“Il Ragazzo D’Oro” di Guè dieci anni dopo: un classico senza aggiunte
Guè è riuscito a diventare grande, ma il game fa ancora i conti con le assenze. Ecco perché quel disco suona ancora così attuale
Un evento discografico come Il Ragazzo D’Oro, celebrato dall’uscita odierna della repack 10 anni dopo, può essere interpretato in molti modi. In tanti ne hanno scritto, ne scrivono e ne scriveranno, aggiungendo ulteriori chiavi di lettura ad uno dei progetti più influenti della storia del rap italiano. E, proprio per questo motivo, ai limiti dell’intoccabile. Inutile negarlo: non a tutti piace l’idea che una cosa considerata già perfetta di suo venga rivisitata.
E spesso non basta nemmeno considerare che simili release non sostituiscano gli originali. Si tratta, in fin dei conti, di un surplus, che però rimette in discussione la forma originale. Per giudicare questa uscita in poche righe, e dopo così poco tempo, può essere utile rifarsi ad un elemento che attraversa tutta la storia solista di Guè Pequeno: l’assenza.
A costo di suonare provocatori, questa repack ha un pregio: non aggiunge parole al disco. L’assenza di nuove strofe, in questo senso, ci permette di confrontarci con il classico nella sua essenza, mettendolo alla prova con tappeti diversi. Firmati, tra parentesi, da chi bene o male ha un legame particolare con Il Ragazzo D’Oro e il suo autore. Ci sono i compagni di viaggio, come Don Joe, The 2nd Roof e Shablo. I figliocci, come Lazza. Non mancano nemmeno reminder come Gemitaiz, che ci ricordano quanto la carriera e le intuizioni professionali di Guè abbiano fatto da collante alle più importanti realtà emerse nella scena. Ancora una volta Mr. Fini ha saputo dare spazio agli altri, senza distinzione generazionale, nel modo più intelligente e funzionale possibile.
La partita di Guè
Questa scelta si rifà indirettamente al senso dell’uscita dell’album nel 2011. Il concetto calcistico di golden boy è l’apoteosi del colpo solista, che separa il singolo dalla squadra, l’artista dalla scena, portandolo in copertina. «Più mi alzo dal suolo, più rimango da solo». Parole che risuonano profetiche non soltanto della separazione dai Club Dogo, ma anche del ruolo che G avrebbe ricoperto nei dieci anni successivi. Così prolifico, così continuo, così vincente, così sperimentale – letteralmente: dal reggae alla cumbia, le ha provate tutte.
Forse, anche per questo, così vittima di un’altra assenza. Imputata da altri, ben inteso: quella del contenuto, che i detrattori ciclicamente ripropongono non appena lo sentono parlare “di figa e soldi”. Ma è davvero possibile vivere dieci anni di carriera del genere se non si ha davvero niente da dire? Evidentemente no, e chi ha ascoltato Guè Pequeno lo sa. Conosce il suo modo di mettere in rima i vuoti. Ed è proprio l’assenza di toni consolatori a rieccheggiare più forte che mai in questa repack, che ci costringe a concentrarci totalmente sui temi originali, rivedendoli alla luca del presente. E qui si coglie tutta la portata del classico, che ancora ci parla.
Il Ragazzo D’Oro non è il disco più cupo di Guè, ma la mancanza di qualcosa che possa completarlo è già palpabile. Il passo successivo era obbligato: diventare grandi da soli. Ma la crescita si è consumata in una scena che, oggi come allora, continua a lamentare le stesse assenze. Una su tutte, l’assenza di un pubblico con la cultura del rap, che in Italia non sembra aver mai trovato la propria via, perlomeno a detta degli artisti più autorevoli. Una cultura sacrale per molti, Guè in primis, ma che non ha attecchito fino in fondo in una terra dimenticata a lungo dal rap.
Molti elementi di quel movimento non ci sono mai stati qui da noi, così come molte immagini nelle canzoni non sono mai state capite. Anche qui, altre assenze. In mezzo a tutto questo, l’unica è farsi il vuoto intorno per farsi sentire. A modo proprio fino in fondo, con la propria visione del rap, dei soldi e del contenuto. La scelta giusta, se dieci anni dopo non c’è un solo artista che spicchi che non si lamenti di un elemento strutturale di scena o pubblico, sottolineando la fragilità dell’insieme, rispetto alle possibilità che dà inventarsi il gol da solo. Il Ragazzo D’Oro, a modo suo, ci ricorda anche questo.