Hip Hop

Mondo Marcio: «Ho fatto spesso pezzi da spaccone, ma sono stato il rapper che si è messo più a nudo»

Il 7 ottobre uscirà Magico, il nuovo album di Mondo Marcio. Ne abbiamo parlato con lui in questa intervista, tra autoriflessione e un pizzico di sana autocelebrazione

Autore Billboard IT
  • Il30 Settembre 2022
Mondo Marcio: «Ho fatto spesso pezzi da spaccone, ma sono stato il rapper che si è messo più a nudo»

Mondo Marcio

C’è stato un anno preciso, nella storia del rap nostrano, in cui l’Italia si è finalmente accorta di un genere musicale dal carattere così deflagrante da non poter più essere ignorato. Correva l’anno 2006, e da allora la musica cambiò per sempre. A risvegliare dal torpore un Paese legato come pochi altri alla sua tradizione pop ci aveva pensato un ragazzo milanese di neanche 20 anni con un album che in brevissimo tempo macinò un successo fino ad allora ritenuto impensabile per il mondo dell’hip hop. Il sasso lanciato nello stagno si chiamava Solo Un Uomo e il suo autore, Mondo Marcio, stava aggiungendo un tassello fondamentale per diventare una delle pietre angolari del rap italiano.

Oggi quel ragazzino è uscito dalla scatola, è diventato un Uomo e, tra autoriflessione e un pizzico di ego per ribadire che sedici anni dopo è ancora tra i migliori a fare questa roba, ha tirato fuori il suo lato Magico nel suo nuovo album in uscita il 7 ottobre.


L’intervista completa è sul numero di Billboard di settembre, qui un’anticipazione.

Innanzitutto volevo chiederti come stai, visto che My Beautiful Bloody Break Up era stato un disco a dir poco sofferto. Sono Giorni migliori rispetto a un anno fa?

Senza dubbio sì. My Beautiful Bloody Break Up era una lettera d’amore e di sfogo che ho scritto in un momento molto combattuto, per non dire tosto, della mia vita. La differenza principale tra My Beautiful Bloody Break Up e Magico è che il primo è un disco di Gianmarco, il secondo è il nuovo album di Mondo Marcio. Non che non siano la stessa persona, sia chiaro, però My Beautiful Bloody Break Up non era neanche stato pensato per arrivare alle persone. L’avevo scritto per me e poi ho pensato che forse potesse avere a che fare anche con qualcun altro.


Per quanto riguarda me, adesso sto cento volte meglio. Quando candiamo è per imparare a rialzarci e a livello umano penso di essere la conferma di questo detto; mi sono rialzato così tante volte che ormai è diventato uno sport. Sono abituato agli alti e bassi della vita e ora devo dire che sono in up. C’è una forma di normalità che sta tornando, c’è la musica, sono tornato a suonare e a fare quello che mi fa stare bene quindi sì, posso dire che i giorni migliori sono decisamente qui e ora.

Spiegami un po’ cosa intendi quando dici che My Beautiful Bloody Break Up è il disco di Gianmarco e Magico è il nuovo album di Mondo Marcio.

Semplicemente My Beautiful Bloody Break Up all’inizio non doveva nemmeno essere pubblicato, era un disco nato in un momento in cui stavo male e l’unica cosa che mi faceva stare bene era la musica. Questo non vuol dire che Magico sia meno vero, ma ha un appeal rivolto a chi può e vuole ascoltarlo. In questo album tengo anche in considerazione chi ho davanti, cosa che non era accaduta con My Beautiful Bloody Break Up

Quando ho visto l’Outro mi è venuta in mente una frase che Fabri Fibra dice nel suo disco che è «Questa è l’outro, e lo so che non va più di moda fare l’outro perché nessuno ascolta più i dischi dall’inizio alla fine». Il modo in cui hai disposto le tracce in Magico segue un ordine preciso? Ascoltandolo mi è sembrato che l’Outro vada a chiudere un cerchio che inizia con quell’intro potentissima con Gemitaiz.

Non è un concept album, l’idea dietro ad un’intro e a un’Outro così cazzute e aggressive è quella di rendere chiaro a tutti che i rapper italiani non possono fottere con Mondo Marcio. Negli ultimi anni ho riflettuto molto e ho capito che l’ego non è una risorsa, ma un limite, però in certi momenti – soprattutto quelli legati alla competizione – è necessario. Il rap è un’arte, ma a volte diventa quasi uno sport e lì l’ego deve un po’ uscire fuori.

L’ego è sicuramente una componente importante, però nel tuo disco tocchi anche tematiche come il ritorno all’essenziale, l’allontanamento da tutto ciò che è superfluo e il rigetto dell’ostentazione, motivi in netta controtendenza con quelli dominanti oggi, soprattutto nella trap.

Certo, l’ego serve, ma la morale è che sto imparando a dosarlo il più possibile e ad usarlo a intermittenza. Se ci pensi è quello che faceva un po’ anche Kobe (Bryant, ndr), che era una persona estremamente generosa ma quando entrava in campo accendeva l’interruttore e diventava una macchina da guerra con l’unico scopo di distruggere l’avversario. In quel momento scattava la competizione e l’ego serviva eccome. Dall’altra parte, gli ultimi due/tre anni sono stati un grandissimo insegnante per me per cancellare l’ego.


Ci sono pezzi come Mezzanotte – che è uno dei miei preferiti del disco –, Allo specchio e Desideri in cui sono totalmente vulnerabile e mostro completamente il fianco. L’ego qui non serve. Ho fatto spesso pezzi da spaccone, talvolta anche in maniera giocosa, però sono stato il rapper che si è messo più a nudo. Per quanto riguarda l’andare in controtendenza è una cosa che purtroppo o per fortuna faccio da sempre. Dei flex e dell’ostentazione non me ne è mai fregato niente, mi sono sempre concentrato su quanto la mia musica fosse credibile in relazione alla vita che faccio.  

La vulnerabilità di cui parli emerge molto bene, nel disco si percepisce una componente estremamente personale e autoriflessiva. Tra l’altro questa tendenza a scavare sempre più nel profondo della propria interiorità è una cosa che negli ultimi anni si è diffusa parecchio, più tra voi veterani del gioco che tra i ragazzi più giovani, ovviamente con le dovute eccezioni. È una cosa che hai notato anche tu?

Come ti dicevo prima nel disco ci sono pezzi in cui ricordi a tutti quello che sai fare sono necessari, però Magico non è quello. Magico è un album estremamente personale, tutto ciò che racconto parte da esperienze personali, ma quella è sempre stata la caratteristica principale della mia musica. La mia prerogativa è sempre stata quella di non fare nulla che risultasse artefatto. Questa è una tendenza che ho notato anche io, però penso anche che tutto sia legato ad un determinato contesto.

Se i trapper oggi parlano di ciò che parlano è perché sono cresciuti in un contesto sociale diverso; a 18-20 anni ciò a cui ambisci è essere accettato dagli altri e quello che i ragazzi vedono oggi è un bombardamento continuo di ostentazione. Sui social viene professato uno stile di vita irrealistico e distorto, solo che se hai 30 anni e passa questa cosa più o meno la capisci, se ne hai 20 quello è il tuo mondo. Io mi sono sempre basato su altri criteri, ma questo l’ho fatto sin da quando ho iniziato e penso che sia il motivo per cui la mia fan base è così fedele e per cui con la mia musica ho fatto la differenza.

Un’altra cosa molto interessante del tuo disco è l’artwork. A primo impatto mi ha un po’ ricordato quello di Mr. Morale & The Big Steppers di Kendrick Lamar e trovo che rifletta molto bene l’idea di essenzialità di cui parlavamo prima.

Il concept dell’artwork è quello di un viaggio sia indietro che avanti. La magia di cui parlo nel titolo del disco è quella personale, è il tuo talento, la tua passione, ciò che ti fa stare bene. Il ragazzino sono io nel passato che ambisco a diventare ciò che sono del presente ma può essere qualsiasi altro ragazzino che vede la mia faccia sul poster attaccato al muro e può trovare in me un’ispirazione. Il senso è trovare qualcosa che ti elevi e che ti faccia stare meglio. Penso che, per quanto si voglia parlare di genialità, partiamo tutti dalla stessa base, tutti abbiamo un nostro talento. Sicuramente esiste un’inclinazione naturale, ma poi per svilupparla serve tanto lavoro. Il messaggio del mio disco è proprio questo, e la copertina lo completa. Per quanto la tua stanza possa essere buia e opprimente, tieni sempre accesa quella fiamma che ci brucia dentro.


Per quanto riguarda le sonorità del disco sono molto eterogenee. Si passa da pezzi che sono dei veri e propri classic rap a brani che hanno un sound dal sapore quasi etnico. Ci sono state delle cose che hai ascoltato che ti hanno influenzato nella realizzazione di Magico?

Ho ascoltato molto afrobeat e afrodrill. Sono andato a ripescare anche tanto rap delle origini che ascoltavo da ragazzino come A Tribe Called Quest, Gang Starr, MF Doom, etc. Ha un calore molto diverso dalla musica che c’è oggi, per quanto comunque la apprezzi, ma i sample che si usavano nei primi anni 2000 avevano un appeal molto diverso, non erano plasticosi, ma credo che anche questo dipenda comunque dal contesto, del resto l’arte tende sempre a imitare la realtà. Ciò non toglie che nel disco ci siano pezzi che virano anche verso la trap o la drill, come ad esempio Fuoco e ghiaccio, perché comunque mi piace rimanere sempre aggiornato.

A proposito di arte che imita la realtà, sempre nell’Outro scrivi «Non dici in un album quello che dico in due righe, vuoi dire qualcosa ma non hai qualcosa da dire». Trovi che negli ultimi anni ci sia stato un annichilimento dei contenuti e che questo possa dipendere da una sensazione di nichilismo diffusa nelle nuove generazioni?

Su questo vorrei fare una premessa importante. Non sono mai stato uno di quelli che vuole per forza mettere il contenuto nelle canzoni. Io credo nei pezzi veri, nell’arte genuina, cerco prima di tutto qualcosa che mi emozioni. Poi se quella cosa lì me la dai mettendo due parole in croce o facendo le rime della vita sono affari tuoi. Per quanto riguarda la tua domanda, io penso che tutto sia figlio di ciò che viviamo, e quello che viviamo ora è un bombardamento di offerta che è eccessivo rispetto alla domanda.

Con quella barra volevo dire che tutti ormai si sentono legittimati a parlare anche se nessuno gli ha mai chiesto niente e ciò succede perché hai gli strumenti per farlo. Questa abbondanza di offerta paradossalmente porta ad una chiusura più che ad un’apertura. Siamo più connessi che mai ma non ci siamo mai sentiti così soli e non siamo mai stati così incattiviti. La mia idea è rompere quella gabbia per dare dei contenuti veri che ti facciano mettere giù quel cazzo di telefono e ti facciano provare qualcosa di reale.

Trovi che ci sia una differenza di attitudine tra quella che avevate voi all’epoca e i ragazzi che emergono oggi?

Penso che una delle differenze principali sia nelle aspettative. Prima le aspettative erano fin troppo basse, se riuscivi a fare qualcosa di grosso con la musica eri davvero uno dei pochi eletti che aveva lavorato più duro degli altri. Adesso è come se fosse tutto dovuto, c’è un po’ questa sensazione di entitlement. Una cosa che noto è che si è perso anche quell’alone di mistero che prima c’era attorno all’artista. Mi ricordo che all’epoca quando usciva un disco del tuo artista preferito era un evento, per conoscerlo dovevi per forza ascoltare la sua musica perché non avevi altro. Quello per me era una figata, c’era un’aura magica. Adesso forse si è un po’ persa l’attenzione verso l’arte e si è spostata su altro. In queste dinamiche mi accorgo di essere una mosca bianca perché quello a cui punto è tutt’altro.


Per quanto riguarda invece i featuring di Magico, come sono nate queste sinergie?

Con Gemitaiz avevo già collaborato ed è un artista che mi piace molto, apprezzo molto il suo essere sempre attuale senza per forza inseguire i trend del momento. È uno che è sempre stato fedele a se stesso. Con Nyv avevo già lavorato su diversi progetti e la sua voce era proprio giusta per il pezzo. Caffelatte è stata una super scoperta: ha scritto personalmente il testo che canta ed è una cosa che apprezzo sempre e poi è proprio stilosa. Arisa ha coronato a dovere il disco e la cercavo da tempo.

Senti per concludere volevo farti una domanda un po’ provocatoria. Dentro alla scatola fu uno dei pezzi che più contribuì a rendere popolare il rap in Italia e quel brano è tuttora uno dei capisaldi del genere, allo stesso tempo però il feat con i Finley aveva portato molti ad accostare la tua immagine più al pop che al rap. Tornassi indietro è una scelta che rifaresti?

Sicuramente sì. Quello che volevo fare io era portare il rap a livello mainstream e l’ho fatto da solo con un disco prodotto nella mia camera. Ero stufo di sentirmi chiedere “Sì, ma di lavoro cosa fai?” quando dicevo che facevo il rapper. Volevo che il rap in Italia non avesse nulla da invidiare alla musica leggera, anzi volevo proprio invertire questa dinamica e ora sono gli artisti pop a cercare i rapper. Il featuring coi Finley poi è stato veramente relativo, io a quell’epoca arrivavo da un disco d’oro e da uno di platino per Solo Un Uomo. La mia volontà era quello di portare il rap a tutti e quello era l’unico modo per farlo. Questa cosa è sempre successa in tutti i paesi e nessuno non ha mai detto niente, in Italia c’è una mentalità molto quadrata.

Il senso era far vincere tutti quanti e il featuring coi Finley in realtà è stata una vittoria per tutta la scena italiana: se una ragazzina di 13 anni che ascoltava i Blink-182 ha iniziato ad ascoltare il rap nel 2006 è anche grazie a Dentro alla scatola. Tutti quelli che hanno fatto i duri e puri e mi hanno criticato, anni dopo hanno fatto esattamente la stessa identica cosa. Ti dirò di più: rispetto ad altre cose che sono uscite dopo, Solo Un Uomo era un disco hardcore. In quell’album parlavo di droga, assistenti sociali, divorzio. Quella roba aveva spostato veramente qualcosa.

Mondo Marcio porterà live Magico il 1° febbraio a Largo Venue a Roma, il 2 febbraio ai Magazzini Generali a Milano e il 3 febbraio all’Hiroshima Mon Amour di Torino.


Intervista di Greta Valicenti

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