Vinicio Capossela: «Siamo tutti come nella nave del Moby Dick, pronti alla catastrofe»
Il suo nuovo album natalizio “Sciusten Feste N.1965” è un omaggio «all’anima della festa, ai trambusti, agli abbracci, alle lacrime, alle redenzioni, alle rivoluzioni, alle ribellioni». un disco che ti fa pensare a tante altre cose, venute fuori in questa intima conversazione tra un pan dei morti e una tazza di tè
Stiamo per descrivere la storia di un album divertente e piacevolissimo, colmo di riscritture, rivisitazioni e interpretazioni di standard per le feste (e qualche composizione originale) che Vinicio Capossela teneva nel cassetto da lungo tempo. Addirittura dal disco Canzoni a Manovella, era il 2000. E se ci pensate bene, Sciusten Feste N.1965 – registrato lungo un lasso di tempo lunghissimo tra il ‘20 e il ‘21 insieme alla storica band del cantautore – è anche un po’ la quintessenza di Capossela, perché lui da sempre ama le feste. Il cantautore è infatti affezionato ai suoi incredibili eventi organizzati nel cuore della provincia avellinese. Lo Sponz Fest, o quei tradizionali appuntamenti, iniziati nel 1999, al Fuori Orario, storico locale affacciato ai binari della ferrovia a Taneto di Gattatico (RE), che sono alla fine l’ossatura principale di questo nuovo album.
Da allora, Vinicio ha continuato ogni dicembre a dare vita a concerti che hanno glorificato la festa e l’hanno realizzata. Una ritualità suggellata anche dalla recente uscita del film documentario Natale Fuori Orario, costruito sulle riprese effettuate da Gianfranco Firriolo, con la fotografia del sempre grande Luca Bigazzi.
In partenza il tour italiano e alcune tappe europee
E dopo l’uscita del nuovo album Vinicio Capossela non ha perso tempo presentando in Italia e in Europa il tour Conciati per le feste, cominciato già questo sabato con l’anteprima al Teatro Splendor ad Aosta. La tournée continuerà tutto il mese di novembre e dicembre con anche alcune tappe europee da Bruxelles, a Zurigo (questa nel prossimo febbraio 2025), passando anche a Londra, Barcellona, Madrid, Berlino e Karlsruhe.
L’intervista a Vinicio Capossela
Aspettavo da tempo un disco così da te. Dunque viva le feste perché ci regalano un irresistibile Vinicio Capossela.
(Sorride, ndr) “Mai sottovalutare il potere delle feste!”. Questa frase la “rubo” da una dichiarazione di Malcolm McLaren, colui che scoprì i Sex Pistols. Grazie!
E soprattutto questo non è solo un “disco per la festa”, ma penso che sia anche una festa della musica, perché la musica è giocosità, immaginazione e partecipazione.
Ed è proprio così, questo disco è una festa. Ha preso forma lungo tanti anni di concerti al Fuori Orario e suonare la maggior parte di questi brani è proprio sempre stata una festa. Un’occasione di partecipazione collettiva che partiva da noi musici sul palco e si irradiava sul pubblico davanti a noi. Questo è il mio primo disco fatto con una band, I Veterani del Natale. Ci siamo ritrovati ogni anno a celebrare le feste natalizie, anche quando c’era poco da festeggiare, come durante il Covid. Anno 2020.
C’è una scena del tuo film Natale Fuori Orario dove tu dici, guardandoti allo specchio tutto incanutito, perché lo ambienti in alcuni momenti in un ipotetico futuro, prossimo a una apocalisse: «Quasi, quasi era meglio quando abbiamo fatto festa nel 2020 in pieno lockdown, almeno allora c’era qualcuno dall’altra parte che ti guardava, anche se a distanza». Oggi viviamo in un tempo di semi apocalisse, oppure no?
(Lunghissima pausa, ndr) I segnali che siamo su quella via sono evidenti. Ci si sente un po’ come la ciurma sul Pequod – per citare il vascello del Moby Dick di Herman Melville – siamo in balia di un comandante o vari comandanti che hanno dei privatissimi interessi. Ci si è così abituati ad obbedire… Ricordo un passo magistrale del Moby Dick, a un certo punto, il primo ufficiale Starbuck punta un moschetto verso il comandante Achab, sa che se sparasse, lo ucciderebbe e salverebbe la nave. Eppure prevale il senso del dovere, della gerarchia e dell’obbedienza. Ed è quello che anche noi stiamo facendo davanti a certe catastrofi alle quali assistiamo.
Tornando ai tuoi rutilanti concerti al Fuori Orario, perché tutto è poi partito da lì per questo album, mi fai venire in mente una cosa altrettanto catastrofica e che riguarda chi fa musica. La sempre più penuria di locali dove suonare.
Questa è una cosa ributtante perché, ricordando i tempi quando ero ragazzino io, i centri storici erano spesso deserti di sera tranne qualche ristorante. Ora nell’epoca dell’over tourism, i centri delle città traboccano di luoghi dove mangiare e non c’è l’ombra di un luogo dove fare cultura e dove suonare! È una condizione dolorosa per me e immagino lo sia ancor di più per chi deve farsi le ossa, suonando davanti a un pubblico. Anche i locali piccoli sono importanti, sono delle autentiche palestre per chiunque voglia crescere nel nostro ambito.
Il titolo Sciusten Feste n.1965 – che hai preso da un’annotazione lontana nel tempo di tuo padre Vito, è una “storpiatura” del sostantivo tedesco “schutzen” che è anche la radice del verbo proteggere. Sto pensando che oltre a voler proteggere le santissime feste, tu voglia anche proteggere la sacralità del fare musica assieme. Prima mi dicevi del fatto che questo album è frutto di un lavoro costruito con una band. E in questo frangente i giorni di festa non li passi con la famiglia di sangue, ma di arte.
Giustissimo, anzi prendo io nota di questa cosa. Che poi la festa a cui faceva riferimento mio padre e che dà anche al titolo alla canzone omonima – una sorta di omaggio ai Pogues – era una roba estiva dove si beve un sacco di birra, ci sono giostre e luna park. E si mangiano tanti, tantissimi wurstel. Anzi ti cito un l’immorale verso di una canzone di quelle feste: “Alles hat ein Ende, nur die Wurst hat zwei!” Ovvero: tutto ha una fine ragazzi, solo il wurstel ne ha due (ride, ndr)!”.
Adoravo i Pogues. Li vidi nel 1988 insieme a Stevie Ray Vaughan e i Los Lobos. Erano talmente veloci nel suonare, che solo certe band hardcore potevano starci dietro. E poi c’era quel matto scatenato di Shane MacGowan. Un anno prima nel 1987 avevano fatto uscire una delle più canzoni natalizie di sempre: Fairytale Of New York.
Li ho visti anch’io più volte e mi trovai anche davanti a Shane una volta, devo ammettere che non biascicava neanche una parola, era tutto un rumore gutturale (ride, ndr). Salvo poi salire sul palco e trasformarsi in un grandissimo cantante! Incredibile, mai visto una cosa simile!
A proposito di Los Lobos, nel disco c’è una tua versione della disneyana I Wanna Be Like You, che la band messicana coverizzò magnificamente per un album prezioso Stay Awake – omaggio alle musiche dei film d’animazione della Disney – e prodotto dal grande Hal Willner.
Vero! Io ho adorato soprattutto quel disco omaggio a Kurt Weill, dove c’è un grandissimo Tom Waits e un altrettanto gigantesca Marianne Faithfull che canta The Ballad of Soldier’s Wife.
Io ho un debole per Il Friscaletto (Eh Cumpari) classico dell’Italia del Sud anni ‘50, emigrata negli Stati Uniti e finita anche nel film Il padrino. Era la canzone che mettevo per ultima quando facevo il DJ negli anni ‘90 ai Magazzini Generali. E partiva un pandemonio.
Se ci pensi è il brano perfetto per presentare tutti i componenti della mia band, da Alessandro “Asso” Fontana ad Achille Succi. La nostra “orchestrona” nominando gli strumenti con tutti i nomi virati al femminile!
Proponi addirittura la Danza della Fata Confetto da Lo Schiaccianoci di Čajkovskij!
Mi aveva affascinato una versione suonata da Duke Ellington, una sorta di swing meraviglioso. Poi ho pensato di trasformarla leggermente in una sorta di colonna sonora perfetta per alcuni film di Tim Burton usando il theremin e la chitarra elettrica.
Prima che tu iniziassi a parlare con me stavi dicendo al telefono a un altro giornalista che questo è anche un disco swing… interessante è un tipo di ballo da festa e soprattutto da contatto. Evviva i balli a contatto!
C’è bisogno di strusciarsi addosso, di ballare fianco a fianco, mano nella mano, soprattutto durante una festa.
E sorpresa finale, dopo l’ultimo brano, aspettando pochi secondi dopo il silenzio parte una gustosa breve ghost track con Ornella Vanoni che canta a cappella!
Ah, ma dici una cosa che gli ascoltatori dovrebbero scoprire da soli…
Ma è un guest pazzesco!
Sì, canta questo testo molto malinconico (canta, ndr): “Coriandoli questo è il tempo che mi dai/mi butti a terra e te ne vai/coriandoli”. È un piccolo verso che da un sacco di tempo mi ronzava in testa. Pensavo che a svilupparlo potesse sembrare perfetta per una canzone del repertorio classico della Vanoni. Alla fine gliel’ho chiesto e lo ha cantato davvero. I coriandoli sono un accessorio fondamentale per gli spettacoli durante le feste. Tutte le mie valigie erano sempre piene di coriandoli. Sembra che abbiano una vita breve, ma in realtà te li ritrovi appicciati nei posti più imprevedibili per anni (ride, ndr). E poi i resti di coriandoli sono una prova che lì c’è stata una festa…
Presto partì in tour e ti vedremo anche qui alle porte di Milano al Carroponte, in un luogo particolare chiamato “Chapiteau delle meraviglie”
Sì, porto la festa in giro prima che arrivino le santissime feste. Sarà in questa struttura che è praticamente un circo.
Chiudiamo quest’intervista con la tua versione rockeggiante di un altro super classico: Bianco Natale.
Sì, sono d’accordo, anche perché tutti i bambini aspettano la neve, e chi la vede più. Ci manca questa situazione meteorologica bellissima, dove tutto è candido, il tempo sembra fermarsi e quando nevicava tanto anche le macchine. Tutto era pura magia per loro ma anche per noi più grandi.