8 marzo: da Siouxsie Sioux a Billie Eilish, le grandi artiste che ci hanno cambiato la vita
È la Giornata internazionale della donna: il nostro omaggio a quelle artiste di ieri e di oggi che hanno lasciato un segno indelebile sulla musica
Da qualche parte, nel mondo, c’è una ragazza che sta consumando l’album della sua artista preferita. Forse ancora non lo sa, ma la sua musica influenzerà la sua vita più di quanto possa immaginare. È successo a ognuno di noi e succederà ancora. Oggi, 8 marzo, in occasione della Giornata Internazionale della Donna, abbiamo voluto omaggiare, con un ricordo o un aneddoto, quattro grandi artiste che ci hanno influenzato, per i più disparati motivi.
Siouxsie Sioux: non solo una monocromatica regina del dark
Per un adolescente degli anni ’80 che ha combattuto l’estetica luccicante o paninara della Milano da bere e dei film dei fratelli Vanzina (mai amati, mi spiace, nessuna rivalutazione a posteriori), Siouxsie Sioux era un punto di riferimento incredibilmente potente.
Testimone del movimento punk che non avevo mai vissuto, era però la portatrice di quella tensione creativa che aveva rilasciato il movimento del ’77, trasformandosi nella new wave. Lei scelse – con il suo compagno di sempre, il batterista Pete “Budgie” Clarke, e il bassista e compositore Steve Severin (i chitarristi cambieranno continuamente) – la via più oscura e magmatica di quel genere sin dal primo album, il cupissimo ma terribilmente affascinante The Scream.
Entrai però nel suo universo musicale grazie a un album del 1980, comprato nel negozio di dischi di fronte al mio liceo nel 1982, Kaleidoscope. Possiede alcuni brani di enorme bellezza, con alcuni strappi al buio come le scintillanti Happy House e Christine. Con quell’album i Siouxsie and The Banshees stavano già compiendo una metamorfosi che arriverà con il capolavoro A Kiss in the Dreamhouse del 1982 e avrebbero stupito ancora per anni.
Li seguii con attenzione fino alla fine della loro storia discografica, The Rapture, album del 1995, prodotto da John Cale. Sembrava chiudersi un cerchio. La band aveva scelto per l’ultimo album in studio di avere al mixer uno dei protagonisti della musica più decadente, notturna e anche perversa della storia del rock, quando era nei Velvet Underground. Per un ragazzo degli anni ’80 Siouxsie era anche immagine e non solo musica, era diventata oggetto di studio degli stilisti più avant-garde di Parigi e Londra e nelle strade le ragazze tentavano di riprodurre il suo modo sempre imprevedibile di vestirsi. Non penso di sbagliare a definirlo così perché solo a un primo sguardo sembrava una monocromatica regina del dark, come venivano poi definiti i giovani che sceglievano il nero come colore da indossare (in UK si chiamavano goth).
Ma in realtà Siouxsie possedeva un armamentario estetico molto più complesso. Dai richiami agli egizi ai velluti di epoca vittoriana. E poi sempre un uso creativo di tulle, veli, merletti, fusciacche e foulard, leggings e canotte coloratissime. Un’autentica costumista che ha ispirato una fila infinita di cantanti, da Madonna a Lady Gaga e oltre. A distinguerla, poi, il trucco. Sulla pelle bianchissima da bambola giapponese, un make-up importante, tra una moderna Cleopatra e una musa espressionista. Nell’unica intervista che riuscii a farle (anno 2008), lei a tal proposito mi disse: «Farmi il trucco mi è sempre interessato, sin da quando ero molto giovane e ho fatto sempre da sola. Definirei il mio look no conformist, perché ho censurato tutto quello che sarebbe stato considerato come attraente, piacevole, tale da trasformarmi in “bambola desiderabile”».
La mia devozione nei suoi confronti sarebbe continuata nel tempo (sette concerti dal vivo visti dal 1985 in poi). Anche quando negli anni ’90 cominciai ad avere una profonda ammirazione per la bassista dei Pixies, Kim Deal, o per Kim Gordon dei Sonic Youth. E come dimenticare Björk, PJ Harvey e una regina della club culture più intelligente come Róisín Murphy? Ma nessuna di loro, a mio giudizio, è stata capace di sfornare tanta coolness e creatività come Siouxsie Sioux.
Tommaso Toma
La prima (e unica) volta che ho incontrato Billie Eilish
Un fortunato mix di tempismo perfetto, mia curiosità e insistenza da parte della promo di Universal Music ha fatto sì che fossi il primo giornalista italiano a intervistare una giovanissima Billie Eilish.
Ricordo molto bene quel giorno. Era un tristissimo sabato di febbraio a Milano, di quelli in cui non sai se sia più deprimente il grigiore indistinto del cielo o l’umidità che ti entra nelle ossa. La prospettiva di lavorare nel fine settimana poi non mi allettava, e decisamente non ero l’unico a vederla così: all’appuntamento davanti al Dude Club (all’epoca ancora in zona Rogoredo) c’eravamo solo io e il collega di Grazia. Mi ero lasciato convincere dall’insistenza della casa discografica, secondo cui era un’artista molto promettente (ma di chi non lo si dice, agli esordi?), e comunque è sempre stimolante chiacchierare di persona con cantanti venuti dall’altra parte dell’Atlantico.
Billie Eilish era appena 16enne (siamo nel 2018) e si sarebbe esibita in quel locale che poteva tenere a occhio e croce non più di duecento persone. Non era una perfetta sconosciuta ma neanche la gigantessa indiscussa di oggi: all’epoca aveva all’attivo l’ottimo EP d’esordio dont smile at me, in cui già si sentono tutte le cifre distintive del suo stile e della produzione di Finneas, e il suo brano di maggior successo era ocean eyes (perla minimalista di struggente dolcezza, concedetevi un ascolto). Insomma, era un’interessante “newcomer”, attenzionata come tale dalle testate americane e da qualche sporadico sito web italiano.
Tuttavia Billie già allora poteva vantare anche in Italia un bello zoccolo duro di super fan della prima ora: la prima cosa che mi colpì prima ancora di entrare nel locale, infatti, fu la presenza di un manipolo di ragazzine (età media 14 anni) accampate sul marciapiede antistante fra teli da mare, thermos e carte da gioco sin dalle due del pomeriggio.
Billie la incontro poco dopo nel backstage della venue. Lo stile è quello del suo primo periodo: chioma argentea e tutona oversize stile rapper. Sarebbe facile cedere alla retorica e dire che già si capiva che avrebbe fatto tanta strada, ma la verità è che allora nessuno, forse lei compresa, poteva immaginare quello che sarebbe successo nel giro di pochi mesi.
Parlando concretamente, quello che mi affascinò di lei fu la grande determinazione che le si leggeva nello sguardo e nelle parole, una notevole maturità in rapporto all’età anagrafica e la chiarezza delle idee sul proprio progetto artistico e sui riferimenti alla scena musicale contemporanea e non. In sostanza: parlava già come un’artista di una certa esperienza, nonostante fosse un’esordiente.
Quello che è successo dopo lo conoscono tutti. La sua rapida ascesa ai massimi livelli dello showbiz ha di fatto reso impossibile il ripetersi di un’esperienza come quella al Dude Club in quel giorno di febbraio 2018. Ma la musica va così: sicuramente da qualche parte in Europa o in America c’è già una ragazzina 15enne che nella sua cameretta sta inventando la grande pop music di domani.
Federico Durante
Avril Lavigne: la grande arte di imparare a dire “sticazzi”
Non sono mai stata una ragazzina capricciosa. O, almeno, non ho mai pensato di esserlo. C’è da dire però che quando mettevo il muso era un bel dramma per chi mi stava intorno. Esattamente com’è adesso, che di anni ne ho quasi 29.
Ricordo benissimo quel pomeriggio in cui un compagno di scuola invitò mio fratello ad una festa e io dovetti rimanere a casa, arrabbiata perché non avevo nulla con cui riempire la mia giornata. Così mio padre decise di portarmi da Rasputin, negozio di dischi che ha ormai chiuso da anni in piazza Cinque Giornate a Milano. Ricordo altrettanto bene la sensazione di girare in quel piccolo negozio dove ogni angolo era occupato da dischi e vinili. Entrando non avevo dubbi: volevo a tutti i costi Under My Skin di Avril Lavigne.
Nel 2004 io avevo 11 anni e avevo da poco iniziato la prima media. Non ero turbolenta ma sicuramente non ero la persona pacata (spesso all’apparenza) che sono oggi. Avril Lavigne, con le sue cravatte e le calze colorate tirate fino alle ginocchia, rispecchiava perfettamente il genere di ragazza che volevo essere: anticonformista, un po’ ribelle e sempre fiera di me stessa.
E la sua musica, da brani più scanzonati come Sk8er Boi a canzoni come Complicated, che all’epoca mi dava il tormento per il fidanzatino che non avevo e chissà se avrei mai avuto, mi aiutavano a cercare di superare indenne uno dei periodi più complicati della vita (penso di chiunque).
E anche se col tempo l’ho un po’ persa di vista, è sicuramente stata l’artista donna che mi ha dato l’input maggiore per dire: sticazzi. Alla fine a scuola con le calze colorate fino alle ginocchia ci sono andata più volte e forse sembravo ridicola. Ma guardando lei ho imparato (o almeno ci ho provato) a fregarmene del giudizio degli altri. E credo che questo sia, per certi aspetti, uno dei grandi poteri della musica.
Benedetta Minoliti