Interviste

Vinili, sampling e tanta ironia: intervista a Fatboy Slim

Le carte vincenti di Fatboy Slim nel suo anno d’oro, il 1998, che vide l’uscita del mitico “You’ve Come a Long Way Baby”. «Ho percepito che le cose stavano cambiando. Lo capivi andando nelle discoteche più interessanti, dove non c’erano più solo i ravers o i clubbers ma ci andava anche chi ascoltava musica indie»

Autore Tommaso Toma
  • Il15 Aprile 2018
Vinili, sampling e tanta ironia: intervista a Fatboy Slim

Per festeggiare i vent’anni dalla sua uscita, la BMG ha fatto uscire per la sua serie “Art of the Album” un’accurata ristampa in vinile (no bonus track ma con un bell’inserto scritto dal giornalista Ralph Moore di Mixmag) di You’ve Come a Long Way Baby, l’album che lanciò Fatboy Slim nell’empireo delle classifiche di tutto il mondo (compresa la Hot 100 di Billboard, con i due meravigliosi singoli Rockafeller Skank e Praise You), con la sua musica “cucinata” letteralmente a tavolino tra una pigna di vinili, un Roland 303 e altri aggeggi elettronici.

Il sound di Fatboy Slim venne catalogato dalla stampa anglosassone come “Big Beat” ma oggi, in una nostra intervista telefonica, lui stesso lo definisce un genre-breaking nonsense, ribadendo che: «Mia intenzione non era creare un nuovo genere musicale ma distruggerne tutti i confini». Un’ironica giustificazione che si può permettere di fare una persona vent’anni dopo quel miracoloso e inaspettato successo ma anche perfetta, perché quello che fece Fatboy Slim era davvero inclassificabile. Era musica dance tout court? No. Era rock? Qualche accenno. Era elettronica, sì, ma con un mucchio di sample di canzoni oscure del passato. Era pop? Molto, ma una nuova forma di pop dove il culto della persona veniva meno e s’impadroniva della scena il suono che assurgeva a senso primario.

Questa nuova manifestazione del successo era una chiave nuova per chi era cresciuto con MTV ma non inedita per chi frequentava i rave o i club di house music. Il divo non era un potenziale sex symbol dotato di virtuosismi canori o chitarristici ma un DJ, una persona possibilmente nella norma ma fantasticamente abile a mixare dischi in vinile. Norman Cook ammette nella nostra conversazione: «Dopo essere stato in diverse band, come per esempio gli Housemartins, mi sentivo di fare le cose per bene ma non mi sentivo mai il migliore. Sapevo però di essere un bravissimo deejay e fino ai primi anni ’90 era solo un hobby per me. Poi ho percepito il momento storico, che le cose stavano cambiando. Lo capivi andando nelle discoteche più interessanti, dove non c’erano più solo i ravers o i clubbers ma ci andava anche chi ascoltava musica indie. I DJ stavano diventando delle star e così mi è sembrato più naturale essere un DJ che pretendere di essere un musicista».

Con Fatboy Slim si presentarono – prima in consolle incastrate nell’angolo di un club londinese e poi progressivamente sul palco di venue capaci di contenere migliaia di giovanii nuovi protagonisti della musica elettronica che incontravano i favori di chi era cresciuto con il rock. Ragazzi che nell’aspetto e anche nel look sembravano usciti da un corso di medicina o informatica, al massimo con una felpa Carhartt per essere “alla moda”: Tom ed Ed dei Chemical Brothers, Andy Cato e Tom Findlay dei Groove Armada, Adam Freeland, Jon Carter o Stuart Price.

Altra favolosa caratteristica di tutti questi ragazzi era l’amore per i vinili: ore spese a cercare ovunque dischi polverosi dimenticati in scaffali posizionali alla base dei piedi, eccentrici, o 7” di soul music di etichette minori, 12” di house di Chicago introvabili. L’ispirazione nasceva “rubando” dagli altri. Il campionamento era il nuovo stile, grazie ai vinili. A proposito di uno dei brani più celebri di You’ve Come a Long Way Baby, Norman ci ricorda: «In quel momento storico passavo più tempo in un negozio di dischi usati che altrove. Spendevo tutto quello che guadagnavo per andare in giro, anche negli States, a cercare vinili strani e quando m’imbattei in Take Yo’ Praise di Camille Yarbrough, questo 45 giri che aveva anche dei bellissimi testi, mi sembrava di aver trovato il sample perfetto per quello che volevo fare con una traccia che avevo in testa ma era ancora acerba».

Oggi il sampling è “affare per avvocati”, un giochino carissimo. Quando lo mettevano in atto la gente dell’hip hop, come i “neo hippy” De La Soul nel loro geniale album di debutto, o i “ragazzi normali” del Big Beat (leggetevi The Art of Sampling di Amir Said) era un atto creativo favoloso e senza conseguenze finanziarie pericolose. Abbiamo approfittato di chiedere a Norman Cook che ne pensa di pezzi come Hotline Bling di Drake, che si regge letteralmente su Why Can’t We Live Together di Timmy Thomas o di quel banale mash-up di due canzoni anni ’80 fatto in Secrets da The Weeknd: «Non criticherei mai il lavoro di colleghi ma penso che ti premi di più e sia molto più soddisfacente utilizzare il sample di una canzone che non era una hit la prima volta. Se lo fai quasi di sicuro funzionerà: dove sta il divertimento se no?». Già, il divertimento: la parola chiave di You’ve Come a Long Way Baby, un album che va preso in vinile per farlo girare come i corpi delle ragazze che ancora oggi impazziscono per un brano come Rockafeller Skank.


Ascolta You’ve Come a Long Way Baby di Fatboy Slim in straming

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