Behind The Scene: dietro le quinte del K-pop con il direttore creativo di HYBE x Geffen Sungdeuk Son
Ha iniziato come ballerino per poi passare alla creazione di coreografie e concept per la band coreana più famosa del mondo. Con i BTS è cresciuto e ha raggiunto la vetta. Oggi è Executive Director e Creator della divisone americana della sua agenzia ed è impegnato nel primo progetto statunitense: le KATSEYE. Da lui ci siamo fatti raccontare aneddoti, segreti e progetti futuri
Dare vita a qualcosa di stupefacente e inedito: la filosofia che ha sempre guidato ogni creazione di Son Sungdeuk. Come quando ai Melon Music Awards del 2018, i BTS, durante IDOL, unirono la street dance alla danza tradizionale coreana in costume. Dietro quell’ennesima scelta dirompente c’era anche lui. Ballerino fin dalle scuole elementari, professionista alle superiori, coreografo e ora direttore artistico di HYBE America – oggi HYBE x Geffen, dopo l’unione con l’etichetta statunitense – Son è conosciuto da tutti per essere stato la mente di ogni performance di RM e soci. Li ha seguiti fin dal loro debutto, ogni volta spingendo l’asticella sempre più in alto: dai ballerini di Burning Up (Fire), fino all’esibizione ai Grammy Awards del 2022 con BUTTER, quando per la prima volta fu costretto a lavorare con i sette membri separatamente a causa del Covid.
Ora che i BTS sono in pausa, si è trasferito a Los Angeles per lavorare con le KATSEYE, la prima band statunitense di HYBE. Indagare il suo modo di lavorare e farsi raccontare la sua crescita professionale e quella di Big Hit Entertainent, è un modo alternativo per conoscere meglio una delle band più rilevanti della storia del K-pop e non solo. A giugno i sette si dovrebbero riunire dopo la fine del servizio militare e, forse, anche se durante la lunga chiacchierata su Zoom non si è sbottonato, Sungdeuk tornerà al loro fianco per lavorare a nuove idee.
L’intervista a Sungdeok Son
Nasci come ballerino, ma quando hai capito che ti piaceva stare dietro le quinte?
Non ricordo esattamente quale concerto fosse, forse il primo show dei BTS. In quel periodo ero sul palco con loro come ballerino, ma allo stesso tempo già collaboravo alla produzione e all’ideazione delle coreografie. Inizialmente ho tentato di portare avanti entrambe le cose, ma col tempo è diventato sempre più complicato. Così alla fine ho rinunciato alla danza per concentrarmi solo sulla direzione artistica. Sono diventato ufficialmente un coreografo nel momento in cui ho firmato anch’io con la Big Hit Entertainment.
Hai cominciato a lavorare con Big Hit quando era ancora un’etichetta molto piccola. Quanto era diversa rispetto a oggi?
Beh, la più grande differenza rispetto al presente erano sicuramente i soldi a disposizione. Lo staff con cui lavoravo ai progetti era molto ristretto e avevamo un sacco di responsabilità. Dove non arrivavano le risorse finanziarie però arrivava l’ambizione. Proprio quell’ambizione è il motivo per cui oggi siamo così grandi. Senza la Big Hit di allora, non ci sarebbe l’HYBE di oggi.
Oggi il tuo ruolo è quello di Executive Creator, in che cosa è cambiato il tuo lavoro?
In molti aspetti. Quando ero in Corea ero un performance director, quindi mi occupavo di tutto quello che accadeva sul palcoscenico, dalle coreografie fino allo stage design. Qui a Los Angeles, invece, da quando ho iniziato a lavorare con le KATSEYE, essendo direttore creativo supervisiono ogni tipo di contenuto. Il team di lavoro è anche molto più ampio, diverso e soprattutto globale. Un aspetto, quest’ultimo, fondamentale per il tipo di mercato in cui ci muoviamo.
Come sta andando con le KATSEYE?
La sensazione principale è che con questo nuovo progetto stiamo realizzando qualcosa che non si è mai visto prima d’ora nell’industria del K-pop. È un’esperienza totalmente nuova anche per me. Nonostante nella mia carriera io abbia lavorato non solo con artisti coreani, ma anche internazionali, con le KATSEYE è una sfida diversa da tutte le altre. Questo rende tutto molto più interessante e divertente. Prima con la selezione della band con Dream Academy, poi con il primo singolo DEBUT e, infine, con l’EP SIS abbiamo tentato di mostrare tutti i colori delle componenti del gruppo. Provengono da culture diverse e hanno background distinti. In particolare, abbiamo lasciato spazio alla loro vera natura, allo stesso tempo leggera e forte, che è anche il loro motto: soft and strong. Col tempo mostreranno sempre nuove sfaccettature, sia con la musica che con le esibizioni.
Come ti approcci al lavoro sulla coreografia?
La cosa più importante per me è partire dalla musica perché comunque sto lavorando a una coreografia che non sarò io a eseguire sul palco. Quindi è fondamentale tenere conto del sound, del genere e del testo per interpretare al meglio ciò che gli artisti vogliono comunicare ai fan con quella canzone. Poi devo anche considerare le caratteristiche di ogni singolo membro della band: se da un lato è fondamentale che tutti si muovano come un corpo unico, dall’altro è anche interessante mostrare le abilità di ogni componente. A volte è questione di trovare un equilibrio. Comprendere ciò che può essere eseguito in modo collettivo e quello che invece va realizzato in modo individuale. Qualche volta, quando sono a corto di ispirazione, disegno, faccio degli schizzi, o addirittura utilizzo dei sassi con cui immagino le diverse figure.
Hai iniziato a lavorare con i BTS fin dai primi giorni. Hai capito subito che sarebbero diventati così grandi?
No, nessuno in quel momento avrebbe mai potuto immaginare che avrebbero raggiunto un successo di tale portata. Neppure loro stessi e chi ha li ha scelti (Bang Si-Hyuk n.d.r.) poteva saperlo. Non sono partiti con l’idea che dovevano essere o diventare i migliori. La mentalità è sempre stata quella di crescere in modo graduale ponendosi degli obiettivi intermedi, cercando di coinvolgere sempre più persone e facendole sentire parte di qualcosa. Sono diventati grandi piano piano. Ogni album è stato è concepito con ambizione e con un sentimento contradditorio che oscillava costantemente tra la speranza e la disperazione. Per questo motivo non ricordo un momento specifico in cui ho pensato: “Cavolo, i BTS sono davvero forti!”.
Come sei riuscito a combinare i diversi generi di danza? Per esempio, j-hope proveniva dalla street dance, Jimin dall’hip hop, addirittura SUGA non voleva nemmeno ballare.
Io credo che nel K-pop non debba esistere un genere che differenzi in modo netto ogni membro della band. Tutti devono essere in grado di esprimersi e dare il meglio in qualsiasi contesto. Fin dal periodo in cui erano dei trainee, pur avendo formazioni differenti, ho cercato di fare in modo che tutti riuscissero a “digerire” più stili possibili. Li facevo esercitare con pezzi contemporanei, poi passavamo all’hip hop. Qualche volta su brani più movimentati, altre volte con musiche più emotive e tristi che richiedevano anche una forte componente interpretativa. Poi toccava anche a me mettermi al loro servizio. Per esempio, per mostrare le qualità di street dancer di j-hope, nei pezzi più rumorosi immaginavo delle sezioni apposta per lui. E così via, a seconda dei casi, per ciascun componente. Come dicevo prima, è una questione di equilibrio.
Nel corso degli anni quanto è aumentato il coinvolgimento della band nella creazione delle coreografie?
Nel K-pop, molto tempo fa, col fatto che erano circondati da professionisti, gli artisti si fidavano di chi gli stava intorno ed eseguivano ciò che veniva loro proposto. I BTS, col passare degli anni, grazie ai vari esperimenti, hanno iniziato a dire la loro. La stessa compagnia ha voluto e incentivato la loro partecipazione a qualsiasi aspetto creativo che li riguardasse. Discutevamo molto e, per me, era fondamentale per comprendere i loro pensieri e soprattutto per conoscere la reazione dei fan durante le loro esibizioni. Perché alla fine sono loro che salgono sul palco e li guardano negli occhi. Solo loro possono capire cosa funziona meglio. Anche la differenza generazionale è stata importante: quando guardavamo lo stesso video sul cellulare provavamo sensazioni diverse. I loro input mi erano utilissimi ed erano spesso geniali. Quando gli artisti partecipano in modo diretto alla creazione è tutto più genuino.
Il tuo primo lavoro con i BTS è stato il singolo di debutto No More Dream. I ragazzi la descrivono come una delle loro coreografie più difficili.
No More Dream è stata oggetto di un lunghissimo lavoro e di tante revisioni, dal momento che era il loro primo singolo. Ogni anno, il 13 giugno, il giorno dell’anniversario del loro debutto, è come se fosse il mio compleanno. Mi riguardo quel videoclip e ripenso a tutto l’impegno che ci abbiamo messo. Credo che valga lo stesso anche per i ragazzi. In realtà, a posteriori, non è stata la coreografia più complessa, negli anni successivi abbiamo realizzato performance molto più difficili. Credo che i componenti la percepiscano così perché è stata la prima. Passavamo dodici ore al giorno nella sala prove, praticamente vivevamo nello studio. Ogni cosa doveva essere perfetta, dalla posizione di un dito fino a un singolo sguardo.
Cosa ricordi di quella prima volta in tv?
All’inizio è stato scioccante. Nessuno li conosceva, neppure i broadcaster. I BTS dovevano cantare due brani, ma non avevano fan e il pubblico presente era lì per le band che si erano esibite prima di loro. Nessuno sembrava interessato. Per questo il mio obiettivo era stupirli e costringerli a chiedersi chi fossero quei sette ragazzi. Avevamo pensato a ogni fase dell’esibizione, costruendola in modo tale che ci fossero dei momenti in cui la folla doveva rimanere a bocca aperta.
Tra questi c’era anche il numero acrobatico di Jimin, (che sollevato da Jung Kook “passeggia” sulle spalle degli altri membri n.d.r.). In quel periodo, siccome la sala prove era troppo piccola, eravamo costretti a provare quella parte di notte in un parco giochi vicino alla sede della Big Hit. L’esordio in tv è un ricordo fantastico. Per questo quando mi chiedono quale sia la mia coreografia preferita rispondo sempre No More Dream.
Durante il tuo lavoro con i BTS, hai cambiato molte regole del gioco, una di queste con la coreografia di I NEED U. Per la prima volta nella storia K-pop, la danza iniziava con tutti i componenti a terra. Come è nata l’idea?
Quella coreografia era ispirata al simbolo di The Most Beautiful Moment in Life che era un fiore. Non si sa mai quando di preciso un fiore appassirà, per cui bisogna godersi i momenti felici. E questo era ciò che la band voleva trasmettere. Iniziare la danza così, con tutti i membri a terra, era perfetto per rappresentare quel messaggio e quel fiore.
Cosa hai imparato dagli artisti in tutti questi anni?
Le generazioni cambiano e ci sono molte cose che non posso comprendere a pieno quando entro in relazione con artisti di una diversa fascia d’età. Quindi, anche se studio per conto mio attraverso YouTube e quant’altro, sono davvero in grado di imparare in prima persona solo attraverso gli artisti. Sono cose che non posso sperimentare personalmente, quindi è utile creare insieme. Con le KATSEYE, per esempio, oltre a conoscere di più la Gen Z, ho imparato a rapportarmi con le differenze culturali molto marcate. Spero che questo continuo processo di apprendimento continui perché è fondamentale per dare vita a progetti belli, ma soprattutto autentici.
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