Elettronica

Fatevi il segno della croce, sono tornati i Justice!

Il duo francese formato da Gaspard Augé e Xavier de Rosnay è tornato con il nuovo album “Woman Worldwide”. Li abbiamo intercettati prima del live a Milano

Autore Damir Ivic
  • Il24 Agosto 2018
Fatevi il segno della croce, sono tornati i Justice!

Justice - Woman Worldwide - 1

Vedere dal vivo i Justice, il duo francese composto da Gaspard Augé e Xavier de Rosnay, è sempre un’esperienza. Lo era fin dalla prima volta, dalle prime date, un decennio fa: qualcosa di davvero inedito per la scena dance dell’epoca. Non solo e non tanto dal punto di vista musicale, ma soprattutto per il tipo di atmosfera che veniva a crearsi: più simile a quella di un concerto rock per non dire addirittura heavy metal, con tanto di gadget che andavano ben al di là della semplice maglietta da indossare ma bare, croci, a riprendere l’immaginario che i Justice avevano costruito attorno al suo album d’esordio, Cross (2007). È proprio partendo da questo che inizia la nostra chiacchierata con Xavier, nata in previsione dell’unica data italiana della band quest’estate, il 17 luglio al Milano Summer Festival, in un double bill che ha visto sul palco anche gli MGMT. A fine agosto è uscito il nuovo album dei Justice, Woman Worldwide.

Justice - Woman Worldwide - 2

Vi rendevate conto, all’epoca del primo tour, di quanto pur essendo voi un progetto di matrice dance vi capitasse di attirare un pubblico atipico, dalla dedizione e dal fanatismo all’epoca impossibile da vedere in un contesto house o techno, dove al massimo si arrivava alla maglietta della propria band o label preferita da indossare?


Ce ne rendevamo conto ed era esattamente quello che volevamo. Quando abbiamo iniziato a fare musica, nel 2003, la scena elettronica e quella dei club a Parigi – l’unica che conoscevamo, all’epoca – era in un periodo particolare: la grande ondata del French Touch era in ritirata, c’era spazio solo per techno e house più scarne, minimali. Sinceramente: in certi casi, a noi più che serate dove andare a ballare e divertirsi sembravano dei freddi festival del sound design. I suoni erano perfetti, indubbiamente, ma musicalmente era qualcosa di davvero statico e la cosa si rifletteva anche nel modo di comportarsi del pubblico. Noi volevamo esattamente l’opposto. La nostra musica era in antitesi, come attitudine e come pulizia dei suoni, rispetto alla minimal techno e di conseguenza anche il pubblico ha iniziato ad essere diverso. Il che si è subito rivelato molto positivo: sono nati dei party molto più divertenti, dove la gente si prendeva molto meno sul serio. Esattamente quello che desideravamo.

Fino a che punto si può comunque dire che i Justice appartengano alla scena elettronica, alla club culture?


Vi apparteniamo: per alcune canzoni che abbiamo fatto, che sono diventate dai capisaldi di quella scena, e per il fatto che ci piace moltissimo fare i DJ. Ma al tempo stesso non nascondiamo che il nostro background musicale non arriva da house e techno bensì da rock e rap. Chiaro, alcuni capolavori della musica dance elettronica hanno segnato la nostra vita, ma il grosso delle nostre passioni e dei nostri ascolti, prima di iniziare a fare seriamente i musicisti, era legato a rock and roll e hip hop.

Avete mai avuto la sensazione che il grandissimo (e per certi versi sorprendente) successo del vostro disco d’esordio vi abbia in qualche modo intrappolato?

Capisco cosa intendi ma no, in realtà credo non sia successo. A ben vedere, noi abbiamo esordito con una traccia come We Are Your Friends. Uscita quella, tutti si aspettavano che continuassimo a battere su quel filone, invece ciò che uscì fu una traccia come Waters of Nazareth, davvero sordida e urticante, così come un altro paio di tracce messe in circolazione subito dopo. Ma il singolo successivo quale fu? D.A.N.C.E, un brano praticamente disco. Fin dall’inizio abbiamo messo in chiaro che noi non siamo quello che la gente pensa di potersi aspettare da noi. Non ci facciamo inscatolare in un filone preciso. È una regola. Qualche volta ci porta bene, qualche volta ci porta fuori strada, ma è qualcosa a cui non vogliamo derogare. Lo diciamo anche in termini egoistici: fare musica è un processo lungo e noioso, noi impieghiamo almeno un anno, un anno e mezzo a completare un album: se non ci poniamo delle sfide – nei confronti di noi stessi ma anche del nostro potenziale pubblico – moriremmo dalla noia e avremmo forse già abbandonato tutto.



La svolta un po’ epica e un po’ prog rock del vostro secondo lavoro, Audio, Video, Disco, infatti non fu accolta benissimo.


Un po’ ce lo aspettavamo. Non è mai piacevole, certo, ma è un atteggiamento che comprendiamo. Dirò di più: se io fossi stato un fan del gruppo, probabilmente avrei reagito anche io in quel modo, perché quando ami una band ne diventi in qualche modo geloso, vorresti proseguisse sempre sulla linea che piace a te. Però di nuovo, mi dispiace: a noi piacciono le sfide. E quell’album era indubbiamente una sfida, sia rispetto al nostro materiale precedente sia rispetto al contesto musicale del periodo in cui è uscito sul mercato. Il complimento più bello per noi, quando qualcuno ascolta per la prima volta una nostra nuova traccia, non è che “Che bello!” quanto piuttosto “Che diavolo state facendo…? Cos’è ‘sta cosa?”. Ad ogni modo, i nostri concerti sono sempre più grandi, sempre più apprezzati. Alla prova dei fatti, quel disco non sarà stato apprezzato del tutto quando uscì, ma non ha certo danneggiato la nostra carriera.

I vostri concerti hanno anche uno stage design e un apparato luci sempre molto interessante.

Tutto quello che accade sul palco è pensato e progettato da noi due e da uno stage designer che è con noi da sempre: il suo primo tour fu il nostro tour. Siamo cresciuti assieme. Ci capiamo a meraviglia, abbiamo la stessa sensibilità. Credo che anche per questo il tutto funzioni molto bene.

Fate ancora, in tour, una vita piuttosto movimentata, diciamo molto rock and roll? Nel documentario che raccontava il vostro primo tour mondiale, A Cross The Universe, era un po’ così.


La risposta onesta è: no. Amiamo la vita, e vivere sempre con quei ritmi e con quelle abitudini non è una cosa saggia. Peraltro, proprio questo è il motivo per cui volemmo fortissimamente documentare quel nostro primo tour: sapevamo che sarebbe stata un’esperienza irripetibile e che mai più avremmo potuto – o voluto – vivere le cose così al massimo.


Ascolta Woman Worldwide dei Justice in streaming

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