Interviste

Scosse dance made in Italy: intervista a The Bloody Beetroots

“The Great Electronic Swindle” è il nuovo album di Bob Cornelius Rifo, aka The Bloody Beetroots

Autore Tommaso Toma
  • Il30 Novembre 2017
Scosse dance made in Italy: intervista a The Bloody Beetroots

Sir Bob Cornelius Rifo – dietro la maschera c’è Simone Cogo, classe ’77 – è uno dei più elettrizzanti DJ e producer italiani, che si è riuscito a ritagliare in dieci anni un validissimo spazio nel panorama della musica elettronica internazionale grazie a un’identità molto forte, creata attraverso un’estetica che coniuga i video game, i comic books anticonvenzionali, i massimalismi dell’hard rock e la semplicità rumorosa dell’electro di ultima generazione.

Il nuovo album The Great Electronic Swindle (Last Gang Records/Audioglobe) accoglie – come sempre accade nelle produzioni targate Bloody Beetroots – una pletora di collaborazioni da urlo: JET, Jay Buchanan dei Rival Sons, i Gallows, Anders Friden degli In Flames, Deap Vally e la voce angelica di Greta Svabo Bech. L’album è una sorta di omaggio ai Sex Pistols e al film The Great Rock and Roll Swindle di Julian Temple, un segno della fine di un’era, la fine del Punk.

Rifo recupera il concetto applicandolo alla musica elettronica perché il mercato sta comprimendo i generi così tanto da decretare la fine della musica elettronica stessa. È arrivato il momento di parlarne con lui, prima di vederlo dal vivo il 15 dicembre al Fabrique di Milano.

Di recente ti ho sentito criticare lo stato della musica elettronica in generale. Concordo quando tu la definisci il “nuovo pop”, ma non ritieni che ci sia anche uno stallo creativo oramai da due o tre anni?
Mi trovi completamente d’accordo. Troppe regole del music business legate a parole come “prodotto” e “follow up” hanno appiattito un genere che meriterebbe di essere rivalutato nel profondo.

The Great Electronic Swindle mi pare molto coeso esteticamente. Nonostante le diverse personalità coinvolte non suona come un disco di soli guest.
Quest’album non è stato prodotto per un risultato a breve termine e nemmeno è stato pensato per essere realizzato in breve tempo. Racconta quattro anni di vita dove ho avuto la fortuna e il piacere di confrontarmi con artisti e produttori incredibili, con i quali ho voluto raccontare una storia, la mia. Ognuno è stato coinvolto per creare un legame diretto di amicizia, empatia e rispetto, presupposti senza i quali questo album non avrebbe mai potuto vedere la luce.

A me piace moltissimo il modo in cui Jay Buchanan e Perry Farrell interpretano i tuoi pezzi. Vuoi svelarci qualcosa in più?
Jay è un artista straordinario con una voce altrettanto straordinaria. La sua personalità è molto simile a quella di uno stregone. Nothing but Love è il risultato di un’esperienza comune gridata in uno degli episodi musicali più intensi dell’album. Perry Farrell è un pezzo di storia della musica nonché un ottimo sperimentatore sociale: abbiamo pensato fosse una buona idea esprimere la nostra posizione rispetto alla situazione politica negli States. Il brano è stato registrato a Malibu presso il suo studio.

All Black Everything è un bell’incrocio tra le cose migliori di Skrillex e gli episodi anni ‘90 dei Nine Inch Nails. Com’è nata?
Sono sempre stato un fan dei Gallows dai tempi di Frank Carter e per una serie di fortunati eventi nel 2014 entrai in contatto con il frontman che prese il suo posto, Wade McNeil. Gli espressi la mia grande voglia di collaborare per creare un brano che riportasse le nostre influenze su un altro livello sonoro. Il periodo di gestazione è stato lungo ma ne è valsa la pena. Questo è uno dei miei brani preferiti in termini di aggressività, scrittura e produzione.

Foto di Enrico Caputo

Con quale degli ospiti hai avuto un feeling pazzesco, inaspettato?
Credo che l’esperienza con Jay Buchanan abbia in parte superato quella con Paul McCartney, avvenuta nel 2013, per il semplice fatto che l’empatia sviluppatasi scrivendo Nothing but Love è una di quelle avventure che amo descrivere con l’aggettivo “mistica”. Jay ha la forza di portarti in un’altra dimensione e per chi non conosce i Rival Sons vorrei suggerire due ascolti: Jordan e Where I’ve Been.

Che cosa ti ha dato lavorare all’estero e che cosa consiglieresti a un artista italiano per muoversi bene nel music business?
Lavorare all’estero è una fortuna immensa, permette di confrontarsi con usi, costumi e linguaggi diversi dai nostri. Dieci anni di incontri-scontri culturali hanno sicuramente allargato la mia visione del mondo e delle persone. Il mio consiglio? Crearsi un’identità forte e precisa, studiare la musica e soprattutto di imparare a dire “no”.

Bella l’idea di aver coinvolto ancora una volta Tanino Liberatore per la cover. Che cosa hai imparato – e soprattutto pensi di aver ereditato – da quella controcultura italica, così effervescente, della fine degli anni ’70 e dei primi ‘80?
Coinvolgere Tanino Liberatore era dovuto se non necessario: lui è il vero e unico responsabile della mia visione assurda del mondo. Pubblicare fanzine contro-culturali come Frigidaire, dentro cui erano contenuti i fumetti di RanXerox, nel 2017 sarebbe un’utopia. Questo mi fa pensare che la libertà di parola, di espressione artistica, culturale e politica non ci siano più. Io credo di avere ereditato il coraggio di rompere le regole sempre e comunque di prendere una posizione. Spero di poter essere d’ispirazione.

Cosa succederà dal vivo presto, visto che girerai gli USA dopo tre anni di assenza dai palchi americani?
Il My Name Is Thunder Tour sarà un’avventura fisicamente importante. Presenteremo il nuovo spettacolo in una performance non-stop di 90 minuti. Le città che andremo “a capovolgere” sono tante, da San Francisco a Chicago e Brooklyn, per poi tornare in Europa a dicembre. Questo tour mi vedrà anche impegnato in un Bootcamp, un programma di training “Bloody Beetroots Oriented” per portare i miei fan ad allenarsi con me in ogni città che andremo a visitare. Sveglia presto e tanta fatica!

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