sempre fresca. Invece ora la traiettoria sta cambiando. Okay, il rap è un genere americano, ma per me è figo portarlo sempre di più in una chiave nostra, renderlo così identitario.
Mi sembra che in generale tu sia molto legato alla tua terra. Qualche giorno fa hai messo una Storia scrivendo che non andresti da nessun’altra parte perché il tuo cuore appartiene a questo posto.
Potrà sembrare una cosa un po’ da boomer, ma il mio goal è comprarmi una villa in campagna con gli animali. So che per lavoro dovrei stare a Milano, ma non è proprio una città che fa per me. A me piacciono il mio paesino, le mie abitudini, i miei posti, la mia tranquillità. A Milano non riesco a stare più di una settimana!
Ma è una cosa solo umana o anche creativa? Quando ho parlato con Kid Yugi la prima volta mi ha detto che in nessun altro posto si sentiva così libero di fare la sua arte come a Massafra.
Concordo totalmente con lui. Alla fine quello che scrivo, quello che faccio, lo faccio e lo scrivo perché sto dove sto. Non stare più in Puglia potrebbe influenzare la mia scrittura e la mia visione e si avvererebbe la mia paura più grande.
Cioè?
Perdere l’autenticità. Se dovessi finire a non avere più nulla da raccontare e a fingere di essere qualcosa che non sono piuttosto smetto di fare musica.
In Non ho mai avuto un lavoro dici “quando ho iniziato a rapper un po’ mi vergognavo, e pensare che ora vengo pagato”. Mi spieghi questa cosa della vergogna?
Dove sto io le persone non erano abituate a vedere paesani cantare. Se sei un ragazzo cresciuto in certi contesti magari provi vergogna a metterti davanti a un microfono perché la gente potrebbe prenderti in giro. A me per fortuna non è mai successo, ma come ti dicevo ci ho messo tanto per decidermi a pubblicare la mia roba.
Anche sul rap c’è questo giudizio?
Adesso fare il rapper è considerato figo, tutti vogliono farlo o hanno almeno un amico che lo fa, però all’inizio da noi non era una cosa così scontata o sdoganata, soprattutto – appunto – per i ragazzi che hanno vissuto la strada. Il rap è un genere street, ma paradossalmente sei molto più esposto alle critiche e hai meno supporto. La gente pensa “ma come, sei un cristiano serio e ti metti a cantare?”. Giù veniva visto meglio chi faceva neomelodico rispetto a chi faceva rap. Tutti i miei amici, per dirti, si pompano quello.
E tra l’altro tu non hai usato il tuo nome di battesimo perché era troppo da cantante neomelodico!
Sì, ma un po’ mi pento di questa cosa (ride, ndr)! Ad oggi vorrei tantissimo chiamarmi Matteo Sardella anche artisticamente, infatti ho chiesto se fossi ancora in tempo per cambiare nome ma mi hanno detto di no…
Un pezzo che mi ha colpito particolarmente è In tenera età. Me lo racconti?
È il pezzo più vecchio del disco, l’ho scritto nel 2022. L’ho voluto inserire perché ci sono molto affezionato, non sono solito aprirmi molto ma quella canzone per me ha un significato davvero importante perché parla di ragazzi o addirittura bambini che nascono e crescono in determinati contesti e sono destinati a seguire un certo percorso che magari pensano di aver scelto, ma che invece gli è stato imposto. Non voglio dire che in certe situazioni non hai possibilità di decidere la tua strada, però è sicuramente più difficile avere la possibilità di fare una vita diversa da quella che ti è capitata.
Foto: Alessio Mariano
Per te il rap ha rappresentato un po’ una salvezza?
Sì, e anche riscatto. La cosa che mi piace di più è aver dato ai ragazzi di Monopoli un qualcosa in cui credere, l’idea che non devi per forza andartene da casa tua per realizzare i tuoi sogni e che anche qui puoi avere una chance.
C’è stato un momento preciso in cui hai capito che le cose stavano funzionando?
Forse ti direi questo mese grazie a Bianca. Ti dico la verità, io vedo sempre il bicchiere mezzo vuoto, quindi quando conquisto un piccolo traguardo penso sempre “okay, è successo per botta di culo”. Ora invece sto imparando ad avere più consapevolezza che le cose vanno bene perché sto lavorando bene, perché ho qualcosa da dire e la musica vale, e non perché è un momento fortuito.
Ti ha endorsato anche Cesare Cremonini…
Quella cosa è stata assurda! Mia madre era più contenta che Cremonini avesse condiviso Domenica italiana nelle storie che del primo posto in classifica con Bianca, mi ha chiamato tutta emozionata. Per me lui è davvero un grande.