Il ritorno dei The Wombats, ovvero sentirsi “gente di Liverpool” davanti all’Oceano Pacifico
La band britannica, nota per la sua energia contagiosa e per essere stati tra i protagonisti della nuova onda indie a inizio millennio, tornano con un nuovo album che uscirà il giorno di San Valentino, “Oh! The Ocean”. Se vi piacciono le canzoni indie rock senza tanti fronzoli e dal piglio accattivante, il terzetto di Liverpool fa al caso vostro
Una ottima band che forse è caduta un po’ nel dimenticatoio dalle nostre parti. Allora facciamo un po’ di storia: formatisi nel 2003 a Liverpool, i Wombats sono Matthew Murphy (voce, chitarra, tastiera), Tord Øverland Knudsen (basso, cori) e Dan Haggis (batteria, cori) e hanno raggiunto la notorietà a metà degli anni 2000 con il loro album di debutto, A Guide to Love, Loss & Desperation (2007) che includeva singoli di successo come Let’s Dance to Joy Division e Kill the Director. Ancora oggi selezionati da chi fa playlist legate alla musica indie dei primi anni 2000.
Una bella caratteristica della band di Liverpool è la combinazione tra melodie accattivanti con testi intelligenti e spesso ironici, che esplorano volentieri temi legati alle relazioni, all’imbarazzo sociale e alla vita moderna. Verrebbe da dire modern life is rubbish, citando i connazionali Blur. Nel corso degli anni, i Wombats hanno evoluto il loro sound, integrando elementi di synth-pop ed elettronica, mantenendo però il loro stile caratteristico fatto di umorismo ed energia. Album come This Modern Glitch (2011) e Beautiful People Will Ruin Your Life (2018) hanno messo in evidenza la loro versatilità e capacità di rimanere rilevanti in un panorama musicale in continua evoluzione.
Conosciuti per le loro performance dal vivo dinamiche, i Wombats hanno costruito una solida base di fan in tutto il mondo. La loro capacità di fondere temi introspettivi con ritmi vivaci e ballabili li ha resi un pilastro della scena indie rock. Abbiamo intervistato il cantante Matthew Murphy, alla vigilia del loro sesto disco intitolato Oh! The Ocean che uscirà per la loro etichetta che si chiama come loro e che vede alla produzione John Congleton (uno bravo, che ha lavorato spesso con St. Vincent e con The Murder Capital).
L’intervista a Matthew Murphy
Cosa vuol dire per un britannico stare in USA e com’è essere musicisti che vivono in tre posti diversi?
Beh, ci sono un bel po’ di britannici a Los Angeles, è crogiolo di persone che non sono nate lì. Comunque del posto mi piace lo spazio. Non riesco proprio a immaginarmi vivere fuori dalla California ora. Se far funzionare la band significa che devo prendere qualche volo in più del normale è ok, quindi poco importa.
Hai dichiarato che i vostri due album precedenti affrontavano l’essere intrappolato in un vortice da cui ora sei fuori.
Sì, credo di sì. Mi sento come se fossi in un posto in cui posso guardare indietro a quel periodo e in un certo senso pensarci e scriverne in modo obiettivo. Ora mi sento come se fossi più stabile. Il che è bello per me e sta funzionando perché mi piace molto questo album e non tutti gli album che faccio mi piacciono.
Il sound del nuovo album è molto sofisticato. Ascoltando, a tratti, mi sono venuti in mente i Tame Impala.
Ci sono alcune canzoni in cui il basso Hofner (lo storico basso utilizzato da Paul McCartney ai tempi dei primi The Beatles, ndr) che dà questo feeling. Non ci siamo prefissati di suonare un po’ alla Tame Impala. È solo che quello che ha fatto il loro leader Kevin Parker in questi anni si è davvero infiltrato in ciò che resta della musica per chitarra. Poi abbiamo avuto un nuovo produttore, John Congleton, per questo album e tutto ha funzionato molto bene. In giro nel pop c’è troppa gente che usa l’intelligenza artificiale. Noi abbiamo preferito fare qualche errore registrando, ma rimanere noi stessi.
Il nuovo singolo Sorry I’m Late, I Didn’t Want To Come è una canzone sull’ansia sociale?
Esatto, parla di quanto sia terribile incontrare tante persone. È davvero una canzone su tutte le cose che mi passano per la testa quando non mi sento a mio agio e sto quasi cercando di essere qualcuno che non sono. Questo, tra l’altro, penso che sia un problema molto britannico (ride, ndr)!
So che il titolo dell’album Oh! The Ocean è ispirato a un’esperienza rivelatrice da te vissuta su una spiaggia a Orange County.
Sì. Avevo avuto un paio di giorni un po’ stressanti, e siamo usciti con mia moglie e i miei figli per questa vacanza al mare. Ero lì in piedi, non avevo dormito la notte prima, e stavo fissando l’oceano. Sembrava la prima volta che lo vedevo. Era come una specie di folle visione tipo un viaggio con i funghi o qualcosa del genere. Quindi alla fine sembrava il titolo giusto per l’album.
Come dicevi il disco è prodotto da John Congleton. Com’è andata con lui e com’è stato lasciare Mark Crew con cui avete collaborato a lungo.
Sì, è stato difficile non lavorare con Mark. Mi sento ancora un po’ in colpa perché è uno dei miei migliori amici e lo adoriamo. Ma sentivo che era più rischioso fare la stessa cosa di nuovo piuttosto che provare qualcosa di diverso. E poi Dan e Todd avevano già lavorato con John, aveva mixato un loro album. Sono andato a incontrarlo e ci siamo trovati molto bene. È stato un po’ diverso lavorare con qualcun altro perché ho lavorato con Mark per gli ultimi tre dischi dei The Wombats e per due dei miei album da solista. Ma John è stato fantastico, una persona completamente diversa. Abbiamo fatto tutto in sei settimane a Los Angeles. E penso che sia stato, tipo, l’album più genuino che abbiamo mai registrato.
Sembra che una volta in studio abbiate detto a John: «Immagina di guardare i Pulp suonare Common People a Glastonbury: questo è il divertimento che vogliamo».
C’era una canzone dell’album che abbiamo registrato tre volte e cercavo di spiegare cosa volevo ricreare. Una sensazione di amicizia e di frenesia alla Glastonbury Festival.
C’è una connessione tra i tuoi lavori solisti con i Love Fame Tragedy e il nuovo album?
Penso che dal punto di vista dei testi sono sempre io. Il secondo album dei Love, Fame, Tragedy parla davvero degli ultimi anni in cui ho bevuto tanto e mi sono comportato come un matto. Oggi ripenso a quel periodo con un po’ più di comprensione.
Sangue e glamour: una canzone s’intitola Kate Moss e poi ne compare una dal titolo Blood on the Hospital Floor. Hai giocato un po’ con i titoli!
Per me i titoli sono importanti. Se la canzone ha un titolo emozionante che mi piace, allora posso gestire tutte le cose che la canzone mi lancia addosso perché è molto raro che una canzone non ti presenti in qualche modo dei problemi o delle difficoltà che devi affrontare. E per affrontarli, ho bisogno di credere nel messaggio della canzone.
Can’t Say No parla anche di una tua visita sulla tomba di Jim Morrison a Parigi.
Stavo solo pensando a posti assurdi in cui farsi fotografare e un cimitero è uno di quelli. Io e Tord, comunque siamo stati effettivamente sulla la tomba di Jim Morrison.
Da quindicenne camminavi per le strade di Liverpool, ascoltando i Radiohead. Molti considerano Let’s Dance to Joy Division la vostra signature tune. Anni addietro ho intervistato Thom Yorke dei Radiohead e lui odiava parlare di Creep…
Non è un pezzo che odio! Ne sono molto orgoglioso e mi piace ancora suonarlo dal vivo. Mentre noi prosperiamo di più per la sensazione dell’intera sala. È la canzone migliore che abbia mai scritto? Non credo. Mi rappresenta davvero come artista? Probabilmente no, ma è come se non fosse sotto il mio controllo e sono semplicemente felice che la gente si diverta ancora ad ascoltarla.
Tu ormai vivi in California. Ma c’è qualcosa di Liverpool nel nuovo album?
Sì, cioè credo di sì. Di sicuro non mi sembra Los Angeles. È come se Liverpool fosse così incastonata nei Wombats. Avremmo avuto titoli umoristici o canzoni umoristiche o testi umoristici se fossimo stati di qualsiasi altro posto? Non lo so. Questa è una cosa che mi manca molto di Liverpool.
Liverpool ha una storia musicale gloriosa, penso ai Beatles e al Mersey beat. Ma essendo nati come band indie quanto ha inciso la storia underground locale su di te: penso a band come Echo & the Bunnymen, Teardrop Explodes, The Coral, La’s, Pale Fountains…
Penso che qualche band locale ci abbia ispirato. Ovviamente poi i Beatles sono sempre i Beatles. Anche se a volte non ci siamo mai sentiti così legati a Liverpoo nel sound, visto che ci piacevano i Weezer e gli Smashing Pumpkins. Localmente ci conoscevamo tutti ma noi siamo sempre stati una specie di strana band periferica. Cii si aiutava comunque a vicenda. Ricordo che una volta Noel Gallagher disse che quando si trasferì a Liverpool per registrare, trovò lì un sacco di amici. A Manchester c’era più competizione.
Liverpool era più come una famiglia, forse?
Certo. È quasi come se Manchester ci fosse una specie di scena musicale “capitalista” mentre Liverpool era più “socialista”. È un modo davvero sfacciato di dirlo, ma era così in effetti.
Ti aspettavi quel successo che avete avuto agli esordi?
Ero molto scioccato che la gente pagasse davvero per i musicisti. Ricordo, tipo, il primo assegno che abbiamo ricevuto e pensavo: “Allora è vero”. E quindi non mi aspettavo il successo. Ma poi quando è accaduto, è stato un po’ come una valanga. Poi ci sono picchi e avvallamenti. È stato solo una lenta crescita, il che mi è piaciuto.
Curiosità, ma perché il primo album dei Wombats uscì solo in Giappone?
Già! Un’etichetta chiamata Vinyl Junkie ci aveva contattato su MySpace e ci dissse: “Vi pagheremo per fare un album!”. Avevamo dei pezzi pronti e glieli abbiamo dati. La cosa esilarante è stata che un buon 50% delle canzoni su quell’album giapponese sono poi finite sul nostro primo album inglese!
Com’è stato lasciare una major e tra l’altro avere ancora più successo. E come te lo spieghi questo successo americano?
Sì, sono rimasto piuttosto sconvolto dopo aver lasciato la Warner. Ma ho solo cercato di non pensare a tutto e di lavorare il più duramente possibile finché il quarto album non è stato pronto. E poi mi sono sentito re-energizzato. Quasi come se fosse di nuovo il primo album. Sì, è stato molto emozionante. Poi anche la Warner ha ammesso che è stata una decisione stupida da parte loro. Questo mi ha fatto sentire abbastanza bene. E mi ha fatto capire la verità sull’industria musicale, ovvero che nessuno ha la minima idea di cosa stia facendo. Stiamo tutti improvvisando.
Negli anni le case discografiche hanno reso marginale e sempre più nostalgico e commerciale il mondo della musica indie. Forse tu sei uno dei pochi che ha cercato di uscire dal cul de sac delle chitarre anni 2000 in modo onesto. Come vedi la situazione attuale?
Beh, non lo so davvero. La situazione attuale è un po’ più grande delle chitarre e della musica indie per me. È come quello che sta succedendo con la musica in generale. Ma non lo so, è un po’ fuori dal nostro controllo e noi siamo un po’ tre individui pazzi, quindi. Non vedo niente che ci fermi per un po’. E non lo so, ho la sensazione che la musica alternativa sia un po’ più grande quanto pensiamo. Tutte queste cose vanno e vengono e cambiano nel tempo e forse la musica per chitarra tornerà, spero.
La tua band indie del momento?
Mi piacciono molto le Last Dinner Party. Non ho molto tempo per ascoltare musica soprattutto da quando ho avuto figli. Apprezzo, comunque, anche gli australiani Jungle Giants e gli IDLES.
Ti fa piacere questa reunion degli Oasis?
Penso che sia una cosa buona. Di certo non farà alcun danno alla musica chitarristica. Sarà emozionante per il pubblico britannico e in un certo senso forse un’opportunità per tutti di stare insieme.
Vi vedremo in Italia?
Le date del tour europeo saranno annunciate al più presto e l’Italia non può mancare.
Articolo di Claudio Villa