Boosta continua il suo viaggio sperimentale senza ansia da classifica con “Post Piano Session”. L’intervista
Il musicista torinese sta facendo uscire in queste settimane il progetto “Post Piano Session”: sei EP strumentali in cui vengono esplorate altrettante declinazioni delle possibilità espressive del pianoforte, dalle avanguardie novecentesche al post rock
Boosta ci ha preso gusto. Dopo l’album Facile del 2020, ecco che il musicista torinese (nonché tastierista dei Subsonica, com’è noto) è ora alle prese con un nuovo progetto solo strumentale: Post Piano Session.
Ma stavolta si è spinto oltre: anziché un unico album, sei EP pubblicati a cadenza regolare fino a Natale; e laddove Facile si muoveva nel territorio “nordeuropeo” del pianoforte contaminato da elementi di elettronica (alla Nils Frahm o Ólafur Arnalds, per intenderci), adesso ogni EP esplora una diversa strada delle possibilità espressive dello strumento, dalle ispirazioni delle avanguardie novecentesche al post rock.
Si tratta dunque di un lavoro autenticamente libero, anche da ansie commerciali (ma poi chi ha detto che progetti del genere non possano avere un pubblico di massa?), e che invece di ricercare una sintesi impossibile fra Schönberg e i Sigur Rós tenta piuttosto di setacciare quelle strade creative con uno spirito da “cartografo musicale”.
Boosta porterà le sue composizioni in un mini-tour in partenza il 14 ottobre dalla sua Torino, per poi toccare Milano, Bologna, Pordenone e Roma. Di Post Piano Session è già uscita la “Tape 1” il 16 settembre, mentre è disponibile da ieri, venerdì 7 ottobre, la “Tape 2”, motivo per cui abbiamo colto l’occasione per una sempre stimolante conversazione con lui.
C’è un approccio più marcatamente più sperimentale ed eterogeneo rispetto a Facile. Oltretutto ogni EP evoca un mondo sonoro a sé, sbaglio?
È un viaggio più complesso del precedente. Mantengo fede al mio credo di fare musica quando ne ho veramente l’urgenza. Questo lavoro diviso in sei parti è nato abbastanza velocemente, è frutto del viaggio che sto facendo. È come aver dato più colori a una mappa che avevo iniziato a disegnare. Rimango convinto del fatto che non si possa fare musica senza un minimo di libertà. Poi io sono privilegiato, perché ho il permesso e la possibilità di farlo.
Non avendo ansie da classifica, anche perché ho già il gruppo dei miei sogni, ho la libertà di viaggiare e cercare quello che mi affascina. Il pianoforte rimane uno strumento complesso e bellissimo. La prospettiva non è fare qualcosa che rassicuri. È dovere di chi fa musica proporre un ascolto che non sia necessariamente confortante, perché se no non c’è crescita per chi ascolta.
Perché un progetto in sei EP anziché un album o un album doppio? Ha a che fare con questa concezione di “viaggio” di cui mi parlavi?
Assolutamente. Nel momento in cui ho deciso di far uscire il progetto con la mia piccola, giovane etichetta (Torino Recording Club, ndr), ho ragionato in maniera diversa da quando dai il tuo disco a un’etichetta discografica, major o non major, che richiede una selezione dei pezzi.
Questi pezzi hanno un contesto sonoro ben definito: il primo EP è legato a un concetto semplice di pianoforte ed elettronica; il secondo si sposta sul post rock – genere che amo – interpretato attraverso il piano; il terzo va verso la composizione (o decomposizione) del Novecento, verso un’idea schönberghiana della musica; il quarto è più elettronico, ci sono un paio di tracce che sono quasi minimal techno; il quinto si lega all’ambient anni ’70, quasi omaggio al mondo di Harold Budd e Brian Eno; il sesto chiude il cerchio ed è un piccolo disco di melodie per pianoforte, che ritorna “nudo”. Insomma, una mappa disegnata in sei luoghi geografici della mia idea di musica.
Questi tuoi progetti pianistici escono sempre in autunno: c’è una ragione legata alla stagionalità?
Che io lo voglia o no, è sempre un periodo importante per me perché il mio compleanno è il 27 settembre, quindi all’inizio dell’autunno. Mi rendo conto che non sia un disco estivo. Non è che ogni stagione meriti una musica specifica, però è come col cibo: una zuppa, anche se è buonissima, in estate non te la godi neanche. Volevo mettere anche il disco nelle condizioni di uscire nel momento migliore: autunno e inizio inverno.
C’è qua e là nei brani una dimensione “rumorista”, non dico alla John Cage ma quasi. Come contestualizzi questo elemento?
Tutto è suono. Nella storia della musica qualunque suono è stato utilizzato a favor di melodia e di composizione. Quell’elemento nasce dall’idea di poter integrare i suoni che mi circondano e dall’esplorazione dei grandi artisti del Novecento – citavi Cage ma aggiungerei Bernard Parmegiani, Pierre Schaeffer, tutta la scuola francese.
L’idea è di capire le radici da dove veniamo. Oggi un produttore giovane che cerca un suono particolare va in queste library lunghissime e lo mette in un minuto. Una volta, ottenere il suono di un oscillatore o la registrazione di qualcosa che si rompe richiedeva tutto un lavoro: non c’erano i mezzi, servivano grandi studi, una microfonazione accurata…
Questo lavoro, che sembra “alto”, concettuale, poi si è riverberato nella musica di tutti quanti. Per esempio in Break & Enter dei Prodigy il crash è sostituito da un vetro che si rompe, e quel suono è passato alla storia. È bellissima l’idea di poter esplorare tutto quello che abbiamo intorno. Nel rumore del treno senti un ritmo, nel brusio del traffico un tappeto sonoro… Lo facciamo tutti inconsapevolmente, ma a maggior ragione un musicista dovrebbe farlo in modo più attivo.
Boosta, ma è proprio vero che progetti del genere in Italia debbano essere visti come anti-commerciali? Il successo di eventi come Piano City a Milano mostra chiaramente che un pubblico c’è.
Sono assolutamente d’accordo. La cartina al tornasole la trovo nei miei piccoli concerti. Mediamente la gente non sa che io faccio questo, il grande pubblico mi vede come il tastierista dei Subsonica. Io scelgo posti piccoli, in cui la gente possa immergersi in quello che suono. In questi anni è sempre successa la stessa cosa: che le persone presenti siano poche o tante, comunque escono felici.
Io ho suonato in teatri bellissimi, piazze, locali, musei. Le persone si calano in uno stato di silenzio che per me vale molto di più degli applausi, perché è un silenzio non di distrazione o noia ma di viaggio. Forse non seguono neanche quello che stai suonando, perché la musica permette loro di viaggiare nei pensieri.
Quindi non è anti-commerciale, è che c’è un sistema che negli ultimi decenni ha dato più valore alla musica in quanto intrattenimento. Se c’è una forma d’arte democratica, che ha bisogno non di essere imparata ma soltanto percepita, quella è la musica, non importa quale. Posso commuovermi ascoltando Satie anche senza sapere nulla di lui o da dove arrivi quella musica.
Recentemente in un’intervista Brian Eno ci ha detto: “Gli artisti hanno un compito: creare dei mondi. È come se le opere d’arte fossero dei simulatori di esperienze che solitamente non riesci a provare. Non possiamo predire il risultato dell’effetto, si deve essere completamente aperti a un’esperienza”. Che ne pensi?
Effettivamente l’artista ha doveri: la possibilità di far sentire la propria voce più forte di altri è una responsabilità di cui avere cura. La musica è lo strumento più potente che abbiamo: ci calma, ci innervosisce, ci dà energia, ci consola… L’esplorazione serve a mantenerti vivo: puoi essere un grande musicista rock, ma se fai sempre quello prima o poi i tuoi riff finiranno. La musica è come acqua: ha bisogno di affluenti, se no diventa una pozza stagnante.