Interviste

Siate potenti e gentili come St. Vincent

La vulcanica artista texana porterà presto dal vivo il suo ultimo album “All Born Screaming” anche in Italia: l’appuntamento è il 22 ottobre al Fabrique di Milano

Autore Federico Durante
  • Il5 Ottobre 2024
Siate potenti e gentili come St. Vincent

St. Vincent (fonte: ufficio stampa)

Il tempo a disposizione per l’intervista sarebbe terminato da qualche minuto, ma St. Vincent ha voglia di continuare a chiacchierare e – in un piacevole rovesciamento delle parti – inizia lei a farmi domande: «Tu suoni la chitarra?». Giro il computer per mostrarle una parete con chitarre e bassi. «Oh, shit! E chi sono i tuoi chitarristi preferiti?». Le rispondo che ho il volto di Jimi Hendrix tatuato su una spalla. «Guarda, stavo per dire anch’io Hendrix, ma mi sembrava scontato. Sai cosa? L’Hendrix che preferisco è quello delle parti ritmiche. Adoro i suoi assoli, ma ancora di più mi piacciono gli accompagnamenti di pezzi come…», e canticchia il riff di Wait Until Tomorrow.

Ecco, con St. Vincent è tutto spontaneità e immediatezza, le stesse che traspaiono dalle sue potenti esibizioni dal vivo. Perché – come vi raccontavamo l’anno scorso dal Primavera Sound – sul palco è una leonessa, la sua performance è ad alta intensità rock e tiene in pugno il pubblico dall’inizio alla fine pur conservando un garbo adorabile. Unite alle sue doti di performer quelle di interprete, strumentista, producer, songwriter (anche per mega-hit di altri artisti: per informazioni citofonare Taylor Swift) e avrete una delle artiste più “complete” del panorama attuale.

La buona notizia è che per vederla all’opera dal vivo l’attesa è breve: St. Vincent si esibirà al Fabrique di Milano martedì 22 ottobre (biglietti disponibili anche su Ticketmaster). Quella cattiva è che non vedrete l’ora che arrivi la prossima volta.

L’intervista a St. Vincent

Cominciamo dal tuo “nuovo nuovo album” in arrivo, ovvero Todos Nacen Gritando, la versione in spagnolo di All Born Screaming. Si tratta di una scelta piuttosto inusuale per un’artista anglofona: cosa ti ha spinto in quella direzione?

Nel corso della mia carriera ho avuto la fortuna di suonare in molti posti in giro per il mondo. Io vivo in California: il paese più vicino è il Messico, ed essendo cresciuta in Texas ho vissuto a contatto con la cultura messicana. Alcuni dei miei concerti più belli sono stati in paesi come Messico, Spagna, Argentina, Colombia… Parlo un pochino di spagnolo e ho voluto migliorare e diventare più fluente, come obiettivo personale.

Quello che mi ha colpito era vedere la gente cantare le mie canzoni in inglese – che non è la loro lingua madre – parola per parola. Così ho pensato di fare il percorso inverso e andargli incontro, ricantando il mio album in spagnolo.

È stato un bel processo di traduzione, perché non è che semplicemente metti il testo su Google Translate: ci sono tante parole la cui traduzione letterale ha una sfumatura di significato diversa, o espressioni che non avrebbero senso in spagnolo. Il mio migliore amico da trent’anni a questa parte è un messicano di Monterrey: mi ha aiutato lui con le traduzioni. Ed è stato uno sforzo imponente, perché non si trattava solo di ricantare un testo ma di rifare tutta la produzione vocale dell’album, che è tanta!

Come tutti sappiamo, la musica in lingua spagnola è sempre più importante a livello globale. C’è qualche artista ispanofono che apprezzi in particolare?

Assolutamente. Mi piacciono i Bomba Estéreo, Cuco, ma anche Karol G, Rosalía… Poi certo, in quel caso non si tratta di spagnolo ma di portoghese, ma ho un grande amore per la musica brasiliana e tutto il filone del tropicalismo.

intervista St. Vincent - concerto Milano 2024 - 2
St. Vincent (fonte: ufficio stampa)

Tornando all’album, c’è una certa dimensione oscura, ansiogena che dà forma alla maggior parte del disco, a partire da copertina e videoclip. Da dove viene questa cupezza?

Viene da dentro e da fuori di me. È una reazione naturale allo stare al mondo, che sa essere spesso un posto strano e caotico. Ma è anche un pozzo che ho dentro di me e da cui attingo. Anche se forse mi piacerebbe non averlo… semplicemente è lì, c’è sempre stato, da quando ho memoria. Ma la musica fa questo: prende il caos del mondo e lo trasforma in qualcosa che abbia un qualche senso, che si tratti di un album o di una canzone.

È il primo album che hai interamente prodotto tu stessa. Pensi che nei precedenti dischi non avessi sprigionato tutto il tuo potenziale da producer?

Ho co-prodotto tutti i miei altri dischi, quindi ho sempre avuto molta voce in capitolo sulla produzione, lavoro che mi appassiona. Ma questa volta sapevo che l’unico modo per dare forma ai suoni che avevo in testa era passare ore da sola in studio a girare manopole. Ed è quello che ho fatto. Da artista, c’è sempre qualcosa di nuovo in cui cimentarsi. La musica è infinita, non si è mai abbastanza bravi.

Ho voluto dire la mia in quanto producer, anche perché il suono ha un significato: c’è sempre una ragione per cui è modellato in un certo modo, niente è del tutto arbitrario. Se un pezzo suona claustrofobico, oppure arioso, oppure aggressivo è perché ciò ha un significato che poi si lega al senso generale della canzone.

A proposito, perché ci sono così poche donne producer, secondo te?

Nel disco ho lavorato con la mia amica Cate Le Bon, che è una fantastica producer. Comunque ce ne sono sempre di più. Ci sono diversi fattori da considerare. L’idea di chi sia il producer e cosa faccia è cambiata nel corso del tempo, come risultato dei cambiamenti (e dei limiti) dell’industria musicale.

Negli anni ’70, per esempio, c’erano il songwriter, l’artista, il sound engineer e il producer: figure molto diverse fra loro. Poi le limitazioni di budget, la cultura DIY e la maggiore accessibilità economica delle tecniche di registrazione hanno fatto sì che non fosse fondamentale fare dischi presso grossi studi. Oggi i produttori sono spesso anche songwriter per necessità, o viceversa i songwriter sono anche producer perché possono fare tutto nel loro piccolo home studio. Ma i producer sono anche un po’ sound engineer. Insomma, la stessa persona può avere “casacche” diverse.

I confini fra quelle varie figure professionali sono diventati molto sfumati e spesso coincidono nella stessa persona. E probabilmente molte artiste che in studio fanno cose che considereremmo produzione neanche poi reclamano i loro crediti da producer. Poi sulle competenze tecniche rimane una certa mentalità da gatekeeper, del tipo: “Oh, non potresti capire come funziona”. E invece sì, non è poi così difficile… Potrei insegnarti a usare Pro Tools (popolare software di registrazione, ndr) in un pomeriggio.

Per me la sfida della produzione è essere in grado di fare tutto. Nel fare questo disco sono passata dal cantare una parte vocale all’editarla all’aggiungerci sotto una parte di tastiera… Seguivo tutte queste cose contemporaneamente. Ma il mio cervello funziona così.

intervista St. Vincent - concerto Milano 2024 - 3 - foto di Ashley Osborn
St. Vincent (foto di Ashley Osborn)

In tema di produttrici eccellenti, nel disco c’è un pezzo dedicato alla compianta SOPHIE, Sweetest Fruit. Ti senti ispirata dal suo lavoro?

Certo. SOPHIE era incredibile. Le prime volte che l’ho ascoltata sono rimasta sbalordita dalla sua produzione e dalla sua capacità di creare suoni, spazi e texture stupendi utilizzando strumenti digitali. E di lei apprezzo il modo in cui si assumeva dei rischi, facendo una musica pazzesca. C’è una grande libertà nel suo lavoro. Comunque la canzone non parla tanto della sua morte quanto piuttosto del fatto che era un’artista fantastica, sempre alla ricerca di cose nuove.

Ultima domanda: in quanto chitarrista, chi sono i tuoi guitar heroes?

Django Reinhardt, Robert Fripp, Larry Carlton… Il mio assolo preferito di sempre è quello di Marc Ribot su Clap Hands di Tom Waits (dall’album Rain Dogs, ndr): ascoltalo, è perfetto.

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