Chris Nolan ci racconta “Euforia”: «È un sentito omaggio all’analogico»
Il nuovo brano di Chris Nolan con Tedua, Madame, Birthh e Aiello, proietta il beatmaker verso la sperimentazione. La nostra intervista
Il brano Euforia, pubblicato oggi, è il genere di pietra angolare su cui si costruiscono le storie importanti. Lo è non tanto per una questione di valore (è presto per dire come e quanto il pubblico la farà propria), ma per quello che rappresenta. Si tratta infatti della “prima” (concedeteci la forzatura) prova ufficiale di Chris Nolan con un proprio singolo. Non il solito prod. by, per intenderci.
La differenza è sottile, ma c’è. Il pubblico lo sa bene: prima di riunire il fedelissimo Tedua, Madame, Birthh e Aiello sulla stessa strumentale, Chris Nolan si è affermato come uno dei massimi beatmaker nostrani. E questa è tutto fuorché una forzatura. Assieme a colleghi come Charlie e Sick Luke, ha dipinto il suono del game italiano dal 2015 in poi, regalandoci pennellate di indubbio valore negli affreschi discografici (soprattutto) di Tedua.
Ma Euforia è il primo capitolo di una nuova fase, in cui il producer si propone al pubblico con un percorso personale Nolan-centrato, con cui punta a scrivere una storia insieme inclusa e parallela, che possa permettergli di superare se stesso e i classici istantanei accumulati fin qui. Lo abbiamo intervistato per farci introdurre in questo nuovo capitolo.
Raccontaci come hai scelto la formazione per Euforia. Hai spiazzato una grossa fetta di pubblico.
È nato tutto con Birthh in studio nel 2017. Il brano era in preparazione da tanto tempo. Con lei abbiamo fatto le chitarre. Poi con un sintetizzatore analogico che avevo comprato ho fatto tutto il pezzo. È tutta roba vera, analogica, registrata al microfono. Dopo di che la parte di Madame è arrivata piuttosto velocemente. Una volta che il mio studio è stato finito l’ho ospitata – a prescindere dal singolo, avevamo già altri lavori in ballo – e c’è stata presa bene, ha registrato subito sul pezzo. Anche la strofa di Tedua è nata come una cosa veloce e genuina, senza starci troppo sopra a pensare. Tra l’altro Birthh aveva molto di più di quelle quattro barre, c’erano anche un mezzo ritornello in più e un’altra atmosfera. Ma ovviamente abbiamo dovuto tagliare un po’ per arrivare al pezzo finito.
E Aiello?
Era una voce che ancora non conoscevo bene. Ma per mantenere la coerenza di suono con l’analogico ho voluto una voce vera, senza autotune, che mi desse quella profondità classica italiana. Tengo tantissimo a questa cosa dell’analogico, le nuove generazioni lo utilizzano raramente.
In una vecchia intervista dicevi che a volte l’appartenenza alla generazione digitale ti sta stretta…
Assolutamente sì. In tutto il brano ci sono solo synth analogici.
A cosa prepara il terreno Euforia?
Beh, senza dire troppo (ride, ndr)… certamente ho in mente un progetto solista. Ci lavorerò con molta calma da qua a uno, tre, quattro anni, fino a quando sarà pronto. Voglio fare qualcosa che racchiuda la situazione del singolo. Immagina un disco con una chiave di lettura simile. Non intendo a livello musicale, ma in termini di ricerca di elementi particolari tra musica e combo. Sarà un bel viaggio, che farò e trascriverò con calma.
La generazione di beatmaker che ha rivoluzionato il game tra 2015/16 non ha mai prodotto un producer album ambizioso, in stile Not All Heroes Wear Capes. Come mai?
Se devo dire la mia, per come conosco i colleghi della mia cerchia, ci piace aspettare il momento giusto. Pensiamo tutti che sia meglio una cosa fatta bene piuttosto che dieci fatte tanto per. Quindi quando quelle dieci saranno fatte bene, allora le racchiuderemo. Ti parlo al plurale perché è un modo di lavorare che abbiamo dentro dal 2015. Mi riferisco ovviamente ai produttori, ci piace pazientare e uscire al momento giusto. Preferisco passare tre anni su un disco che ho sudato, perché vorrei rimanere colpito dalla musica che riascolterò tra dieci.
Come si vive, da produttore, la posticipazione di un disco atteso come quello di Tedua?
Io la vedo come una cosa bellissima. Fosse per me prenderei ancora del tempo. Non è Mowgli, non è Vita Vera Mixtape, ma è il secondo disco. O ti prendi tutta la calma del mondo o rischi di rovinarti la carriera. Sono contento che sia stato posticipato. Avremo più tempo per lavorarci.
La tua personale concezione di tempismo e attesa ti ha fatto mai scontrare con i colleghi?
Ovviamente all’inizio del 2015 eravamo tanto insieme, ad ogni sessione c’era modo di confrontarsi. Era come una riunione quotidiana. Tutti con la stessa filosofia su come affrontare la musica. Piano piano ci siamo distaccati e ognuno ha cominciato a fare le proprie scelte. Ma ci sono dei paletti in comune che portiamo avanti, li abbiamo interiorizzati. Se ci siamo trovati un po’ tutti ci sarà un motivo.
Hai mai pensato che per una parte di pubblico Chris Nolan sia vincolato all’etichetta di “producer di Tedua”?
È normale che succeda. Siamo cresciuti insieme. Poi certo, con il singolo sono riuscito a concentrarmi su me stesso, dando al pubblico quello che di solito do a Tedua per poi darlo alla gente insieme. Questa volta l’ho fatto io direttamente. Vedo il pubblico che riconosce questa cosa. Ci vuole tanto lavoro, non basta questo pezzo, ma prima o poi riusciremo a portare il mio marchio sulla mia produzione.
Quali eventi hanno forgiato la forma mentis di Chris Nolan?
A 9 anni ho avuto la fortuna di ricevere da mio zio un Dolby Surround. Mi cambiò la vita. Sono riuscito a sentirmi tutti i dischi che aveva negli scatoloni, da Phil Collins ai Val Halen fino ad Afrika Bambaataa. Mi sono fatto parecchie domande. Oltre ad ascoltare quella musica 24 ore su 24, mi chiedevo sempre “da dove arriva?”, “come si fa?”. Provavo a ri-simularla alla chitarra, da autodidatta. Strimpellavo fino ad arrivare alle melodie che stavo sentendo. Poi comprai la mia prima tastiera. Mio padre era appassionato di riviste di pc, che comprava tutti i venerdì. In un numero c’era dentro FL Studio, tipo il 3 o il 4. Installai il programma, e da lì è partito tutto. Se mio zio non mi avesse regalato quel Dolby Surround e mio padre non avesse comprato quella rivista, magari non avrei mai scoperto questa dote.
Quanti anni ti ci sono voluti per maturare questa consapevolezza?
Tanti…10 anni. A 17-18 ho fatto tre anni e mezzo di tour con Ghali. Nel 2016 è uscita Bang Bang con Sfera, Non lo so sempre con Ghali… l’atmosfera del tour poi ti dà una botta che non realizzi sul momento. Lì ho capito. Anche se non mi sento affermato, c’è ancora tanto da fare. Ma lì ho capito che era diventato un lavoro.