Interviste

Esce “Singularity” di Jon Hopkins: «Costruire melodie mi viene naturale»

Jon Hopkins è fra i pochi producer in grado di incrociare i favori dei cultori del dancefloor con chi invece cerca sperimentazione e raffinatezza melodico-armonica. Lo abbiamo incontrato a Milano, con la scusa dell’uscita del suo ultimo lavoro, l’ottimo e calibratissimo “Singularity”

Autore Damir Ivic
  • Il15 Maggio 2018
Esce “Singularity” di Jon Hopkins: «Costruire melodie mi viene naturale»

Tranquillo, composto, educatissimo. Molto cortese. Jon Hopkins è il perfetto gentleman inglese e una persona che è arrivata al successo non all’improvviso, sull’onda di una hit fortunata, ma dopo un viaggio lungo e a crescita costante. Se oggi è uno dei più celebrati producer di musica elettronica di qualità, fra i pochi in grado di incrociare i favori dei cultori del dancefloor con chi invece cerca sperimentazione e raffinatezza melodico-armonica, è merito di un viaggio lungo quasi vent’anni trascorso collaborando anche con un’icona, Brian Eno, e produttori di gusto come David Holmes e Leo Abrahams. Con piccoli successi e più di una battuta d’arresto. Lo abbiamo incontrato a Milano, con la scusa dell’uscita del suo ultimo lavoro, l’ottimo e calibratissimo Singularity.

Jon Hopkins (foto di Steve Gullick)

Partiamo dalla domanda più banale: quanto è stato lungo e difficile completare il materiale che compone Singularity?


Una cosa penso di poterla dire: è il disco che ho sempre sognato di fare e che prima non sarei mai riuscito a realizzare perché non avevo abbastanza competenze tecniche.

Eppure nel tuo curriculum ci sono collaborazioni che definire ad alto livello è, semplicemente, un eufemismo: Brian Eno, poi i Coldplay… esperienze, tra l’altro, non certo di ieri ma di molti anni fa. Difficile insomma immaginarti sprovveduto a livello tecnico, se ti sei trovato a certi livelli ancora anni fa, prima del tuo successo personale.


Con Brian Eno ci siamo conosciuti grazie ad un amico in comune, con cui condividevo un posto come turnista nella band di Imogen Heap… Che dire? Ci siamo trovati subito bene assieme, difficile spiegare perché ma è andata semplicemente così. Per quanto riguarda i Coldplay, è stato proprio Brian a volermi coinvolgere nella lavorazione di Viva la Vida; poi loro hanno sentito il mio materiale solista durante alcune pause in studio e mi hanno chiesto di aprire i loro concerti in quel tour (inutile dire che all’inizio ero terrorizzato). Ma per quanto belle e umanamente soddisfacenti siano state quelle esperienze – e lo sono state – fare l’artista solista è qualcosa di molto diverso. Se lavori con Brian Eno, da musicista, il suo modus operandi è invitarti in studio, farti improvvisare e poi salutarti. Ci pensa poi lui a sviluppare tutto, tu sei tagliato fuori. Coi Coldplay il lavoro è stato un po’ più approfondito, forse, ma in ogni caso non sono mai entrate in campo la libertà e la responsabilità che si hanno invece quando si agisce in prima persona, per sé e solo per sé. Quando lavoro per qualcuno, poi, non posso seguire il mio iter preferito, che è quello di gettare costantemente idee sul tavolo, anche in modo disordinato e concitato, per poi individuare quelle su cui vale la pena lavorare. Quando le individui, poi, è lì che inizia la parte più difficile. Emerald Rush, la prima traccia estratta da Singularity, è un pezzo che amo, ma a lungo ho rischiato di cestinarlo: mi sembrava sciapo, incolore, solo dopo esserci girato attorno parecchio ho trovato il modo per valorizzarlo davvero. In generale, costruire una melodia è qualcosa che mi viene abbastanza facile, naturale, è sempre stato così. È trovare il giusto vestito sonoro che è sempre un’incognita.



C’è una grossa differenza tra i lavori ai tuoi esordi – penso a Opalescent (2001) e Contact Note (2004), che erano praticamente degli album chill out – e la musica tagliente e consistente che fai con Singularity.

Sono cresciuto io, è cresciuta la tecnologia attorno alla creazione di musica: per fortuna incrociando questi due fattori il risultato pare accettabile e significativo. Anche perché all’epoca dell’uscita di Contact Note mi ero davvero scoraggiato, sono sincero: pareva che a nessuno interessasse quello che facevo. Poi è successo che Sex & The City – sì, la serie televisiva – ha usato alcuni estratti da quell’album per la colonna sonora dell’ultima serie andata in onda, cosa che a sua volta ha incuriosito il reparto publishing della Domino, che mi ha messo sotto contratto. Per loro però ero una buona, piccola fonte di reddito potenziale per le edizioni, nulla più, non gli interessavo come artista da promuovere. Tant’è che fecero uscire Insides, il mio terzo disco (quasi dieci anni fa, ndr), solo sulla loro sub-label, la Double Six. Nemmeno loro ci credevano tanto. Del resto, avevo proposto quel lavoro alla Warp, alla Ninja Tune e alla 4AD, senza avere nessuna risposta.

Si saranno pentiti, col senno di poi.


Ma non gli do torto. Nessuno si aspettava quello che poi è successo. Nemmeno io. Tra l’altro, proprio l’Italia è il primo paese che mi ha fatto venire il sospetto che forse c’era davvero qualcosa di valido ed importante nella mia musica: ricordo una data, a Roma, al Circolo degli Artisti. Salgo sul palco: tutto pieno di fronte a me. Ho pensato: “Wow, com’è possibile? Sono qui per me? Fossimo a Londra, avrei suonato davanti al massimo trenta persone”.

Nell’anno e mezzo che ha preceduto l’uscita di Singularity ti sei reinventato anche come DJ: che esperienza è stata?

Una delle scoperte più interessanti della mia vita! Però io sono un DJ a metà, ho un approccio molto particolare. Non sono uno che ascolta molto quello che c’è in giro, che si tiene informato su ogni novità. Scelgo attentamente le tracce da suonare, lo faccio ben prima di ritrovarmi in console. Non do peso se sono tracce vecchie o nuove. Devono piacermi. E su quello sono maniacale. La prima volta che sono salito sul palco da DJ, all’End Of The Road Festival, avevo con me così poche tracce che erano solo sufficienti a riempire lo slot orario che mi era stato assegnato. Se il direttore di palco mi avesse detto: “Suona ancora dieci minuti!”, avrei allargato le braccia contrito, “Non posso, ho finito la musica” (ride, ndr). Poi, in un anno e mezzo, per fortuna il mio repertorio è cresciuto, ma è sempre smilzo e selezionatissimo. Non sono insomma un vero DJ. Ma nel provare a farlo, nel provare a capire come funzionano le dinamiche di un dancefloor, ho imparato tantissimo, anche come musicista. La cassa in quattro della techno in realtà ti offre una grande libertà e, al tempo stesso, ti aiuta a restare focalizzato, a non disperdere idee ed energie creative.


Ascolta Singularity di Jon Hopkins in streaming

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