Hip Hop

Addio a D’Angelo, il geniale re del neo-soul che ha ispirato Kendrick Lamar

Il nostro ricordo del cantautore della Virginia che, in soli tre album, ha rinnovato la musica dell’anima con le ritmiche e l’urgenza dell’hip hop

  • Il15 Ottobre 2025
Addio a D’Angelo, il geniale re del neo-soul che ha ispirato Kendrick Lamar

D'Angelo

Il tre, dalla scuola pitagorica fino ai giorni nostri, ha sempre rappresentato il numero perfetto, in quanto indica l’armonia, l’equilibrio e la completezza (inizio, mezzo, fine). Non a caso è lo stesso numero degli album realizzati in trent’anni di carriera da D’Angelo, nome d’arte di Michael Eugene Archer. Il padre nobile del neo-soul è scomparso ieri all’età di 51 anni, dopo aver combattuto segretamente per anni contro un cancro al pancreas. Una notizia tremenda non solo per il mondo della black music, ma per tutti gli appassionati di musica di qualità. Quella che sgorga direttamente dall’anima e che viene suonata con muscoli, cuore e sudore.

Che cosa hanno in comune Nat King Cole, Sam Cooke, Marvin Gaye, Aretha Franklin e D’Angelo, oltre ad essere cinque tra le più belle voci nere di sempre? Sono tutti accomunati dall’essere figli di un predicatore (pentacostale, nel caso di “D”, come lo chiamavano affettuosamente i suoi amici). Un’influenza che risulterà decisiva, anni dopo, per lo stile vocale e musicale di D’Angelo. Sempre in bilico tra musica sacra e secolare, tra fede e sensualità, tra ispirazione divina e carnalità. E proprio il gospel nella voce e la ieraticità dell’organo suonato in chiesa sono forse i due tratti che hanno sempre distinto la musica di D’Angelo rispetto agli artisti r&b che imperversavano alla metà degli anni Novanta.

Il sound di D’Angelo: denso, pulsante, magmatico

Mentre il suono di cantanti r&b come Mary J Blige, R.Kelly, TLC, Usher e Tony Braxton era pulito, levigato e fin troppo perfetto, il sound di D’Angelo è sempre stato denso, pulsante e magmatico. Pur nella sua raffinatezza tecnica e nei suoi arrangiamenti lussureggianti. Un sound non immediato, esattamente come quello dei suoi numi tutelari Prince, James Brown, Jimi Hendrix e Sly Stone. Ma proprio per questo così distintivo, coinvolgente, unico. La sua visione musicale non faceva distinzioni tra soul, funk, rock, r&b, hip hop e jazz, ma li riuniva tutti insieme in una tavolozza policroma, cangiante e sorprendente.

Un suono che ha fatto scuola negli anni Novanta, ma che nessuno è riuscito a imitare del tutto (se non la sua sorella d’arte Erykah Badu) e che è arrivato fino ai giorni nostri nelle sonorità di Kendrick Lamar. Pensiamo soprattutto al suo capolavoro funk-jazz To pimp a butterfly, uscito nel 2015 a pochi mesi di distanza di Black Messiah di D’Angelo. Le liriche politiche e al tempo stesso personali di K-Dot, rese ancora più indimenticabili da un gruppo affiatato di musicisti jazz (tra cui il pianista Robert Glasper e il bassista Thundercat), sono fortemente debitrici dell’ultimo lavoro in studio di D’Angelo. Mentre oggi i singoli e le playlist stanno lentamente soppiantando gli album, l’artista di Richmond ha edificato il suo mito su quelli che una volta venivano chiamati i 33 giri.

I dischi come opera con un’ispirazione unitaria

D’Angelo non è mai stato artista da singoli (solo Lady e Untitled (How Does It Feel) sono entrati nella Top 10 della Billboard 100), ma da album. Dischi intesi come opere con un’ispirazione unitaria, benché non propriamente concept, che fotografavano un periodo ben preciso e un suono trovato in modo quasi alchemico, dopo una lunga fase di preparazione. Una delle cose che colpisce di più del suo album di debutto Brown Sugar, pubblicato il 3 luglio del 1995, è la straordinaria maturità compositiva. D’Angelo aveva allora soltanto ventuno anni, ma ha rifinito quelle dieci canzoni per quattro lunghi anni con una precisione maniacale. Basti ascoltare le innumerevoli versioni a cappella, strumentali e alternative presenti nell’edizione deluxe celebrativa dell’album.

Una cura certosina del suono e nell’impasto delle voci che non ha minimamente intaccato il suo groove e la sua magia. Pensiamo all’irresistibile title track Brown Sugar, scandita dalla sua ritmica saltellante e da un falsetto degno di Marvin Gaye. Oppure alla splendida Lady, una canzone che esalta relazioni a lungo termine mentre l’r&b coevo non faceva che strizzare l’occhio alle “one night stand”(ogni riferimento ad R.Kelly è puramente voluto). D’Angelo, in Brown Sugar, si è ispirato ai maestri del soul classico, portandoli, in una versione più “sporca” e moderna, agli ascoltatori degli anni Novanta, cresciuti a pane ed MTV.

Il successo di “Voodoo”

Pensiamo alla riuscitissima cover di Cruisin’ di Smokey Robinson, uno degli eroi dell’era Motown, che l’artista della Virginia ha sottoposto a una cura ricostituente di funk e di groove obliquo. Dobbiamo aspettare ben cinque anni per ascoltare il seguito del suo acclamato debutto, un album eccezionale come Voodoo ripaga l’attesa. Vincitore di 2 Grammy Awards, il disco, registrato nel leggendario Electric Lady Studios usato da Jimi Hendrix, è ancora più ricco e ambizioso del precedente. I suoi testi, più maturi, esplorano i temi di spiritualità, amore, sessualità, maturazione e paternità.

Grazie alla regia illuminata di Questlove dei Roots e a una squadra affiatata di musicisti e produttori di altissimo livello (Pino Palladino, Roy Hargrove, James Poyser, J Dilla, Raphael Saadiq solo per citarne alcuni), Voodoo è stato un successo di critica e pubblico, vendendo oltre un milione di copie nei soli Usa. Ben cinque brani sono stati estratti come singoli. Devil’s Pie (ottobre 1998), Left & Right (ottobre 1999), Untitled (How Does It Feel) (gennaio 2000), Send It On (marzo 2000) e Feel Like Makin’ Love (aprile 2000). Un discorso a parte merita la hit Untitled (How Does It Feel), una ballad lenta, “princiana” ed esplicitamente sessuale a cui si devono numerose nascite nel 2001.

Il ritiro dalle luci della ribalta

Il video, che mostra il fisico scolpito di D’Angelo dalla cinta in su, è uno dei più iconici e imitati dell’inizio del Terzo Millennio. Trasformando il cantante/musicista (suo malgrado) in un sex symbol. Dopo un crollo emotivo durante il Voodoo Tour del 2000, D’Angelo si ritirò dalle luci della ribalta e i suoi problemi di depressione, droga e alcol divennero di dominio pubblico. Così come i suoi due arresti nel 2002 e nel 2005. Anni bui e dolorosi, in rotta con il mondo e con le etichette discografiche, che hanno preparato quello che è uno dei più trionfali e attesi “comeback record” di sempre.

L’uscita di “Black Messiah”

Il terzo album Black Messiah è uscito a sorpresa il 15 dicembre 2014, dopo 14 anni di attesa dal pluripremiato Voodoo. La postilla che si trova nel booklet del disco recita: “Per la registrazione non sono stati utilizzati plug-in digitali. Tutta l’elaborazione, gli effetti, il missaggio e la registrazione sono stati effettuati in analogico, su nastro, prevalentemente con strumentazione vintage”. Il risultato è un album incredibilmente caldo, sensuale e vibrante, tra denuncia politica e celebrazione del potere salvifico dell’amore. Per Black Messiah si sono scomodati paragoni impegnativi. Da What’s Going On di Marvin Gaye a There’s a Riot Goin’ On di Sly and The Family Stone, da Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles a Pet Sounds dei Beach Boys. 

Pietre miliari del rock e dell’r&b, accanto ai quali non sfigura affatto il disco del geniale artista di Richmond, soprattutto per la capacità di creare un sound unico (Pet Sounds) e per certi versi rivoluzionario (Sgt.Pepper), tra urgenza politica (There’s a Riot Goin’ On) e denuncia sociale (What’s Going On). Ain’t that easy, il brano d’apertura di Black Messiah, è un funk torrenziale e psichedelico in pieno stile Funkadelic, scandito da un’irresistibile ritmica hip hop che rende quasi impossibile stare fermi. Betray my heart è un brano dal sapore quasi jazzato con continui stop and go e una struttura quasi ellittica nella quale le variazioni sul riff procedono per linee orizzontali. 

Sugah Daddy è un funky bollente e ipnotico, nel quale D’Angelo rivela tutto il suo amore per James Brown, soprattutto nelle caratteristiche urla lancinanti. Uno dei brani più belli dell’album è sicuramente la ballad Really Love. Un capolavoro tra il latin rock di Carlos Santana e la sensualità soul del Marvin Gaye di Let’s get it on. 

D’Angelo live a Roma

Chiudiamo questo lungo excursus su D’Angelo con un ricordo personale. Il 6 luglio del 2015 ho avuto la fortuna di vedere D’Angelo dal vivo alla Cavea dell’Auditorium Parco della Musica, in una delle sue rarissime esibizioni in Italia (la sera dopo si sarebbe esibito all’Estathè Market Sound di Milano). Una serata dalla temperatura subsahariana, con quasi 30 gradi alle nove di sera. Ma D’Angelo si è presentato lo stesso con un cappello bianco e un lungo impermeabile pieno di strappi, che ha tenuto per i primi brani. Il concerto, sicuramente uno tra i dieci più belli tra gli oltre 1.000 a cui ho assistito, ha avuto un finale veramente memorabile.

Dopo aver eseguito Sugah Daddy, si spengono le luci e i musicisti si ritirano nei camerini per una breve pausa. Il bis si apre con un assolo di batteria, che introduce la monumentale Untitled(How does it feel), una delle più sensuali e provocanti degli ultimi trent’anni (giustamente premiata nel 2001 con un Grammy Award per Best Male R&B Vocal Performance). D’Angelo cerca di iniziare a cantare la prima strofa, ma si interrompe, una , due, tre volte, come bloccato dall’emozione(anche qui è evidente l’omaggio alle pantomime di James Brown). Il brano si prolunga per quasi dieci minuti, durante i quali tutti i musicisti, dopo un assolo, si congedano dal pubblico.

Alla fine restano solo il bassista Pino Palladino, idolo del pubblico italiano per le sue evidenti origini italiane e D’Angelo alle tastiere. Quando resta solo l’artista di Richmond a suonare e a cantare, si è creata ormai un’intimità e una magia con il pubblico che è difficile da descrivere. “Grazie Roma”, si congeda D’Angelo, “siete stati un pubblico fantastico, spero di rivedervi presto, peace and love”. Purtroppo non l’avremmo rivisto mai più. 

Share: