Hip Hop

Dylan non è più quello della Dark Polo Gang. L’intervista

“Love Is War”, il nuovo album di Dylan uscito venerdì, è la rinascita di un artista che col rap ha dato tutto e ora ha voglia di sperimentare. Anche a costo di non essere capito

Autore Greta Valicenti
  • Il16 Maggio 2023
Dylan non è più quello della Dark Polo Gang. L’intervista

Dylan, foto di Bogdan @Chilldays Plakov

Se c’è una cosa che gli artisti che cambiano pelle per sperimentare nuovi universi si sentono dire più spesso è “non sei più quello di”. Nel 2014 i Club Dogo ci hanno fatto addirittura un album, Non siamo più quelli di Mi Fist, beffandosi di tutti coloro che li avevano accusati di essere diventati commerciali. Anche Dylan non è più quello della Dark Polo Gang, anche se gli strascichi del passato si sentono ancora in Love Is War, il suo primo album solista uscito venerdì per Island Records/Universal Music Italy.

Dopo aver dato l’estremo saluto a Pyrex – il suo vecchio nome d’arte – inscenando un vero e proprio funerale, Dylan si spoglia del superfluo per arrivare all’essenza. E allora basta collane, vestiti appariscenti che iniziavano a stargli un po’ stretti e orpelli da trapper. Cambia tutto, anche il suono. Che vira decisamente verso il pop pur mantenendo salde le sue radici affondante del rap. E se il cambiamento spesso spaventa – soprattutto un pubblico di affezionati come quello della 2016 generation – per Dylan è stata la cosa più naturale del mondo. Ed è pronto a raccontarlo.

L’intervista a Dylan

Hai detto che nonostante tu sia stato tra i pionieri della trap in Italia, non te ne consideri uno stereotipi e non appartieni solo a quell’immaginario. Iniziava a starti un po’ stretto?
Mi è sempre stato stretto in realtà, dal primo giorno in cui ho iniziato a fare musica. Anche prima di iniziare, quando immaginavo il mio percorso, sapevo già che sarebbe iniziato con il rap grezzo per poi evolversi in qualcosa di più che fosse apprezzabile da chiunque. I miei gusti personali sono ai poli opposti: mi piace il rap o estremamente violento, o estremamente melodico. Nelle vie di mezzo non mi ci trovo molto, quindi ho voluto iniziare con la trap perché sapevo che crescendo sarebbe stato un genere più difficile da coltivare. Per me è arrivato il momento di tirare fuori altro. 

C’era qualcosa che in particolare ti aveva stancato del prima?
Beh, sì, banalmente anche l’abbigliamento. Le collane – che erano uno dei cavalli di battaglia della Dark Polo Gang – non le metto più già da tempo. Alcune tematiche e sonorità mi avevano stufato. Forse più che essermi stancato avevo voglia di sperimentare, fare altre cose, non avevo più voglia di rispettare determinate etichette. Sentivo di dover fare cose che non avevo ancora fatto e che magari mi venivano ancora meno bene. Il rap alla fine era una cosa che mi usciva così bene e così facilmente che era come se non mi divertissi più a farlo, non avevo più stimoli. Con la DPG abbiamo ottenuto dei risultati talmente grandi e importanti che forse non potevo nemmeno più superare ciò che avevo detto in precedenza. 

Quindi sentivi di aver dato tutto quello che potevi nel rap?
Sì, poi magari avrei potuto fare ancora il triplo dei brani, ma col tempo i miei stimoli creativi sono diventati altri. Forse sarà un po’ presuntuoso da dire, però siamo artisti, e tutti gli artisti hanno i loro periodi. Tipo Picasso, che ha avuto il periodo blu e poi quello rosa. Adesso questo disco è così, magari il prossimo sarà la roba più trap che sia mai esistita.

E questo passaggio è stato sereno o ci sono stati dei momenti in cui hai avuto paura del cambiamento? Anche per quanto riguarda le reazioni del tuo pubblico. 
Più che altro mi ha molto irritato la superficialità delle reazioni. Quello che dico spesso è che Cambiare adesso, che è il brano più streammato della Dark Polo Gang era già un brano pop. Vorrei non dover giustificare questo cambiamento. Il commento “torna a fare trap” non vuol dire nulla secondo me, non ho fatto nessuna transizione spirituale, ecco. 

Dylan, ueste reazioni ti hanno mai fatto pensare di tornare indietro in una comfort zone che forse è più degli altri che tua?
No, questa è una cosa che noi come DPG avevamo già sperimentato con Dark Boys Club, che era una roba registrata in quarantena. Tutti ci dicevano “tornate a fare le cose che facevate nel 2016”, ma in che senso?! Io sono più fresco di prima, sei tu che vuoi rivivere quel periodo, non puoi rompere il cazzo a me!

Quella per il 2016 poi è una nostalgia strana se ci pensi. Solitamente si prova per un tempo lontano, invece quell’anno è relativamente molto vicino. 
La gente ha nostalgia del 2016 perché la roba figa di quel periodo è che eravamo tutti gasati, tutti famosi e tutti collaboravano con tutti senza interessi, ma solo perché spaccavamo. Questo ha creato una reazione a catena potentissima che succede una volta ogni tot anni. Probabilmente non succederà più. Noi avevamo la gente in fissa, persone che si volevano vestire come noi. Un periodo assurdo.

Dylan e l’addio a Pyrex

“È molto facile cadere nell’errore di piacere agli altri prima che a se stessi e solo dopo averlo capito ho deciso che il mio nome d’arte sarebbe stato il mio vero nome”. C’era un muro tra l’artista e la persona?
Forse lievemente sì. A volte si fa l’errore di voler rispettare uno stereotipo che la gente ha creato nella propria testa. Alla fine se fai musica per come sei non puoi sbagliare. Poi io l’ho fatto anche per un motivo estetico e stilistico: penso che Dylan spacchi più di Pyrex. Voglio essere ricordato come Dylan, come me stesso. Sicuramente tanti non hanno capito questa visione. Forse se l’avessi fatto prima la gente avrebbe compreso di più, ora magari pensano che l’ho fatto perché con l’età ho sbroccato!

Qual è stato il primo brano che hai scritto per Love Is War?
La title track.

Nella copertina hai il volto insanguinato: è stato impegnativo scrivere questo disco?
Per la foto di copertina abbiamo scelto un fotografo molto famoso, Szilveszter Makó, che fa questi scatti che ricordano dei quadri dove dei modelli indossano armature medievali, quindi rispecchiava molto bene l’immaginario. Mettere il sangue in quel punto è stata una sua decisione. Ci sono altri scatti fighissimi inediti dove ci sono io con la mia testa in mano. 

Un po’ come Giuditta e Oloferne.
Esatto, ricorda un po’ quella cosa lì.

Beh, c’è un immaginario molto funereo, già dal teaser che avevi fatto per i due singoli.
Sì, questo disco parla tanto anche di morte!

Si dice che in amore e in guerra è tutto lecito. Invece nella musica è tutto lecito o ci sono dei limiti?

Dipende dal paese secondo me. In Italia forse ci sono un po’ di limiti. Però sì, penso che i limiti li costruisci te. Se tu pensi che ci sia un limite alla fine quel limite ci sta. Direi che non ci sono limiti alla musica, all’arte. Forse siamo arrivati a un limite con la tecnologia.

Invece in Aurora c’è una citazione di Amore e Odio di Guè.
Ah l’hai riconosciuta, grande! Secondo me neanche Guè la riconosceva!

Che poi concettualmente si lega a Love Is War.
Certo, in quel brano lì ho rubato quella rima a Guè, non gliel’ho nemmeno detto! Sai quando mi trovo in dei momenti intensi penso sempre al periodo in cui ho “subito” la musica più intensamente, ossia il mio periodo adolescenziale quando ascoltavo solo Club Dogo. Quindi mi sovvengono queste rime qua. È una cosa che fa spessissimo Lazza, però tanta gente non si accorge di queste citazioni. Comunque in quel brano cito anche Marra e Tedua.

Le produzioni di “Love Is War”

Tra l’altro ci sono tantissimi produttori in questo album, riesce a essere estremamente eterogeneo e allo stesso tempo molto coeso. C’è stata una direzione artistica?
C’è stata un po’ di difficoltà nella direzione artistica, perché all’inizio dovevano lavorarci Katoo e Drillionaire, poi Drillionaire ha avuto altri progetti e mi sono reso conto che era complicato avere due direttori artistici. Quindi diciamo che l’ho affidato a Katoo che però ha fatto più un lavoro da “collector”, perché viene da un immaginario molto distante dal rap. A me è tornato utilissimo perché per fare delle robe più… purtroppo devo dire pop, però…

Vabbè, non è necessariamente un male il pop, eh…
No, però ormai sembra quasi che lo sia.

È popolare, una cosa che arriva a tutti…
Più di impatto diciamo, no? Quando senti il drop del ritornello e ti dà lo schiaffo, è più di impatto. Quindi per quello mi è stato utilissimo. Poi in realtà è stato un disco pieno di difficoltà.

La genesi è stata lunga?
Non troppo, è stato un lavoro di un anno circa.

Nell’album c’è un altro gigante del rap, Noyz Narcos.
Era da quando ero ragazzino che volevo fare un feat con lui. Ha insegnato a tutti noi come si fa questa roba. Poi su un beat di Night Skinny che è il producer rap per eccellenza. Sono contentissimo di aver fatto una roba old school con loro e Guè.

Dylan, cosa ti auguri per il futuro?
Di dare sempre il massimo e di condividere la mia creatività con la gente e cercare di, tra virgolette, educare la gente alla musica più profonda e meno superficiale. O almeno contribuire alla musica in Italia sotto quell’aspetto. Che va bene anche la musica ogni tanto superficiale, piace a tutti, però voglio essere riconosciuto come artista di spessore e di contenuto.

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