Solo Dio vede San Siro: in quartiere con Sacky
Sami – che l’8 marzo pubblicherà il suo nuovo album, “Balordo” – ha solo 23 anni, ma gli occhi, la maturità e la saggezza di chi nella vita ne ha già viste tante. Abbiamo passato con lui un pomeriggio in Zona 7, dove “le case popolari hanno un certo flow” e i ragazzi hanno storie che meritano di essere ascoltate. Senza pregiudizi
«Con la sua placida disillusione, Zoro, figlio della bancarotta morale della politica USA post Watergate, dimostra di essere consapevole che per alcuni il gioco è truccato fin dal principio. E dunque, dal suo punto di vista, il nulla là fuori è l’unica fonte di identità socioculturale onestamente possibile. Il mondo che gli è capitato in sorte non è una materia prima da scartare, ma semmai da plasmare […]».
Sono queste le parole con cui Cesare Alemanni in Rap: una storia, due Americhe spiega le sostanziali differenze che in Wild Style intercorrono tra Hector, un militare in carriera che vede nel niente da cui provengono «una fonte avvelenata di identità da cui prendere le distanze con una fuga pragmatica. Finalizzata a procurarsi una nuova identità depurata dalla povertà e dall’emarginazione», e suo fratello Zoro. Dall’uscita del film di Charlie Ahearn diventato un vero e proprio cult dell’hip hop sono passati 41 anni. Eppure, il modo in cui ha saputo restituire un’immagine nitida di un profondo conflitto su come interpretare prima e sfruttare poi il proprio contesto sociale di provenienza è più attuale che mai.
Con la differenza che stavolta non ci troviamo nel ghetto di New York ma a San Siro, periferia (se una zona a neanche dieci minuti di metropolitana dal Centro può definirsi tale) ovest di Milano. Che i ragazzi che la abitano non sono figli della crisi politico-sociale post Vietnam (sebbene una guerra in cui si sentono profondamente coinvolti sia in corso. E infatti non c’è muro a San Siro – l’ultimo baluardo di resistenza in città? – che non inneggi alla libertà per la Palestina), ma orfani di uno Stato in cui l’integrazione è – a conti fatti – ancora una lontana utopia. Ma soprattutto, con la differenza che la loro disillusione è tutt’altro che placida, ma è più una rivendicazione cruda, rabbiosa, che sa di rivoluzione culturale e sociale.
Da qualche anno ormai, se si parla di rap italiano non si può tralasciare San Siro come uno degli epicentri. Proprio da lì, infatti, i ragazzi della Seven 7oo hanno fatto partire un’onda che ha travolto l’Italia con uno stile nuovo per il nostro Paese. E che, proprio come Zoro in Wild Style, hanno individuato in quel nulla là fuori la spinta per trasformarlo in tutto e del mondo che gli è capitato in sorte hanno fatto il loro punto di forza grazie alla potenza di un racconto per immagini che non si vedeva da un po’.
Tra di loro c’è anche Sacky, che incontriamo in un soleggiato pomeriggio di dicembre in via Zamagna 4, cuore pulsante di San Siro. È in quella palazzina popolare con il numero civico appeso al contrario e il cancello scalcinato che affaccia su uno spiazzo dove i ragazzini giocano a pallone, gli anziani si godono l’insolito tepore invernale e il tempo sembra essersi fermato, che Sami mi dà appuntamento per raccontarmi del suo quartiere prima e della sua vita incredibile poi.
Lì, infatti, ha sede il centro culturale che i ragazzi della Seven 7oo hanno aperto grazie al prezioso aiuto di Don Claudio Burgio (cappellano del carcere minorile Beccaria e fondatore di Kayros. Nonché una figura che tornerà spesso durante la lunga chiacchierata con Sacky nel nostro pomeriggio a San Siro) e la giornalista Elisabetta Andreis. Uno spazio in cui i giovani della zona possono studiare, coltivare le proprie passioni e fare musica in un piccolo studio di registrazione totalmente gratuito. Esattamente quello che serviva a San Siro, un quartiere senza dubbio difficile, su cui aleggiano molti pregiudizi, ma «in cui ci sono tante storie da raccontare», come mi dice subito Sacky.
Storie di vita di ragazzi come loro che in questi giovanissimi (Sacky ha solo 23 anni, ma la maturità di chi ne ha viste e passate già tante, come racconta nel suo ultimo singolo, KAYROS, un vero pugno nello stomaco) hanno trovato quella rappresentanza oggi necessaria più che mai, a dimostrazione di quanto la musica della Seven 7oo abbia una portata sociale da non sottovalutare in un contesto come San Siro, che può essere compreso solo spazzando via i preconcetti viziati da una comunicazione mediatica fin troppo morbosa e politicamente schierata. Come farlo? Semplicemente ascoltando tutta la loro verità.
Sacky, come nasce questo posto così importante per San Siro?
L’idea di questo centro è arrivata quando io stavo in comunità da Don Claudio. Pian piano ho iniziato a fargli conoscere un po’ la mia realtà, lui era molto curioso della mia storia e da dove venivo. Del quartiere in giro si parlava tanto, e lui voleva vederlo di persona perché non aveva mai conosciuto una persona che fosse veramente cresciuta in quel posto. Quindi gli ho fatto conoscere un po’ la zona, i ragazzi. Poi è subentrata Elisabetta che ci ha dato una grossa mano a trovare uno spazio dove i giovani del quartiere potessero svolgere delle attività costruttive. Qui organizziamo i corsi della patente, vengono dei volontari ad aiutare a fare i compiti e c’è anche uno studio musicale.
Sacky: «A San Siro ci sono tante storie da raccontare»
Eppure da fuori si parla sempre male di San Siro…
Perché fa più notizia. Tante persone se ne sono approfittate e chi ovviamente non conosce le cose crede a quello che legge anche se non è la verità. Ci sono sicuramente tanti pregiudizi. Quando cresci qui hai comunque a che fare con tante difficoltà e tante cose brutte, ma anche con tante storie da raccontare.
Per questo credo sia molto importante che in questo quartiere ci sia una scena come la vostra che finalmente può dare una rappresentanza concreta.
Verissimo. Questa è una cosa bellissima. Alcuni di noi sono cresciuti con dei punti di riferimento un po’ confusi, a volte proprio sbagliati. Altri di noi non li hanno proprio avuti. A noi fa piacere che i ragazzi del quartiere vedano il buono che abbiamo fatto. Loro apprezzano la loro musica, non vogliono seguire gli errori che abbiamo commesso in passato. Per quello che posso mi impegno tanto a dare il buon esempio ai ragazzini più giovani.
E poi le case popolari hanno davvero un certo flow…
Quella è proprio la frase di San Siro. Ho iniziato a vedere quella scritta sul muro da quando andavo alle elementari ed è proprio un pugno perché è verissima.
Fare musica a Milano è diventato un privilegio?
Com’è fare musica a Milano? Sicuramente è una città con tante opportunità ma che economicamente sta diventando abbastanza proibitiva per i giovani.
Infatti sta diventando sempre più complicato perché è diventato molto più costoso. Il fatto che molte persone che ho conosciuto abbiano dovuto ricorrere a dei reati per avere i soldi per fare musica è davvero triste e ti fa capire quanto non sia una cosa accessibile a tutti. Andare in studio costa, le persone che lavorano devono essere pagate, così come le strumentali. Per questo noi qui abbiamo aperto uno studio dove chi vuole può venire a registrare gratuitamente ed è davvero tanto frequentato.
Anche il rap oggi è un privilegio?
Per me sì. C’è tantissima gente che ha talento e si è dovuta fermare e nessuno ha potuto conoscere questo talento. Per quanto mi riguarda credo che all’inizio non avessi tutto questo talento, non sono uno di quelli che ci sono nati ma l’ho dovuto coltivare. Però, ecco, penso di avere una storia che vale la pena essere raccontata e che non lascia indifferenti.
Posso dirti che secondo me la Seven 7oo è la cosa più hip hop che ci sia in Italia oggi? L’attaccamento che avete alla vostra zona, e poi questa dimensione super collettiva in cui nessuno viene lasciato indietro.
Apprezzo tantissimo questa cosa che dici. Noi ci siamo supportati tanto a vicenda e questo l’hanno notato tutti. Non sarebbe mai stata la stessa cosa se fosse accaduto diversamente. Anche per questo secondo me i ragazzini si sentono rappresentati, perché tra di noi c’è tantissima unione.
E da quando è arrivata la fama i ragazzi del quartiere si rapportano in modo diverso con te?
Io penso di aver coltivato tanto rispetto nel tempo. Non sono mai diventato un arrogante o uno strafottente. Guardami, siamo qui, io sono in tuta, sto sempre in mezzo a tutti, non faccio il menoso. Sicuramente sono cambiati gli occhi delle persone, ma penso che questo sia normale. Se due anni fa mi vedevano e non mi dicevano neanche “ciao” adesso mi salutano, mi chiedono come sto, ma a me fa solo piacere, non la vedo come una leccata di culo.
Sacky: «I ragazzi devono puntare a volare via da San Siro»
Come hai visto cambiare invece il quartiere?
Se devo dirti la verità la cosa che mi rattrista è che lo vedo cambiare in peggio ogni anno che passa. Quando stavo da Don Claudio lui ci raccontava la storia di un gabbiano che vive in una discarica ma non sapeva volare, e per questo faceva fatica ad uscire da quel contesto. Nel momento in cui ha imparato a farlo è finalmente riuscito ad andare via dalla discarica, che rappresenta un contesto che non funziona. Questa cosa succede anche qui ai ragazzi. Questo posto ormai è diventato una discarica e i ragazzini devono solo puntare ad andarsene, perché è come se qui non ci fosse più un futuro e bisogna prendere consapevolezza di questa cosa. Ognuno deve trovare il proprio modo di volare via. Nessuno vede più questo posto, solo Dio, che vede sempre tutto.
Sacky, per te cosa manca a San Siro per migliorare questa situazione?
Il vero supporto. In una zona come City Life se qualcosa non funziona quanto ci mettono a sistemarla? Pochissimo, perché lì c’è la gente che spende i soldi. Perché lo stesso non succede qui? Eppure San Siro è un quartiere importante di Milano, non può essere così degradato. Anche perché poi ti sposti di un centinaio di metri verso lo stadio e sembra di essere in un altro mondo. Se qualcosa si rompe domani lo trovi già sistemato. Qua se qualcosa si rompe forse lo riparano tra un anno. La gente non ha nemmeno voglia di farsi un giro qui, chi te lo fa fare di venire a San Siro in queste condizioni?
Però voi per quello che potete fate tanto per il quartiere, anche solo con questo centro.
Sì, anche se non è questo posto che può trasformare le persone, ma può solo aiutarle a voler intraprendere una strada migliore. Come dicevamo prima, ad aiutarle a spiccare il proprio volo. E anche in qualche modo responsabilizzarle, è troppo facile stare tutto il giorno in quartiere a fumarsi le canne, ma siccome non fanno male a nessuno non pensano che questa cosa non sia costruttiva.
Immagino che questa cosa detta da una persona come te rispetto a un adulto abbia una valenza diversa per un ragazzino.
Sicuramente ho più credibilità ai loro occhi, anche perché gli adulti in generale oggi per me non ne hanno molta. Sono pochissimi quelli che nel concreto fanno qualcosa per questi ragazzi, Don Claudio ed Elisabetta ad esempio. Se questo centro lo avesse aperto chiunque altro non avrebbe avuto lo stesso riscontro perché c’è anche molta diffidenza.
E la chiesa in questo che ruolo ha?
Ogni tanto mi è capitato di vedere il prete dell’oratorio qui vicino che prova a coinvolgere i ragazzi ma non ha chissà quale presa. A me spiace vedere che magari lo prendono anche in giro perché comunque si dovrebbe sempre apprezzare qualcuno che fa qualcosa per te, però i giovani vanno coinvolti con cose che gli interessano realmente, non con il catechismo. Per dirti, don Claudio con noi non ha mai parlato di religione, ci ha sempre coinvolti in altri modi. Con i concerti, ad esempio. Anche se hanno fatto degli errori i ragazzi restano pur sempre ragazzi. Io prima di arrivare da don Claudio stavo in una comunità dove mi obbligavano a zappare la terra altrimenti non mi davano le sigarette. Cosa mi stai insegnando così? Mi stai solo privando di qualcosa.
L’arrivo del rap
Il rap per te è arrivato in comunità?
Diciamo che il mio inizio con il rap non è stato per niente normale. Io sono sempre uscito con ragazzi che facevano musica, come Vale Pain, Neima, e io comunque non ambivo a diventare un artista, non ne avevo nemmeno le capacità. Però era un mondo che mi interessava, quindi mi proponevano delle comparsate nei loro video e io mi divertivo tanto. Un giorno Neima arriva da me e mi dice di fare una traccia con lui, giusto per. E così per la prima volta mi ha portato in uno studio. Lui mi ha insegnato tutto, è come l’amico che ti fa salire in macchina e ti insegna a mettere le marce. Io a riascoltare la mia voce in quel pezzo ero anche un po’ imbarazzato perchè non ero abituato a sentirla. Poi dopo qualche mese mi arrestano…
E lì cosa succede?
Succede che faccio dei mesi al minorile e poi mi cambiano la misura cautelare, quindi mi trasferiscono nella comunità di cui ti parlavo prima. Te lo giuro, lì ho passato i giorni più brutti della mia vita perché non mi sono mai sentito così oppresso. Stavo troppo male, quella non era rieducazione, era proprio una punizione. Infatti sono scappato, anche se non avrei mai voluto fare questa cosa. Quando infatti avevo saputo che il mio computato che era uscito prima di me dal carcere era scappato dalla comunità ho pensato che fosse scemo, perché quando scappi ti devi fare un mese di carcere per punizione. Pensa quanto stavo male lì dentro per arrivare a scappare.
Da lì poi inizia la mia latitanza, e in quel periodo ho anche girato il video con Neima e pianificato l’uscita. Quando era tutto a posto mi sono consegnato e mi hanno portato al Beccaria. Il pezzo è esploso mentre io ero dentro, la gente iniziava a conoscermi ma io non avevo nulla da dare. Non ero nemmeno un rapper, solo uno che aveva fatto una prova ed era andata bene. Non sapevo cosa fare, non sapevo dove sbattere la testa, non avevo un piano. Mentre ero in galera mi arrivavano le lettere di Neima in cui mi spronava a scrivere. Quindi una volta arrivato in comunità mi sono impegnato tantissimo e ho provato a scrivere i miei primi testi.
Di cosa parlavano?
Erano testi proprio banali, te li puoi immaginare. Proprio elementari perché le capacità erano quelle che erano. Andando avanti però sono migliorato e soprattutto ho conosciuto Baby Gang. Ci siamo fatti tutta la comunità insieme. Io sapevo della sua esistenza ma non sapevo nemmeno che faccia avesse.
L’incontro con Baby Gang
E come hai capito che era lui?
Dalla voce perché avevo sentito dei suoi pezzi. La sua voce è troppo particolare, la riconosceresti ovunque. Quindi gli faccio “Scusa, ma tu sei Baby Gang?” e da lì è nata la nostra amicizia. Baby mi ha stimolato tanto, anche se prima di fare una traccia insieme è passato tanto tempo perché comunque in comunità eravamo un po’ Messi e Ronaldo, no? In competizione ma in senso positivo.
Hai pubblicato musica mentre eri in comunità?
Sì, in quel periodo avevo pubblicato dei pezzi che avevano avuto un risultato modesto. La cosa assurda era che io conoscevo praticamente tutta la scena, però io nel mio telefono avevo cinque pezzi che magari non erano nemmeno così validi, mentre là fuori probabilmente c’era qualcun altro che nel telefono ne aveva venti che spaccavano e non era famoso.
Torni spesso su questa cosa del non essere all’altezza.
Sì, perché mi sono ritrovato ad affrontare questa cosa e per me è stata una sfida. Se non ci avessi messo tanto impegno e non continuassi a mettercelo il mio talento da solo non mi avrebbe mai ripagato.
Però se alla base non c’è un seme è difficile che qualcosa poi fiorisca. Invece nel tuo caso è nato davvero un bel fiore.
Sì è vero. Diciamo che è stato un percorso un po’ travagliato ma alla fine dal seme è nato qualcosa di bello. E sono contento se una realtà come questa può accogliere chi ha una passione e chi magari deve ancora trovarla, come è successo a me.
E ora il prossimo passo è il tuo nuovo album, Balordo.
Sì, questo è sicuramente un periodo intenso di emozioni vista l’importanza di questo progetto per me. Insieme al mio team ho lavorato duramente per portare un prodotto che mi rappresentasse al meglio e potesse rappresentare anche i miei fan. Con la mia musica voglio arrivare a più persone possibili e fare in modo che anche loro si sentano parte del mio percorso. L’8 marzo il disco è fuori, non so cosa succederà, ma sono sicuro di essere stato me stesso al 100% e che tutto quello che racconto in questo album è reale.