I Wolf Alice ripartono dagli accordi di pianoforte e viaggiano negli anni ’70: l’intervista
Abbiamo incontrato la band londinese per farci raccontare la genesi del loro quarto album, “The Clearing” in uscita questo venerdì

Foto di Rachel Fleminger Hudson
Negli ultimi tempi sui social mi è comparso un video con protagonista un ragazzo che va in giro per i quartieri non centrali di Londra e chiede ai residenti se ci sia qualcosa di interessante e divertente da fare in zona. Il video in questione era ambientato a Tottenham e lo sguardo stupito degli intervistati faceva già prevedere la risposta successiva. Seven Sisters, luogo di nascita dei Wolf Alice, si trova poco più a sud e rappresenta uno dei baluardi che divide il centro di Londra dal nord. Il punto in cui la metro sotterranea che parte dalla city lascia spazio all’overground. Ellie Roswell, Joff Oddie, Theo Ellis e Joel Amey per scrivere il loro quarto disco, il primo in major, hanno scelto di tornare a lavorare come ai vecchi tempi. In quattro in una stanza londinese talmente stretta che non ci entrano gli strumenti.
The Clearing, in uscita venerdì 22 agosto, però non ha il suono ruvido che vi aspettereste: il lavoro di produzione svolto a Los Angeles con Greg Kurstin (Liam Gallagher, Foo Fighters, Adele) l’ha portato ancora più vicino all’idea iniziale del gruppo di scrivere un disco dall’anima seventies. Eppure, il contesto inziale e quello successivo hanno reso questo disco un anello di congiunzione tra passato e presente. Bloom Baby Bloom è solo un leggero assaggio. Un brano come Leaning Against the Wall, quando l’ascolterete, vi stupirà per il modo di coniugare le atmosfere rarefatte di Blue Weekend con i nuovi suoni.
Quando ho incontrato i Wolf Alice per l’intervista avevo ancora in mente le sensazioni provate la sera prima nello show all’Apollo di Milano, una delle tante date semi-segrete annunciate qualche giorno prima in luoghi dalla capienza molto ridotta. Un modo per ritrovare il feeling con il pubblico, riprovare le emozioni di suonare nei piccoli club e per provare dal vivo due pezzi nuovi che i fan italiani avranno l’occasione di ascoltare all’Alcatraz, sempre a Milano, il prossimo 13 novembre. I quattro erano entusiasti della risposta del pubblico, considerando anche alcuni dei nuovi arrangiamenti e la presenza preponderante della tastiera negli inediti. Siamo partiti proprio da lì per la nostra chiacchierata.
L’intervista ai Wolf Alice
Il pianoforte credo sia uno degli elementi principali di The Clearing. In che modo partire dalla tastiera ha influenzato il vostro modo di scrivere?
Ellie Roswell: Difficile dirlo con precisione. Ho notato che semplicemente imparando le canzoni degli altri al piano scoprivo nuovi accordi. Con la chitarra, invece, almeno per me, è sempre stato più complicato, anche perché spesso devi anche posizionarti bene con la mano. Sai, quando non sei un pianista professionista o comunque non sei così sicuro di te, premi il pedale del riverbero e qualsiasi cosa suoni sembra fantastica. Questa immediatezza e queste buone sensazioni mi hanno stimolato molto, soprattutto dopo aver scritto The Last Man on Earth (brano del precedente disco Blue Weekend, n.d.r.). Mi sono detta: “Ok, vediamo quanti altri accordi riesco a trovare”. È bello iniziare a scrivere un brano in questo modo.
Fin dalla prima traccia Thorns, si nota questa centralità degli accordi. Ho letto che un’ispirazione sono stati i Beatles e il documentario di Peter Jackson Get Back.
E: Sì, credo che sia stata un’influenza subconscia. Loro sono tra gli artisti ai quali mi riferivo prima quando parlavo di imparare canzoni al pianoforte e scoprire nuovi accordi. Ecco, i Beatles per esempio utilizzano tanto i “tasti neri”, ci sono un sacco di Si bemolle (ride, n.d.r.). E anche Thorns ha tanti Si bemolle. Però è stato tutto inconscio, non mi sono mai posta l’obiettivo di scrivere una canzone che fosse beatlesiana. È solo che il pianoforte di Paul McCartney è una grande fonte di ispirazione al pari delle loro innumerevoli canzoni d’amore che mi rendono più tranquilla.
In che modo?
E: I Beatles hanno scritto una miriade di canzoni d’amore, ma nessuno ha mai messo in dubbio la loro abilità di cantautori per questo motivo. Di conseguenza non mi pongo più il problema di scriverne troppe.
Presentando Bloom Baby Bloom hai detto di esserti voluta concentrare più sul canto, abbandonando gli strumenti. In passato ti faceva sentire sotto pressione il dover suonare uno strumento per dimostrare quanto valessi?
E: Sì, probabilmente era così. Credo che, come artista donna, a volte era come se la chitarra mi facesse sembrare più seria come autrice o musicista. Era uno scudo e un modo per ottenere credito. È una cosa ridicola e nessuno dovrebbe mai sentirsi così. Nella scaletta dell’ultimo tour avevamo alcune canzoni in cui cantavo e basta. Era molto divertente e stimolante. Alla fine, anche la voce è uno strumento. Scrivendo i nuovi brani volevo avere ancora più opportunità di farlo.
Prima di registrare il disco a Los Angeles avete lavorato ai nuovi brani come ai vecchi tempi: tutti insieme nella stessa stanza. Com’è stato recuperare questo modus operandi?
E: È stato molto divertente, la stanza era davvero molto piccola. Talmente piccola che non riuscivamo a farci entrare tutta la nostra strumentazione. Siamo finiti col sederci su delle sedie con la chitarra con davanti un grande foglio di carta sul quale annotavamo accordi, cambi e tutto il necessario. Mi ha ricordato i tempi della scuola.
Joff Oddie: È stato come ritrovarsi al club del flauto dolce (ride, n.d.r.)
Quanto ha influito sul vostro approccio invece lavorare con Greg Kurstin negli Stati Uniti?
Joff: Siamo arrivati a Los Angeles che avevamo già scritto quasi tutte le canzoni del disco, credo che ne mancassero al massimo una o due. Quindi con le idee ben chiare in testa della direzione che volevamo intraprendere. E una delle cose in cui Greg è probabilmente il migliore è nell’essere un facilitatore e riuscire a portarti nel luogo in cui vuoi arrivare. È incredibilmente talentuoso, un grande musicista, il suo studio è fornitissimo, ed è anche molto generoso. Per esempio, desideravamo avere un suono della batteria più analogico e lui ha comprato un registratore a nastro e un vecchio kit. Anche se il suo carattere può sembrare un po’ intimidatorio all’inizio, ti supporta in modo costante e ti spinge a dare il meglio di te.
Joel Amey: Greg è stato fondamentale anche nell’aiutarci a rimanere in carreggiata e a finire il disco senza prendere una tangente diversa dal punto di vista sonoro.
Questa direzione ben precisa a livello di sound della quale parlate, molto seventies, l’avete compresa durante la scrittura o era un’idea che avevate fin dal principio?
Joel Amey: Per questo album, più di ogni altro, credo che avessimo un’idea ben definita in testa di dove volevamo dirigerci fin dall’inizio. Molte delle nostre decisioni creative in quella stretta sala di scrittura erano basate su delle limitazioni autoimposte nel tentativo di adottare una mentalità simile a quella che esisteva negli anni ’70 e ’60. Come il fatto di non avere sintetizzatori, Logic, plugin e tecnologie simili. Fissarci questi paletti ci ha permesso di concentrarci completamente sulle strutture, sulle melodie e sui cambi di accordi in modo tale che fossero al momento giusto. Non che non l’avessimo fatto nei dischi precedenti, ma in questo caso era veramente la cosa più importante.
Quando è uscito Blue Weekend avevate parlato di voler scrivere testi più diretti. Credo che anche in The Clearing questa non ambiguità sia centrale. Mi viene in mente Play It Out: toccante ma anche sociale o addirittura politica, specialmente quando parli della maternità.
E: Quella canzone è nata dalle conversazioni che ho avuto negli ultimi tempi con le mie amiche. Abbiamo tutte più o meno trent’anni e non ci era mai capitato prima di parlare di maternità. Che poi è solo uno degli aspetti che volevo affrontare. In questo disco esploriamo molto il tema della famiglia e di cosa significhi averne una. Ricorre spesso anche in White Horses e Midnight Song. Credo che rappresenti un’evoluzione della band.
White Horses è la mia canzone preferita. Mi è piaciuto molto l’alternarsi della voce di Ellie nel ritornello con quella di Joel nelle strofe.
Joel: È nata da una vecchio demo che avevo e sul quale stavo lavorando da tempo, immaginandomi le chitarre, l’ingresso degli strumenti acustici e anche quel beat krautrock che subentra a metà. L’ho fatta ascoltare agli altri e con l’inserimento della voce di Ellie ha raggiunto la prima forma. Ovviamente quando l’abbiamo sottoposta al giudizio di Greg c’è stata un’altra delle sue genialate, ovvero far passare il suono della mia batteria attraverso un vocoder. All’inizio non ero contentissimo, ma poi l’eccitazione di programmare e adottare queste soluzioni fisiche a livello produttivo ha preso il sopravvento.
Quest’anno compie dieci anni il vostro disco di debutto My Love is Cool. Cosa ricordate di quei momenti?
Theo Ellis: L’impazienza che avevamo nel voler pubblicare un album. Jamie (Oborne, fondatore di Dirty Hit, n.d.r.) invece ci faceva rilasciare degli EP. Ricordo quel pizzico di delusione quando gli facemmo ascoltare Creature Songs e scoprimmo che sarebbe diventato il nostro terzo EP (ride, n.d.r.). Però quando alla fine l’intero viaggio è stato fantastico. L’abbiamo realizzato in sei settimane, mangiando cibo surgelato e non avevamo la minima idea dell’impatto che avrebbe avuto sul pubblico e sulla nostra carriera. Andando in tour dopo l’uscita abbiamo iniziato a rendercene conto.
In quel primo disco, in Freazy, rispondevate con rabbia e ironia a chi vi accusava di essere troppo poco pop. Oggi, cosa rispondete a chi probabilmente, ascoltando The Clearing, vi dirà che è troppo poco rock rispetto al passato?
T: (ride, n.d.r.) Non siamo abbastanza rock? Beh, pace. Va bene lo stesso per noi. Se non ti piace, ascolta altro.
Joff: Se vuoi qualcosa di più rock ascolta i Metallica (ride, n.d.r.).