Hip Hop

Il ritorno di CoCo: «Ho dato al rap le chiavi di “Floridiana”»

Dopo l’apprezzato Acquario, CoCo torna domani con un ispirato progetto di inediti, tra fragilità, sonorità anni ’80 e parole per il figlio

Autore Filippo Motti
  • Il5 Novembre 2020
Il ritorno di CoCo: «Ho dato al rap le chiavi di “Floridiana”»

CoCo

«Resterò mio, mio / Non so se durerà, ma resterò». CoCo aveva chiuso così l’ultimo album Acquario (2019), con una convinzione capace di vincere il tempo. Lo stesso tempo che sembra divorare ogni creazione musicale dell’urban odierno.

L’offerta batte come un tamburo, il marketing idem. Ma l’ascolto è effimero, nel senso che – fedele all’etimo – dura “un sol giorno”, in cui l’ascoltatore si ubriaca di euforia e si fa bastare le prime impressioni. Il responso? Disco dell’anno. Ogni venerdì la stessa storia. Che ci racconta perlomeno un’altra verità: tutto si presenta fiammeggiante, ma molto sbiadisce in un fuoco fatuo.

Da Acquario a Floridiana

Con Acquario, CoCo aveva davvero confezionato un papabile disco dell’anno. Titolo che lascia il tempo che trova, ma per il quale pochissimi lavori possono davvero dirsi all’altezza. L’ultima fatica di Corrado rientra tra questi. Ce lo suggerisce il consolidato rispetto di critica, scena e pubblico per una formula elegante e personale che in Italia non ha eguali. Una bellezza fragile, tratteggiata da CoCo in parole e suoni, che è rimasta, anche se si è smesso di parlarne ogni settimana.

Fragile come la Milano in cui incontriamo l’artista napoletano per parlare del nuovo progetto in uscita domani, Floridiana. La città si è riscoperta debole, dopo che la pandemia è tornata a far paura, e cerca di tutelarsi come può, tra incertezze (il lockdown) e pochi punti fermi.

Nella cover del disco i punti fermi di Corrado sono i fiori, anch’essi fragili, delicati, talvolta effimeri, ma indispensabili per dare respiro a chi si trova in balìa delle brutture del mondo. Non a caso Floridiana è anche il nome del parco della gioventù del rapper. Un’oasi a Napoli. Proprio come la sua musica, oasi fragile e corroborante per molti appassionati.

Ci hai sempre abituato a dimensioni sonore molto sofisticate ed eleganti. Ci sono artisti in particolare che ti hanno ispirato durante il processo creativo?

Ho le mie influenze. L’underground UK mi ha ispirato tantissimo, così come il Lo-Fi. Allo stesso tempo ho una grande passione anche per il mondo anni Ottanta. Nel disco ci sono sfumature così, perché sono comunque super fan dei Daft Punk, dai tempi di Random Access Memories. Quel disco mi ha segnato, ma prima di sperimentare sonorità del genere ho fatto passare un po’ di tempo. Quando mi sono sentito pronto l’ho fatto.

C’è una cantante inglese fortissima, di nome IAMDDB, purtroppo semi-sconosciuta in Italia. Mi ha stupito trovare il tuo nome tra i suoi follower…

Ascolto sempre nuovi generi e artisti. Mi piace la roba acustica, come può essere Paul Mc Cartney, o passo da IAMDDB, TrapSoul, The Weeknd, Drake, DaBaby… è un’insalata di cose!

Effettivamente in Las Vegas si sente molto The Weeknd…

Sì, è prettamente un sound anni Ottanta che molti sicuramente assoceranno a lui, dato che è l’artista mainstream del momento. Ma quelle batterie e quel sound mi affascinano da sempre sotto tutti i punti di vista, sia a livello di immaginario estetico che di emotività. Non so neanche dirti perché, visto che non l’ho vissuto direttamente sulla mia pelle.

La genesi del progetto

Una domanda sulla title track. È interessante il contrasto tra l’immagine dei fiori, che evoca fragilità, e il volersi affidare del tutto al proprio pubblico riguardo alla natura del disco. Dici che starà a loro decidere cos’è Floridiana, quasi ti affidassi al loro gusto e alla loro visione.

Floridiana non doveva essere un progetto di 14 tracce. Era nato come un EP che doveva uscire a marzo, con 6 tracce. Poi col tempo ho aggiunto altre cose e confrontandomi con Island ci siamo detti «Che vogliamo fare?». A quel punto non era più un EP. Agli occhi di molti sembrerà un disco, anche se io non lo vivo al 100% così. Ma solo per il modo in cui ho lavorato. Di solito sono più perfezionista, cerco di dare uno stato d’animo ben preciso. Qui invece è più una raccolta di stati d’animo di quest’ultimo periodo. Nel mio immaginario non è ufficialmente un album. Non mi piace l’idea di chiamarlo “il mio secondo disco ufficiale”. Però la musica è percezione, ognuno lo vivrà in un determinato modo.

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.FUORI IL 6 NOVEMBRE.

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C’è un pezzo di Acquario, Meglio se ora vai, che sembra dialogare con Sbagliare di Floridiana. Nel primo guardi con lungimiranza, disincanto e prudenza a come evolverà il rapporto. Nel secondo c’è maggior esposizione al rischio. È cambiato il tuo modo di gestire le relazioni?

È consequenziale, Sbagliare parla di un’altra storia. Lì alla fine, nonostante sappiamo che stiamo sbagliando e che “dovresti andare via”, continuiamo a sbagliare. Siamo bravi solo a fare quello. I miei rapporti sono sempre stati così: relazioni difficili che si sa dove vanno ma allo stesso tempo no. A volte certi legami sono difficili da gestire. Ma penso che anche in questo disco esca fuori il mio solito modo di vivere le relazioni. Farà parte di me per sempre.

CoCo e il taglio classic

Il rappato torna protagonista. Basti pensare alla quote del ritornello di Troppi Soldi (ripresa di Mo’ Money Mo’ Problems di Biggie Smalls, ndr).

Sentivo l’esigenza di farlo. In primis perché con il rap ci si può esprimere di più. Quando rappo riesco a dire più cose, sia per come formulo le parole sia per le possibilità che ti dà il flow. Vengo dalla melodia, mi piace tantissimo, ma volevo riuscire a dire di più. Poi sentivo proprio la voglia di fare rap, infatti in studio quando lavoravamo al disco continuavo a ribadirlo. Quello è il mio mondo principale. Lo amo, come amo un determinato tipo di rap. Il mondo classic, à la J Cole. Quasi tutte le sfumature rap dell’album sono così. Non mi piace il rap crossover, se dovessi rappare sulla produzione di Sbagliare potrei farlo, ma preferisco di no. Voglio farlo su una strumentale che mi smuove, e mi riporta al rap per come l’ho conosciuto io.

In un certo senso Compleanno è il prosieguo di Sebastian, entrambi pezzi in cui si parla di tuo figlio. Mi aveva colpito un passaggio del brano di Acquario: «Per spiegare l’oceano ad un cieco devi soltanto buttarlo dentro». Come ti trovi ad oggi in quell’oceano che è la paternità, che immagino ti metta in balìa di tante situazioni? Pensi che la tua musica modificherà l’idea che lui si farà di te?

Per quel che riguarda l’ultima domanda, forse la musica si sta già involontariamente mettendo in mezzo al rapporto. Purtroppo la mia carriera è qui in Italia, e sta diventando sempre più difficile riuscire a spostarmi. Compleanno nasce proprio da questa esigenza. È un pezzo che ho fatto per me. Non so quante persone riusciranno a capirlo… tra l’altro è stato l’ultimo brano dell’album che ho chiuso. Sentivo il bisogno di spiegarmi con lui, anche se non so se e quando lo sentirà. Ha 4 anni e non parla italiano. Per il resto, non è un periodo facile sotto quel punto di vista. Alcune cose non sono andate come dovevano, altre non stanno andando come dovrebbero, e non la sto vivendo benissimo.

Immagini e significati

In Aeroporto dici: «Capisci che ce l’hai fatta quando non ne parli».

Nasce dall’esigenza che vedo in giro di voler per forza ostentare i propri traguardi. C’è la pandemia dei social network, che danno la possibilità di mettere in vetrina un mondo che nella maggior parte dei casi è vero per il 20%. Oggi si vedono un sacco di persone mostrarsi per quello che non sono e mostrare quello che non hanno. La mia riflessione era questa, chi ce l’ha fatta veramente non ha bisogno di dirlo. Sei arrivato quando non ne parli più.

Questo non toglie la possibilità di dare l’esempio a qualcuno che vuole farcela con il rap?

L’esempio non deve essere scritto o verbale. Se io ce la faccio è sotto gli occhi di tutti. Lo sai, lo vedi.

Due parole su un’immagine di Eredità (feat. Luchè, ndr): «Ricordati che in fondo un muro ha sempre due lati».

Ho scritto questa cosa prendendo come riferimento il mondo dei social e il tema dell’esibizionismo. «Prova a guardare dietro quello che voglio mostrarti». È un invito, non fermarti all’apparenza, alla superficie. Alla fine anche un muro ha un secondo lato. Molte volte anche noi selezioniamo quello che vogliamo far vedere. Ma non devi fermarti a questo. Capiscimi.

In Ferrari Blu scrivi: «Non ti dico quello che voglio perché poi non lo voglio più». C’è qualcosa che credevi di volere quando hai iniziato a fare musica, ma che oggi non ti interessa più?

No, più che altro mi sono reso conto che quello che idealizzavo, una volta arrivato ad un certo livello, è diverso dalla realtà. Non ho ancora raggiunto tutti gli obiettivi. Ma più vado avanti più mi rendo conto che ogni piccolo traguardo che ho collezionato non mi ha dato quell’emozione che credevo di vivere.

Personalmente credo che Calabasas fosse uno dei brani migliori di Acquario. Una vibe incredibile. C’è un pezzo simile in questo album, in cui il mood è al centro di tutto?

No, direi di no. Forse l’interludio, Deja vu, per come l’ho vissuto ha un po’ quella cosa lì. Calabasas è uno dei miei pezzi preferiti, l’aveva prodotta un ragazzo inglese, la tipologia di sound è molto L.A., à la Isaiah Rashad… però è anche uno dei brani che meno hanno capito in assoluto. È arrivato proprio a poche persone.

Il tuo brano preferito di Floridiana?

Forse Eredità, per una serie di cose. Sono molto legato al ritornello di Luca, l’ho preso come una dedica nei miei confronti.

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