Soccer Mommy: «Non sono alla ricerca di un genere musicale ma di un modo per essere me stessa»
La brillante cantautrice americana è tornata di recente con il nuovo album “Sometimes, Forever”, in cui si è avvalsa della collaborazione di un asso come Daniel Lopatin (aka Oneohtrix Point Never)
L’immagine di Sophie Allison, aka Soccer Mommy, potrebbe ancora rimandare alla giovanissima indie-folk singer, capace di incantare il pubblico col fascino schietto di una breve performance pomeridiana al Primavera Sound di Barcellona del 2019.
Chitarra elettrica arpeggiata con essenziale eleganza, sneakers e lunga gonna di tessuto leggero, un timbro vocale fra Natalie Imbruglia, Emmylou Harris e Verity Susman delle Electrelane. Sul viso ancora adolescenziale, incorniciato da pigtails castano amaranto, si leggevano già la determinazione e la curiosità intellettuale di oggi.
Era il tour di Clean, terzo album che aveva raccolto attenzioni e qualche scommessa e aperto le porte al contratto con la label Loma Vista. Due anni dopo in scuderia con Sophie ci sono progetti come St. Vincent, Andrew Bird e Marilyn Manson. Color Theory, con i sette bellissimi minuti di Yellow Is the Color of Her Eyes e le metafore conturbanti di Lucy, era già un disco che faceva la differenza.
Gli stop forzati della pandemia e la necessità di superarsi a partire dalla qualità degli standard raggiunti sono la sostanza creativa di Sometimes, Forever. L’album è un nuovo traguardo per la cantautrice americana e la presenza di Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never) è solo uno degli elementi di sorpresa.
Ecco un estratto dell’intervista a Soccer Mommy che trovate integralmente sul numero di luglio/agosto di Billboard Italia.
Negli ultimi due album il tuo modo di approcciarti alle canzoni si è evoluto molto. Prima di parlare dei cambiamenti, proviamo a rintracciare gli elementi di continuità. Il songwriting per esempio?
Credo che il mio modo di scrivere probabilmente stia maturando e crescendo con me. La cosa che però è rimasta uguale è che per me scrivere una canzone significa mettere a fuoco aspetti di me stessa. Non voglio dire che scrivere canzoni sia una forma di psicanalisi, ma certamente è un modo per conoscermi di volta in volta.
Come nasce un tuo pezzo?
Chitarra e voce. Oggi come agli inizi. La storia di ogni mia canzone comincia così. Il resto arriva dopo. Anzi, almeno nel mio caso, se quella scintilla iniziale, nata nel modo più semplice, non è abbastanza forte, non è in grado di reggere il confronto col processo di elaborazione richiesto dall’arrangiamento, finisco per non divertirmi nemmeno e con l’allontanarmi da quello che volevo realmente raccontare.
Di album in album, nei tuoi pezzi si sono inseriti sempre più elementi che rimandano a un immaginario oscuro, o doloroso, mentre altrove aleggiano colore e leggerezza. Da cosa nasce questo contrasto così caratterizzante del tuo modo di comporre?
Anche se ho solo 24 anni, nella mia vita ho avuto occasione di fare esperienza del dolore e un precipitato di questo contatto vive nei miei pezzi, come una sorta di consapevolezza di quello che può essere la vita. Così come ho avuto doni molto belli, e anche questa è vita da scrivere e suonare.
Dal punto di vista professionale ti senti realizzata come donna?
Ho avuto e sto avendo delle opportunità. Certo, non è così scontato, ancora oggi, che alle donne venga riconosciuto un ruolo di leadership nel proprio progetto musicale e che si riconosca loro delle competenze anche tecniche, o una preparazione musicale competitiva nei confronti dei maschi.
Che effetto ti ha fatto la vicenda riguardante l’aborto in America?
Mi è sembrato qualcosa di irresponsabile e violento. Un modo per relegare la donna al ruolo di madre come unica funzione sociale possibile. Che lo voglia o no. Sono una giovane donna e ho un rapporto sentimentale stabile, ma penso che in questa, come in qualunque altra situazione, felice o meno, debba essere sempre la donna a scegliere.
Una costante delle tue canzoni è il livello di energia, che non manca mai e non è mai troppa. A cosa riconduci questo equilibrio?
Sono felicissima di sentirti dire questo, perché forse è proprio questa la sostanza più effettiva, più motivante del mio percorso di autrice. Credo che ci sia in me un istinto innato verso un mood vitale, anche quando non è gioioso. E suppongo anche che questo si traduca poi in un linguaggio che si può definire pop. Il fatto è però che io non sono alla ricerca di un genere musicale, ma di un modo per essere me stessa.
Che ruolo ha avuto Oneohtrix Point Never, o Daniel Lopatin se preferisci, nel gestire a livello sonoro i vari mood della ispirazione?
Fondamentale. La collaborazione con lui è una idea nata dalla mia etichetta, ma è stato un attimo scoprirci fan uno dell’altra e focalizzare degli ascolti comuni, come The Roches, con quel modo pazzesco di gestire le armonie vocali, o i Cure. Gran parte del lavoro nell’album sulle tastiere sarebbe impensabile senza l’apporto di Dan.