Yombe: anima partenopea, gusto nordeuropeo – L’intervista
Beat minimalisti e raffinati per parti vocali sensuali nei testi e nelle melodie: è la ricetta “made in Naples” di Alfredo e Cyen, che con il progetto Yombe hanno attirato l’attenzione del mondo electro nostrano e internazionale
Beat minimalisti e raffinati per parti vocali sensuali nei testi e nelle melodie: è la ricetta “made in Naples” di Alfredo e Cyen – coppia nella musica e nella vita – che con il progetto Yombe hanno attirato l’attenzione del mondo electro nostrano e internazionale: per esempio sono stati ospiti alla prestigiosa Boiler Room. Dopo la prima prova discografica con l’extended playing del 2016 – intitolato semplicemente EP – a novembre è uscito il loro primo album, GOOOD.
Come nasce il nome Yombe e quale significato ha per voi?
[Alfredo] Il progetto nasce a Milano, nome compreso. Io e Carola ci siamo spostati da Napoli nel 2015 per diversi impegni di lavoro. Ci eravamo appena messi insieme. Condividevamo un appartamento con Colapesce a Lambrate – io ero in tour con lui alla batteria – e lì abbiamo iniziato a scrivere un po’ di cose nostre. Cercavamo un nome e siamo passati per caso a una mostra sull’arte africana al Mudec. Nell’allestimento c’era una bellissima statua di ebano la cui didascalia recitava “Yombe figure”. L’arte africana, nel suo essere “primitiva” come approccio alla raffigurazione, è molto essenziale e lascia spazio all’immaginazione. Questo rispecchiava il nostro approccio alla musica.
Voi siete stati ospiti in un format autorevole come Boiler Room. Com’è andata quest’esperienza?
[Cyen] Non ce lo aspettavamo! Eravamo molto contenti e abbiamo passato una settimana intera a fare practice, immaginando le domande che ci avrebbero fatto. Poi siamo andati a Milano. Hanno scelto loro la location per la sessione live, il Superstudio. Ci siamo messi in viaggio con i led ed è stata montata la scenografia. A loro è piaciuto molto e ci hanno fatto domande interessati. È stata un’esperienza molto bella, anche perché avevano una troupe con macchine super, quindi erano in grado di fare riprese favolose in un batter d’occhio.
Il 24 novembre è uscito il vostro primo LP, intitolato GOOOD. Cosa raccontate con questo album?
[A] Forse, rispetto all’EP precedente, in GOOOD si parla un po’ meno di noi. Ci siamo guardati all’esterno e stavolta abbiamo parlato non soltanto di dinamiche vissute in maniera più stretta. A livello di sound c’è stata un’evoluzione: abbiamo sviluppato quelle che nell’EP erano soltanto idee embrionali. Prima avevamo provato varie strade e stavolta ne abbiamo percorse solo alcune in maniera più decisa: avevamo più chiara quella che sarebbe stata la nostra comfort zone. Non è un disco lunghissimo: abbiamo preferito fare una cernita tenendo dentro soltanto quello che ritenevamo veramente meritevole.
Fare elettronica in Italia è difficile?
[A] Di sicuro non è una delle cose che vanno per la maggiore, nonostante ci siano eventi che promuovono questo tipo di musica che sono sempre più in crescita, come per esempio il Club to Club.
[C] Secondo me è difficile fare elettronica in Italia se sei italiano. Ci sono falle enormi. L’elettronica, soprattutto se raffinata, non è un genere radiofonico in Italia. Non è così all’estero: ci sono canali della BBC che passano solo quello. Non vedo molte evoluzioni qui da noi, se non come diceva Alfredo negli eventi che ci sono, come anche l’Ypsigrock. Però quando si parla solo di attività live e non c’è un vero aiuto da parte dei media il percorso si fa molto lungo.
Avete suonato a Milano a Linecheck in apertura ai Little Dragon, un’istituzione nel proprio genere: pensate di avere imparato qualcosa da loro?
[C] Io amo la cantante! L’ho conosciuta con Wildfire di SBTRKT, quindi prima come vocalist e poi come Little Dragon. La trovo bravissima, soprattutto live. Vedo qualcosa dei Little Dragon in quello che facciamo, soprattutto nei pezzi più “nord europei”.
[A] Ci approcciamo a queste cose con entusiasmo, al di là del genere che facciamo. C’è sempre da imparare da artisti del genere.
In genere come lavorate sui vostri pezzi? Avete un metodo di lavoro?
[C] Non c’è una regola. A volte sono io che abbozzo una canzone intera con Logic Pro – con una batteria, un giro di basso – e la passo ad Alfredo che magari la stravolge. A volte il contrario: Alfredo mi manda un beat e io ci scrivo sopra un pezzo. L’unica costante è che non lavoriamo mai insieme fino all’ultimo momento, quando bisogna chiudere il pezzo. Allora ci confrontiamo su come farlo suonare per essere soddisfatti entrambi.
Vi siete formati a Milano. Che tipo di rapporto avete con questa città?
[A] Personalmente la adoro. È una città che mi ha dato moltissimo in tutto: dal semplice fatto di aver trovato un nome fino al fermento artistico e a tutti gli input visivi che ha. Noi siamo alla costante ricerca anche di quello. È una città che accoglie chiunque in maniera anche molto affettuosa. È stato molto bello starci e vorremmo anche tornarci – non in questo momento perché in fase di scrittura preferiamo avere i nostri spazi a Napoli. Però nella fase in cui hai bisogno di trovare l’ispirazione per scrivere nuove cose è un posto fantastico in cui stare, anche per le centinaia di eventi che ci sono in giro.
E cosa c’è di Napoli negli Yombe?
[C] Io credo che questo disco abbia già nella melodia qualcosa di mediterraneo, anche nei pezzi più “nordici”. Proprio dal punto di vista metrico ci sono divisioni sillabiche che hanno fatto dire a mio padre: “Hai fatto la neomelodica!”. C’è un piccolo accenno a un mondo un po’ arabeggiante e partenopeo. Poi da qui ad affermare che liricamente e come sound ci ispiriamo a materiale napoletano, io dico: non proprio.