Interviste

Alle radici del male con il post-punk fantascientifico degli Squid: «Il pop e il successo ci fanno paura»

La band inglese pubblica domani, venerdì 7 febbraio, il suo terzo album “Cowards”, stavolta prodotto dall’italiana Marta Salogni con Grace Banks. Come al solito, non basta un ascolto per carpirne tutte le sfumature

Autore Samuele Valori
  • Il6 Febbraio 2025
Alle radici del male con il post-punk fantascientifico degli Squid: «Il pop e il successo ci fanno paura»

Foto di Harrison Fishman

Gli Squid hanno una capacità innata di catapultare chiunque ascolti un loro brano in un mondo altro che a poco a poco si rivela molto più reale di ciò che sembra. Si viene risucchiati dal suono composito e stratificato, talvolta ruvido, in altri casi cinematografico, e dalla voce spigolosa del batterista e frontman Ollie. Partendo dalla fantascienza e dall’assurdo, spesso film o romanzi (come in questo terzo album), senza alcuna apparente intenzione da parte dei cinque artisti inglesi, ci si rende conto di trovarsi in un presente ambiguo. Come la loro musica che viaggia tra suoni post-punk, basso, chitarre, tromba e, in Cowards, anche molti più archi: gli Squid, dal primo EP Town Centre del 2019, hanno ampliato sempre di più i loro orizzonti.

Abituati a scrivere dal vivo, provando le canzoni inedite durante i loro concerti, per il loro terzo album Ollie Judge, Anton Pearson (chitarra), Laurie Nankivell (basso e tromba), Louise Borlase (chitarra) e Arthur Leadbetter (tastiere) hanno deciso di lavorare in modo diverso. Cowards è stato scritto in un periodo di pausa nei Church Studios insieme a due produttrici con cui la band non aveva mai collaborato: la nostra Marta Salogni e Grace Banks. Un altro pizzico di italianità c’è anche tra i numerosi ospiti del disco – questa al contrario non è una novità – con gli italo-britannici Ruisi Quartet. Dan Carey, che li ha prodotti e affiancati fin dal loro esordio, ha seguito il gruppo a distanza, quasi a conti fatti.

Gli Squid e Cowards: un disco ricco di “malvagi”

Rispetto al precedente ed acclamato O Monolith, questo nuovo progetto è ancora più “concettuale”. L’analisi del male e dei suoi labili confini passa attraverso personaggi immaginari e suggestioni. I contorni sfocati sono enfatizzati da un sound con molti più spazi e molti più vuoti lasciati alla melodia. Basti pensare alla doppietta Fieldworks o alle tastiere del primo singolo Crispy Skin. Cowards, come spesso accade con i dischi della band di Bristol, non è un album che colpisce al primo ascolto. Ha bisogno di tempo per essere colto e “sentito” con tutti i suoi squarci emotivi. Un esempio è il finale Well Met (Fingers Through The Fence) dove spicca anche la voce di Clarissa Connelly.

Forse è il loro lavoro più riuscito e completo. Parlando su Zoom con Ollie, Anton e Laurie quello che risulta evidente è che ai diretti interessati la cosa che più preme è il contatto con il pubblico, quella vicinanza con i fan che solo le piccole venue riescono a conservare. Il successo li stimola, ma allo stesso tempo li terrorizza. Quell’ansia e quella fastidiosa sensazione di non aver fatto tutto il possibile deriva dal fatto che, in fondo, sono loro i primi a sentirsi dei “codardi” e questo, sì, li rende unici.

L’intervista agli Squid

I vostri primi due lavori, in particolare O Monolith, sono nati spesso da jam e concerti dal vivo. Per Cowards è andata allo stesso modo?
Anton Pearson:
No,per questo album, per la prima volta nella nostra carriera, ci siamo presi una pausa da tutto il resto per poterlo scrivere e registrare tutto d’un fiato. In passato siamo sempre stati abituati a scrivere un po’ alla volta, tra un concerto e l’altro. Spesso provando dal vivo dei brani ai quali stavamo lavorando. Questa volta abbiamo deciso di stoppare tutto e dedicarci totalmente al nuovo disco finché non fosse interamente registrato e concluso.

Ollie Judge: È stato un esperimento e siamo contenti di esserci riusciti.

A: In realtà, abbiamo fatto un paio di show intimi in cui abbiamo anticipato alcuni brani ai quali stavamo lavorando. Ci siamo esibiti all’Elsewhere di Margate, un locale a cui siamo molto affezionati, e in un club di Falmouth (Cornwall) chiamato The Cornish Bank. Abbiamo suonato dei pezzi ancora a metà o che avevamo appena iniziato a scrivere e queste due serate ci hanno aiutato a capire cosa ci piacesse e cosa non funzionava.

Dal 2019 a oggi il vostro suono è diventato sempre più ricco. In questo album ci sono ancora una volta tanti collaboratori, forse più del solito. Come avete gestito il lavoro in studio?
Laurie Nankivell:
Sì, beh, abbiamo avuto diversi collaboratori nel corso degli anni. Non so se in Cowards ce ne siano più del solito. Con questo disco di certo è cambiato il nostro approccio alla collaborazione. Nel senso che siamo diventati più sicuri di noi stessi come autori di canzoni e come arrangiatori. Il nostro stile il più delle volte è poco “intenzionale” ed è molto incentrato sull’improvvisazione. Col tempo, man mano che si sono succeduti vari ospiti, ci siamo resi conto che le nostre canzoni prendevano forma e cambiavano in base all’artista che saliva a bordo con noi.

Questo approccio di cui parli si nota soprattutto nei brani più corali, come Well Met, soprattutto negli ingressi dei vari elementi.
L:
Penso che siamo maturati molto, soprattutto in termini di respiro, ovvero nel riuscire a comprendere dove e quando inserire un determinato strumento. Nel mio caso riguarda l’utilizzo della tromba, ma credo che valga lo stesso discorso per i momenti in cui ci sono diverse melodie di chitarra o gli archi. Inoltre, hanno contato molto avere il tempo e lo spazio per scrivere in modo rilassato, essere in uno studio nuovo con persone diverse. Tutto questo ha influenzato l’intero processo creativo.

Per la prima volta non siete stati in studio con Dan Carey. Quali differenze avete notato nel lavorare con Marta Salogni e Grace Banks?
A:
Quando lavori con Dan c’è sempre un’aria frizzante. Si provano cose nuove, c’è una tensione costante e non ci si ferma mai. C’è poco riposo. Le pause pranzo sono molto brevi (ride n.d.r.). È un’esperienza ad alta energia, eccitante e faticosa, il che è davvero straordinario. Per noi stessi è stato fantastico. Con Cowards avevamo invece il desiderio di sperimentare un nuovo punto di vista per scoprire in che modo avrebbe influito sul nostro suono. Marta in studio riesce a creare un’atmosfera molto rilassata e registra le cose in modo eccellente. Allo stesso tempo Grace è stata incredibile come ingegnere. A posteriori credo sia stata una scelta giusta, anche alla luce del tipo di brani che avevamo scritto.

O: Sì, allo stesso tempo però non volevamo neppure perdere quel sapore che Dan riesce a conferire ai nostri pezzi.

E in che modo è subentrato Dan Carey?
A: Ha lavorato alla produzione, dopo che avevamo registrato tutto il disco, da remoto dal suo studio mentre noi eravamo in tour negli Stati Uniti. È stato piuttosto divertente perché, tra un concerto e l’altro, ci arrivavano queste e-mail da Dan con le tracce da ascoltare. Noi eravamo curiosi di capire se e come avrebbe cambiato i nostri pezzi. Molto spesso accadeva il contrario di quello che immaginavamo, soprattutto quando alcune canzoni che pensavamo avrebbe stravolto sono rimaste identiche. In questo senso abbiamo imparato ad apprezzare quanto avevamo fatto. In generale è stato molto utile e rassicurante avere un ulteriore “orecchio” sul disco prima di procedere al missaggio.

Squid Cowards
Foto di Harrison Fishman

Se l’ultimo album degli Squid era stato influenzato dalla natura e dall’animismo, Cowards ha come protagonisti dei personaggi all’apparenza malvagi. Da dove siete partiti e come mai questo titolo?
O:
Trovo che il termine “Cowards” sia molto interessante. Ognuno, almeno in un momento della propria vita, si è sentito un codardo per varie ragioni. Nel mio caso è un sentimento che spesso si lega all’ansia e al fatto che non ho fatto qualcosa a causa del mio stato ansiogeno. Per altri diventa un modo per identificare una persona orribile e vigliacca e quindi diventa un insulto pesante. Col fatto che i protagonisti di molte di queste nuove canzoni fossero dei personaggi discutibili, a metà strada tra il bene e il male, ho pensato che la scala progressiva con la quale si definisce una persona come “codarda” si legasse molto al tema. È un po’ provocatorio, ma non stiamo dando del codardo a nessuno in particolare. Si tratta di una riflessione sui molti modi in cui si può usare questa parola piuttosto che una definizione specifica.

Trovo che questo tema sia davvero connesso con questo preciso momento storico in cui i confini tra il bene e il male sono sempre più sfocati.
O: Sì, sono d’accordo, anche se, mentre scrivevo i testi e mi disegnavo questa tematica in testa, non pensavo a eventi della vita reale. Non volevo collegarli all’attualità. Tutti gli scenari e le situazioni di cui parlo sono esagerati e sopra le righe. Sono basate più sulla fantasia, come i romanzi per esempio. La lettura di libri e la visione di film suscitano una reazione o un’emozione che poi sfrutto come trampolino di lancio. Le mescolo con le mie esperienze personali e mi permettono di scendere ancora più a fondo.

Come accade in Building 650: attraverso Lost in Translation e Tokyo Soup di Ryu Murakami, avete riletto il vostro viaggio in Giappone. Cosa ricordate di quell’esperienza? 
O:
La ricordo come qualcosa di inquietante. Siamo atterrati in Giappone qualche giorno dopo la fine del divieto d’ingresso per il COVID, per cui siamo stati tra i primissimi turisti nel Paese dopo circa due anni. Ho visto centinaia di persone e un sacco di macchine, eppure era tutto molto tranquillo. Per certi versi inquietante, per altri molto piacevole, soprattutto per chi come noi è abituato a città rumorose e abrasive. E poi mi sono reso conto che molti film e libri che parlano del Giappone spesso si concentrano proprio su questo strano tipo di atmosfera, una sorta di solitudine direi, che si percepiscono solo lì.  

Siete una delle band simbolo della new wave post-punk britannica, o comunque la si voglia chiamare. Avete iniziato con la Speedy Wunderground di Dan Carey insieme ad altri gruppi simbolo come black midi e Black Country, New Road. Dall’esterno sembrava l’inizio di un nuovo movimento. Come lo percepivate?
A:
Lavorare con la Speedy Wunderground è stato un momento di svolta perché prima di allora facevamo cose con etichette molto piccole o pubblicavamo i brani da soli e le mettevamo semplicemente online. Quindi l’opportunità di collaborare con Dan è stata fondamentale. In quel periodo era impossibile sapere esattamente come sarebbe andata la nostra carriera. A posteriori, di sicuro, posso affermare che è stato uno dei momenti chiave in cui le cose sono decollate.

O: Pensare che siano passati sei anni dalla prima canzone che abbiamo pubblicato per la Speedy è piuttosto eccitante. Tutto quel periodo della nostra carriera mi fa pensare che forse un giorno, quando avremo tipo 50 anni o qualcosa del genere, ci sarà una piccola retrospettiva al riguardo o qualcosa del genere. Eh sì, ultimamente ne sento una certa nostalgia, perché è stato un momento che credo abbia lasciato un’impronta sul modo in cui la musica viene realizzata e pubblicata oggi.

Come vivete il rapporto con il successo, vi spaventa?
L:
Non ci fa paura tanto il concetto stesso di popolarità, ma siamo consapevoli del fatto che suonare in spettacoli più grandi ed essere più “famosi” ti impedisce di avere una sorta di connessione profonda e significativa con le persone. Ci piace molto suonare in posti con una capienza medio-piccola perché si riesce ad avere una vicinanza più forte, come avere una conversazione con la persona che possiede il locale e lo gestisce. Eh sì, credo che man mano che la popolarità aumenta, sia sempre più difficile mantenere quel senso di comunità locale. Allo stesso tempo però abbiamo una maggiore stabilità finanziaria, quindi è un po’ un’altalena con alti e bassi.

O: Non credo che faremo mai musica che ci lancerà nella sfera del pop, credo. L’idea è piuttosto spaventosa. Se penso a chi ha avuto un successo immediato, al fatto che ti cambia la vita all’improvviso e non puoi più tornare indietro, ho molta paura. Per fortuna non credo che ci succederà, quindi bene così.

Mi dite un libro o un film che vi ha particolarmente ispirato di recente?
L:
Mi è piaciuto molto I Saw the TV Glow che ho visto a Capodanno. Non mi capitava da un po’ di vedere un film durante il quale non avessi la più pallida di cosa sarebbe potuto accadere l’attimo successivo. Credo che sia una sensazione piuttosto rara e che ti spinge a pensare in modo molto ampio. L’ho provata solo con alcuni film di David Lynch.

O: Di recente ho visto un film iraniano intitolato My Favourite Cake (Il mio giardino persiano, 2024 n.d.r.) iraniano. È semplicemente fantastico. E anche dal punto di vista politico, credo sia un film importante. La coppia di registi (Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha n.d.r.) è finita in un mare di guai per averlo realizzato. Questo tipo di coraggio che si manifesta attraverso l’arte, credo sia davvero rilevante, soprattutto in questo momento storico.

A: Io scelgo un libro: The Ministry for the Future (Il ministero per il futuro, 2020 n.d.r.) di Kim Stanley Robinson. È un libro di fantascienza, ma è abbastanza radicato nella realtà. È una sorta di gioco su come il cambiamento climatico potrebbe influenzare la politica globale. Immagina l’esistenza una sorta di organizzazione governativa chiamata Ministero del Futuro, che in pratica ha la responsabilità di occuparsi delle generazioni future influenzando le decisioni politiche e sociali. Dà una sorta di visione realistica, speranzosa e disperata di come le persone potrebbero reagire al cambiamento climatico e credo che sia davvero bello.

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