Bob Sinclar, il pascià di Ibiza – Part. 1
Il protagonista della Billboard Cover Story di giugno è Bob Sinclar, uno dei top DJ al mondo. Ecco la nostra lunga chiacchierata
Ci sono diverse certezze che caratterizzano il periodo musicale estivo. I festival, i concerti dei grandi artisti negli stadi, i tormentoni radiofonici e i DJ più importanti del mondo che rimbalzando da una città all’altra sono pronti a far ballare migliaia di persone. Tra questi, uno di loro possiamo considerarlo il più “italiano” tra i DJ internazionali, in virtù del feeling che lo lega al nostro Paese dove molto spesso è presente per i suoi DJ set nei locali più esclusivi. Tra un viaggio e l’altro, di lui si sa che l’unica cosa certa è il club dove lo si può trovare il sabato notte a Ibiza, il Pacha, con la sua serata Paris by Night. In esclusiva per Billboard, monsieur Bob Sinclar.
Bob, tu sei una star globale che si è esibita nei club di tutto il mondo. Ma che musica ascolti quando sei in viaggio?
Ho una playlist speciale su iTunes sul mio computer, si intitola So Good. C’è solo musica che va dal jazz al soul e al gospel, al limite un po’ di hip hop. Solo musica “cool”, non c’è dance. Cerco di farmi ispirare da tutto: Bob Marley, Frank Sinatra, Gianni Bella… Davvero tutti i tipi di musica.
Sei un DJ molto performativo: quando hai capito di avere la stoffa del performer?
La prima volta che ho messo piede in un club mi trovavo a Parigi: era Le Palace, nel 1987. Ero molto giovane. Notavo la chimica fra il DJ e il pubblico. Erano gli inizi della musica dance e della scena hip hop, che arrivavano tutte contemporaneamente dagli Stati Uniti. Era un’esplosione di beats e linee di basso. Ero davvero esaltato da questo movimento musicale. E vedevo la connessione che il DJ aveva con il pubblico.
Io non bevevo, non fumavo e non prendevo sostanze di nessun tipo. I miei amici andavano in quella direzione ma io volevo solamente ballare e ascoltare musica. Così passavo la maggior parte della serata vicino al DJ godendomi tutta la musica che suonava, tutti i vinili. E il giorno dopo andavo nei negozi di musica a comprare quei vinili per fare dei mixtape. Il clubbing per me è cominciato così.
E qual è stato il primo disco che hai comprato?
Era Rockit di Herbie Hancock del 1984, perché c’era lo scratch ed era la prima volta che un pianista aveva chiesto a un DJ di fare quel suono. Era una cosa pazzesca sul disco. Il nome del DJ era GrandMixer DXT.
Il 26 maggio parte Paris by Night, la tua serata al Pacha di Ibiza. Cosa hai preparato per quest’anno?
Durerà ventuno settimane, fino al 14 ottobre. Hanno rifatto la sala del locale con uno stile diverso. La postazione del DJ sarà un po’ come quella di Solomun. Adesso sei più vicino al pubblico, dietro all’area VIP. Ho due palchi, uno alla mia destra e uno alla mia sinistra, dove ci saranno le ballerine del Pacha e le mie performer. C’è molta competizione a Ibiza ma il Pacha è un brand di alto livello. Gli italiani lo amano. Ibiza è un’isola davvero speciale: puoi fare quello che vuoi, puoi sentire la musica che vuoi.
È un po’ la tua seconda casa.
Beh, quella è l’Italia! Quindi sarebbe la mia terza casa (ride, ndr). È molto speciale perché in così tanti anni tutte le leggende della dance music hanno suonato lì: Danny Tenaglia, Roger Sanchez, David Morales, Todd Terje, i Masters at Work… A volte suonano anche ai miei party. C’è molta storia al Pacha, suonare lì per me è davvero incredibile, essere resident è una consacrazione. Per un DJ è il place to be.
Invece il tuo nuovo singolo uscirà tra poco. Puoi anticiparci qualcosa?
C’è un cantante italiano che però canta in inglese. Sarà pubblicato in Italia dalla Time Records di Giacomo Maiolini, è la mia prima collaborazione con quest’etichetta. Il titolo della canzone è I Believe – e io credo in molte cose: la house music, la musica in generale… Sarà un po’ diverso. Non parlerei di pop ma sarà molto pacifico e pieno di speranza, con un pizzico di malinconia. È uno stile diverso rispetto alla dance e ai gusti del pubblico, ma credo in questo pezzo.
Come sarà il videoclip di questo brano?
Nel video ci sarà una ballerina classica di 14 anni che danza in maniera incredibile. L’ho scoperta su Instagram e ho parlato con i suoi genitori. Lei balla negli Stati Uniti, vorrebbe diventare una pole dancer e sta programmando alcuni spettacoli in giro. Balla benissimo, ha davvero talento. È anche molto elegante e “cool”: un diverso modo di ballare sulla musica dance.
Facciamo un passo indietro e ripercorriamo gli step più importanti della tua carriera. Hai fondato la Yellow Productions diventando uno dei protagonisti del French Touch, collaborando, fra gli altri, con Thomas Bangalter, poi ci sono stati gli Africanism con artisti del calibro di Martin Solveig e DJ Gregory, infine il successo globale a partire da Love Generation del 2005 e le grandi collaborazioni…
Devi sapere che all’inizio la musica francese era considerata underground nel mercato dell’elettronica: in Francia non succedeva niente. Ci vergognavamo un po’ di produrre con nomi francesi o di specificare che un disco veniva dalla Francia. Così nel mio primo disco mi sono spacciato per un producer inglese. Era molto strano ma passo dopo passo abbiamo perso il nostro complesso di inferiorità rispetto a inglesi, belgi, tedeschi, anche rispetto agli italiani. Ci volle del tempo perché capissimo la maniera in cui lavorare, produrre e distribuire i dischi. Ma poi il French Touch è esploso fra il 1998 e il 2004.
Come è avvenuto il passaggio al mainstream? È stato naturale o ha forzato in qualche modo la tua vocazione?
È successo per caso perché non avevo cambiato il mio modo di fare musica. Cominciavo sempre con sample provenienti dall’hip hop e da vecchi dischi “classici”. Ho campionato molte cose – nessuno lo sa perché sono molto “nascoste” – suonando la chitarra e mettendoci la mia voce. Sono andato a New York, ho mixato alcuni cantanti, musicisti molto talentuosi, volendo fare più vocals. Dopo Music Sounds Better with You degli Stardust del 1998 scoprii che era possibile avere successo nella dance music e andare in radio facendo musica nella tua cameretta.
Andando a New York ho trovato i migliori vocalist. Ho trovato questa cantante reggae e Love Generation nacque in tre o quattro ore. Le hit vengono sempre molto velocemente, perché devono essere semplici. Anche Someone Who Needs Me: la musica era di un mio amico belga di nome Brian con cui lavoro ancora. Lui mi manda alcune melodie e poi io faccio la produzione. Ma si tratta sempre di “begli incidenti”: è quello che cerco.
Quali sono gli artisti, fra tutti quelli con cui hai collaborato, che ti sono rimasti nel cuore?
Da un punto di vista personale – visto che siamo in Italia e ha avuto un grande successo – Raffaella Carrà. Io ho una collezione di album italo-disco nel mio studio. Ho sempre voluto campionare quel pezzo (Far l’amore, ndr), ma l’idea era di rifarlo con lei. Così ho cominciato con un bootleg di quando ho suonato il pezzo per la prima volta in Italia per vedere le reazioni della gente. C’erano i DJ francesi che mi dicevano: “Ma perché fai questo pezzo in italiano? È una cosa impossibile!”.
Ma io amo le cose impossibili. E Raffaella è una persona incredibile. Mi ha detto: “Negli ultimi dieci anni non ho fatto niente di nuovo, ma con te me la sento. Facciamolo”. Abbiamo registrato le parti vocali a Roma e la canzone è diventata un grande successo in tutta Europa. Ha vinto un Oscar a Hollywood (è nella colonna sonora de La Grande Bellezza, ndr). È una bellissima storia (lo dice in italiano, ndr).
Intervista pubblicata sul numero di giugno di Billboard Italia